NENIE SALENTINE




Daniela Romano



Come presso i Greci, così presso i Romani vigeva l'usanza che, quando moriva una persona, i parenti invitavano delle donne le quali, a pagamento, si recavano nella casa in lutto per piangere e recitare gli elogi del defunto:

" Iam iam non domus accipiet te laeta neque uxor
optima, nec dulces occurrent oscula nati
praeripere et tacita pectus dulcedine tangent
non poteris factis florentibus esse tuisque
praesidium misero misere " aiunt " omnia ademit
una dies infesta tibi tot praemia vitae "

" Ormai non ti accoglierà più la tua casa così felice né l'ottima tua consorte, né più i cari bambini si precipiteranno per strapparti i baci inondandoti il cuore di intima gioia. Più non potrai godere delle tue azioni e aiutare i tuoi figli. Un sol giorno a te funesto è bastato per strapparti tutte le gioie della vita. "

(Lucrez., De rer. nat., III, 894-99)


Le prefiche, ci informa Lucilio, cantavano nove giorni e, nonostante la legge delle XII tavole che vietava loro di strapparsi i capelli e lacerarsi il viso, si martoriavano tanto che ne usciva il sangue.

Questi canti laudativi, chiamati Neniae o Mortualia non cessarono col tramonto della civiltà romana, anzi il Boncompagni scriveva che a Roma nel 1213 si prezzolavano alcune donne, dette " computatricí " per il loro metodico computare ricchezze, glorie e gesta della persona morta.

Le prefiche, chiamate nel Salento anche repute, dal latino reputare (riandare con la mente), greche a Gallipoli, attittadori in Sardegna, repitise in Calabria, permangono nei paesi dove più intensa è stata la colonizzazione greca, ovvero nei paesi dove fin dall'VIII sec. si stanziarono immigrati greci.

Che questa usanza sia tutta greca ce lo dimostra sia il fatto che, al dire del Fauriel, le nenie rappresentano ancor oggi la parte più ricca della poesia popolare greca, sia perché il sentimento che detta tali canti non può essere se non greco, è tutto pagano: " Il dolore vi sgorga vivo e violento dalle radici del cuore; ma è sempre generato e nutrito dalle cose che ne circondano più da vicino, è un dolore umano, ma non cristiano " (G. Morosi, " Studi sui dialetti della terra d'Otranto ", Lecce, 1870, p. 91).

Non mai un'allusione ai premi o ai castighi d'una vita futura, non mai pur l'ombra del concetto cristiano che la vita di quaggiù è un'espiazione, un esilio, un pellegrinaggio ad una vita migliore. La felicità maggiore è il vivere:

... Tanta rroba ci' cquistai
cu sudùri e tanti guai
a me nienti gioverà,
sulu ci resta la guderà! ...

... Tanta roba che acquistai con dolori e tanti guai a me niente gioverà solo chi resta la godrà!...

cfr. E. Vernole, Canti funebri, in " Rinascita Salentina ", II, 1934, p. 74).


Nel Salento il morto si seppellisce completamente vestito, con i suoi abiti migliori, sì da essere decoroso quando è alla presenza di Dio (" quandu lu mortu stae 'nanti la presenza de Diu "), addirittura con le scarpe, e in alcuni paesi sopravvive tenace l'uso di aggiungere il cappello. Anche i Romani vestivano il defunto con vesti preziose, la toga praetexta se era stato un magistrato, la toga ricamata in oro se aveva riportato un trionfo, una semplice toga bianca se era un plebeo.
Nel momento in cui il moribondo emetteva l'ultimo respiro percuotevano alcuni vasi di rame per allontanare l'influenza delle Furie, sicché il morto potesse passare tranquillamente alle sedi dei Campi Elisi.
Ovidio (Fasti, V, 419) attesta che il pater familias verso la mezzanotte del 9, 11 e 13 maggio, dopo aver gettato alle sue spalle alcune fave nere ai Lamores, batteva i bacini di bronzo della sua casa, gridando nove volte: manes exite paterni. Da noi il Cristianesimo sostituì allo stridìo dei vasi di bronzo il suono grave delle campane. Come presso i Romani, al morto si toglie l'anello e si chiudono gli occhi per non farlo apparire deforme.

... Vèlame, mamma, de capu a lu pede
e poi tutta la persone;
e poi alza la manu daritta,
dàmme l'urtima benedizione! ...

(cfr. E. Vernole, op. cit., p. 75).

... Velami, mamma, da capo ai piedi e poi tutta la persona e poi alza la mano destra, dammi l'ultima benedizione!...


Da noi, le lustrazioni che i pagani facevano in onore del defunto sono continuate dall'acqua benedetta e dalle funzioni dell'olio santo sostituite dalla Chiesa; ceri, benedizione del cadavere, l'uso del nero, per esprimere lutto e dolore, sono una eredità del Paganesimo. Similmente la Messa del Buon Passaggio, la quale non è ancora quella del suffragio, ma ricorda il rito pagano della moneta messa in bocca al morto per pagare il noleggio al barcaiolo Caronte per il buon passaggio dello Stige.
La bara è sostenuta dai parenti o amici oppure, quando si tratta di un personaggio autorevole, da uomini dello stesso ceto sociale; tale usanza vigeva pure presso i Romani, come leggiamo nella vita di Cesare Augusto. Ai piedi del feretro sono deposte le insegne della Confraternita cui il morto era ascritto e i Fratelli della Confraternita intervengono al corteo vestiti col sacco rituale e col volto coperto dal cappuccio. Il corteo funebre dei Romani era aperto dai Tibicenses (flautisti) ai quali si aggiungevano talvolta i Cornicenses (suonatori di corni) e i Tubicenses (suonatori di tube); altrettanto si pratica nei nostri paesi, in cui i corpi musicali seguono la bara rendendo, con le loro marce funebri, più mesta e solenne la cerimonia:

Murmurandu e murmurìu
muta gente visciu ìu
sonarànnu le campane
muta gente nc'è stamane;
essirò de casa mia
cu na grande cumpagnìa...

Mormorando e mormorìo, molta gente vedo io suoneranno le campane molta gente c'è stamane; uscirò da casa mia con una grande compagnia...

(cfr. E. Vernole, cit., p. 74).


L'usanza romana di crescersi la barba in segno di lutto è largamente rispettata da molti popolani.
Nell'antica Roma il giorno delle Ferali si offrivano ai Mani sale e vino, miele ed olio, perché, come dice Ovidio (Fasti, Il, 533): " parva petunt Manes ". Le Ferali si chiudevano con le Caristie dette anche cara cognatorum, in cui i parenti del defunto si adunavano a convito (ciò si riscontra anche nel libro XI dell'Iliade). Il consolo, lu cunsule è una continuazione del rito romano: la famiglia salentina, in segno di lutto, non cucina, sicché parenti e amici le mandano a casa il cibo (parassomìa o parafsomìa). Col cibo si cerca di soddisfare il bisogno frustrato di affettività, e il cibo viene ad assumere il significato freudiano di cibo-amore; infatti in qualche parte della Grecia il consolo è detto " conforto ".
Dieci giorni dopo il funerale si pulisce e si imbianca la camera, si brucia il materasso e ci si sbarazza talvolta degli oggetti appartenenti al defunto, così come i Romani bruciavano gli oggetti e le vesti del defunto prima della cena funebre (silicernium) (Apuleio, Flor., 4-95).
In alcuni paesi per molto tempo nessuno di notte osa attizzare il fuoco, perché si crede che l'anima sia lì a fare il suo purgatorio, e le donne si guardano bene dal lasciare durante la notte del filo nella conocchia perché temono di recare offesa all'operosità del morto; (G. Morosi, Op. cit., p. 54).
Ovidio (Tristia, III, 3-81) dice che i feralia munera erano eseguiti perché i defunti ne godessero; anche noi crediamo che fiori, preghiere e lampade accese plachino le loro anime.
Al momento del decesso, parenti e amici si raccolgono nella casa del defunto, le donne stanno in piedi, intorno al letto ove giace il morto, gli uomini, nella camera vicina, ora passeggiano ora scoppiano in singhiozzi. All'ora convenuta entrano le prefiche vestite di nero, con le chiome scarmigliate, il volto atteggiato a profondo dolore e, appena vedono il cadavere circondato da ceri, scoppiano in grida lamentevoli:

... Piangiti tutte, piangiti,
tutte avimu cce ddire:
ci tene mamma, ci tene sire
ci tene fili 'mpassiunati...

Piangete tutte, piangete, tutte abbiamo che dire: chi tiene mamma, chi tiene padre chi tiene figli affettuosi...

(cfr. P. Stomeo, ne " Il Campo ", Galatina, 1961).


" Tutti piangono, si battono il petto, si strappano i capelli, si graffiano le gote da farne spiccare il sangue " così Luciano descrive gli usi funebri di Atene, e, similmente, sono descritte le prefiche da Padre Bresciani: " In sul primo entrare al defunto tengono il capo chino, le mani composte, il viso ristretto, gli occhi bassi, e procedono in silenzio quasi di conserva, oltrepassando il letto funebre,, come se per avventura non si fossero accorte che bara né morte ivi fosse. Indi alzati, come a caso, gli occhi e visto il defunto giacere, danno repente in un acutissimo grido, battono palma a palma, e gittano i manti dietro le spalle, si danno in fronte, ed escono in lati dolorosi e strani.
Imperocché levato un crudelissimo compianto, altre si strappano i capelli, squarciano coi denti le bianche pezzuole ch'ha in mano ciascuna, si graffiano e sterminano le guance si provocano ad urli, a singhiozzi gemebondi e affocati, si dissipano in larghissimo compianto. Altre si abbandonano sulla bara, altre si gettano ginocchioni, altre stramazzan per terra, si rotolan sul pavimento, si spargon di polvere; altre, quasi per sommo dolor disperate, serran le pugna, strabuzzano gli occhi, stridono i denti, e con la faccia oltracolata sembran minacciare il cielo stesso.
Poscia di tanto inordinato corrotto, le dolenti donne così sconfitte, livide ed arruffate qua e là per la stanza sedute in terra e sulle calcagna si riducono a un tratto a un profondo silenzio.
Tacite, sospirose, chiuse nei raccolti mantelli, colle mani congiunte e colle dita conserte, mettono il viso in seno, e contemplano cogli occhi fissi nel cataletto. In quell'istante una in fra loro, quasi tocca ed accesa da un improvviso spirito prepotente, balza in piè, si riscuote tutta nella persona, s'anima, si ravviva e s'imporpora il viso, le scintilla lo sguardo, e voltasi ratta al defunto, un presentaneo canto intuona. E in prima tesse onorato encomio di sua prosapia, e canta i parenti più prossimi, ascendendo di padre in padre, insino a che montano le memorie fedeli di tutti i sangui di suo legnaggio: appresso riesce alle virtù del defunto e ne magnifica di somme laudi il senno, il valore e la pietà ".
In mestiere della prefica, un mestiere molto considerato e lucroso, è trasmesso da madre in figlia. La giovinetta, fin dalla tenera età, segue la madre nelle case in lutto. Ascolta frasi e parole. Impara ad imitarle.
Inventa idee e concetti che si adattano alla persona defunta, al suo ambiente, alla sua funzione. Il fondo della sua improvvisazione e sempre eguale, ma le modalità, i dettagli, le sfumature sono differenti da caso a caso.
La prefica rappresenta ora la madre, ora la figlia, ora il marito, e ravvisa del defunto le fattezze del corpo, le virtù dell'animo, ne lamenta la perdita troppo precoce. Ella finge di parlare alla persona morta, la rimprovera, perché ha voluto lasciarla così presto sola e sconsolata nel mondo, tenta di consolare il morto che compiange il supersite.

… Ca de Pasca pozza kiòvere,
de Natale annivicare,
cu nno vvisciu li pari de fijuma
a mmenzu Ilu paese spassiggiare.

... Che di Pasqua possa piovere, di Natale nevicare, per non vedere i coetanei di mia figlia per il paese passeggiare.

(cfr. P. Stomeo, op.cit.).


I contenuti sono gli stessi che si ravvisano nelle nenie della Grecia contemporanea, per questo proponiamo alcuni brani, in versione italiana, di nenie greche le quali sono meno impregnate di realismo e di disperazione rispetto alle nostre nenie:

... Laddove vuoi andare e dove trapasserai,
se troverai giovani, salutali, se giovinette conversa con loro
se troverai bambini, confortali dolcemente.
Non fare che le giovinette piangano e i giovinetti gemano
Non fare che i piccoli bimbi si ricordino della mamma
Non dire che verrà Pasqua, che verranno le feste
dì che a Natale nevicava e che a Pasqua pioverà
e il giorno di S. Tommaso strariperanno i fiumi
che non usciranno i bimbi con le dolci mamme
né usciranno le coppie di sposi molto amati...

(cfr. Nikos Papas, Canti Greci popolari, Atene, 1953, in lingua neogreca).


Arte pu se hosa, chècciamu,
tis su stronni o crevattàci?
- Mu to stronni o mavro tànato
Ja mia nifta poddhi mali...

...Tis esèa psunnà, Kiatìramu,
motti e emèra en apsilì?
-Ettù cau e pant'an ìpuno,
panta nifta scotinì

Ora che ti han sepolta, piccola mia, chi ti la il letto? - Me lo accomoda la nera morte per una notte molto lunga...

... Chi ti sveglierà, piccina mia, quando il sole sarà alto? - Quaggiù è sempre un sonno sempre una notte oscura.

(cfr. G. Morosi, op. cit.).


" I canti d'amore è l'uomo, le nenie e la donna che le caccia ".
Qui sta appunto l'arte della prefica, dir molto e molto commuovere. Sono sfoghi di dolore ora tenero della madre per la sua creatura rimasta orfana, ora accorato della vedova che ha perduto il consorte, ora del marito che è rimasto privo della fedele compagna, ora della figlia morta che consola la madre.

...E mò chiangi, me chiangi, o mamma,
facce russa nu te ne fare,
lu tou piettu se face na 'ncùdana,
l'occhi toi su do 'fiumare…

... Ed ora piangi, mi piangi, o mamma, faccia rossa non te ne fare, il tuo petto si fa un'incudine, gli occhi tuoi sono due fiumi...

(cfr. E. Vernole, op. cit., p. 75).


Ci sono le nenie piene di profonda dolcezza e di dolce accoramento, altre ispirate a sconforto e desolazione,

O morte, o morte reteka
quante cose sapisti fare,
venisti deritta a kkasa-ma
e me pijasti lu sarcinale

O morte, o morte reteka,
issi sciutu a nna masseria,
ku eri pijatu vakke e ppekure
ku eri lassatu lu sposu miu.

O morte, o morte reteka
issi sciutu a nna masseria,
issi purtatu lu meju voe
issi lassatu la mamma mia

... nu taniti cchiù speranza
ca nu tornu cchiù a sta stanza;
e me prècane a dda fossa
ca jeu mai veduta l'èsse,
e me tocca a padajone
strazze vecchie e nu cascione...

O morte, morte crudele quante cose sapesti fare, venisti diritta a casa mia e mi pigliasti la trave
O morte, o morte crudele, fossi andata in una masseria, avessi preso vacche e pecore avessi lasciato lo sposo mio

(inedito di Martignano)

O morte, o morte crudele, fossi andata in una masseria, avessi portato il miglior bue, avessi lasciato la mamma mia

(inedito di Melpignano)

... Non abbiate più speranze che non torno più in questa stanza; e mi depongono in quella fossa che io mai veduta t'avessi, e mi tocca qual padiglione stracci vecchi e un lenzuolo...

(cfr. E. Vernole, op. cit., p. 74).


specialmente quelle per i bimbi pervase da delicata malinconia; spira in esse un senso di serena mestizia e di cristiana rassegnazione

E a ddu prekati fija-mia
e a ddhai lassati na fenestrella
e a ddhai lassati na fenestrella
e quandu vole gneti mamma-ma
e quandu vole gneti mamma-ma
ka ku vascia ku sse favella
ka ku vascia ku sse favella
e kka ddhu prekati fija-ma
e kka ddhu prekati fija-ma
ddhai lassati nu finestrinu
e ddhai lassati nu finestrinu
quandu vole gneti mamma-sa
tantu ku vvascia a ccerca konsi-ju
tantu ku vvascia a ccerca konsi-ju

Laddove seppellite mia figlia lì lasciate una finestrella lì lasciate una finestrella e quando vuole chiamare sua madre e quando vuole chiamare sua madre per andare a parlare per andare a parlare e qui dove seppellite mia figlia e qui dove seppellite mia figlia lì lasciate un finestrino lì lasciate un finestrino quando vuole chiamare sua madre tanto che vada a cercar consiglio tanto che vada a cercar consiglio

(inedito di Sternatia)


Talvolta il canto è un urlo di imprecazione contro il destino, un'acerba invettiva contro la Sorte 'ngata, contro la morte làzara, contro il Santo invano invocato per la guarigione.

E' spèzzate chianca spèzzate
e spèzzate de la ripa
e spèzzate de la ripa
tantu cu visciu la facce de fija-ma
de quale verme s'à nutrita
de quale verme s'à nutrita

E spezzati, pietra, spezzati spezzati da un lato spezzati da un lato tanto ch'io veda la faccia di mia figlia di quale verme s'è nutrita di quale verme s'è nutrita

(inedito di Castrignano dei Greci)


Alle sei kkumencia a ttingere
alle nove a nnivricare
alle trenta vieni a vvidime
se mi poi skandajare

A sei giorni comincia a tingersi a nove ad annerire a trenta vieni a vedermi se mi puoi distinguere

(inedito di Corigliano d'Otranto)


... Poiché mi ami, mammina mia, e hai dolore per me nel cuore,
fà le tue mani zappe, le tue palme pale,
butta via la terra e curvati e guardami:
se son bianco e rosso, curvati e baciami,
se son nero e brutto, ricoprimi...

(cfr. Paolo Gneto, Canti Popolari di Rodi, Alessandria, 1926, in lingua neogreca).


In mezzo all'affetto traboccante sempre si sente qualcosa che sgomenta, il terrore della Tomba; mai la serena rassegnazione ai voleri di Dio e la lieta speranza del paradiso

... d'addu vinne sta morte, mamma?
d'addu vinne, d'addu calàu?
se mise an piedi, poi an capatàle,
mamma mea, me suffucau!

'ui cridìeve ca era lu mèducu
ci me vanìa a jutare,
ma era la morte 'retica
ci m'ippe de carrisciare...

... da dove venne questa morte, mamma?' da dove venne, da dove calò? si mise ai piedi, poi sul capo mamma mia, mi soffocò!

voi credevate che fosse il medico che mi veniva ad aiutare, ma era la morte crudele... che mi trascinò...

(cfr. E. Vernole, op. cit., p. 75).


... Sto cofìni a ttuti chècciamu
prevan'aspra ta pricìa
aftohèdda! embiche o tànato
ce tis aftiase ta cerìa

Sto cofìni a ttuti chècciamu.
prevan'aspra e cuddùnte;
aftohèdda! embiche o tànato
ce tis aftìase tes candìle

Nel panierino di questa mia piccina convenivano vestiti bianchi poveretta! è entrata la nera morte e le ha preparato i ceri

Nel panierino di questa mia piccina convenivano vestiti bianchi e pasticcini poveretta! è entrata la nera morte e la ha aggiustato le candele

(cfr. G. Morosi, op. cit.).


Non ti conveniva, non ti si addiceva di distenderti giù nella nera terra
solo ti conveniva, ti si. addiceva, di stare in un giardino,
chè cadessero fiori su di te e mele nel tuo grembo
e rose rosse sulle tue rosee guance

(cfr. Kosta Pasaiani, Canti funebri di Mani, Atene, 1928, in lingua neogreca).


Mi, me mini pleo, hiatèramu,
mai, mai, canèa cerò;
ettù pu me catevìcane
ettù cui catalimò

Pu di giovani cataliùtte
cataliòme puru evò

Non mi aspettare più figlia mia, mai, mai, in nessun tempo; qui dove mi han fatto scendere qui si chiama dissoluzione

Dove tutti i giovani si dissolvono mi dissolvo anch'io

(cfr. G. Morosi, op. cit.).


La strada che ho percorsa non la ripercorrerò
andrò ai monti di Arne (= Rinnegamento), alla fonte di Arnesia,
avrò il suolo per materasso, la terra per lenzuola,
e gusterò la polvere e mangerò la terra
e berrò il veleno che bellamente gocciola dalla pietra sepolcrale

(cfr. Nikos Papas, op, cit.).


Talvolta vi si introduce un altro interlocutore, terribile, la morte.

- Pietra sepolcrale d'oro, pietra sepolcrale d'argento, pietra dorata,
questo giovane, che mandiamo, trattalo bene,
preparagli il pranzo per pranzare, la cena per cenare,
e distendi il tuo materasso ben pieno, perché si distenda per dormire

- Forse sono la sua mamma per trattarlo bene?
Mi chiamano nera terra, mi chiamano nera pietra sepolcrale
faccio le madri senza figli, le mogli senza mariti
misere sorelle senza i loro fratelli

(cfr. Kosta Pasaiani, op. cit.).


Talvolta nelle nenie appaiono le Fate che, quasi Parche, condannarono l'uomo a vita breve e infelice.

Quandu nascìu sta giòvane
la mammàna scettau l'acqua pe la via;
passàu la fata perfida
e nèe vagnàu la pudìa:
disse: c'è masculu, cu mòjara a la guerra,
e ci è fèmmana a la lefunìa...

... quandu nascìu sta gíovine
foe nata de vennardìa
e l'acqua ci la sciacquara
la menàra mienzu la via;
de ddai passàra tre Fate
e se vagnara la pudìa...
la piccicca nde mise lu Fatu,
aggia murire a la lefunìa...

Quando nacque questa giovane la levatrice gettò l'acqua per via; passò la fata perfida e le bagnò il grembiule: disse: se è maschio, che muoia in guerra e se è femmina in puerperio...

-quando nacque questa giovane nacque di venerdì e l'acqua con cui la lavarono la gettarono per via; da lì passarono tre Fate e si bagnarono il grembiule... la più piccola (delle Fate) le mise il Fato che morisse in puerperio...

(cfr. E. Vernole, op. cit.).


Ma ci dice: " sorta mia
quidda fata ci lu fatau,
quidda stia rretu la porta
cu nno tegna mai la sorta "

Ma chi dice: " sorte mia, quella fata che la lato, quella stava dietro la porta perché non avesse mai fortuna "

(cfr. P. Stomeo, op. cit.).


Proponiamo, infine, un canto inedito di Sternatia:

Ca jatèra-mu, jatèra-mu
ce jatèra-mu panta na pò
sara ndè mógghi i fotìa a tto ppetto-mu
na mu svistì ciso cannò;
ca é mmu to svinni i talassa
ce mancu o fiumo salastò,
ca me mia mmanera nu svinneto
nárti i jatèra-mu tin dò.

- Ce tutto prama degghe, màna-mu,
den me torì, dè sse torò

Ce 'vò se meno, se meno petàci-mu,
ce 'vò se meno sara si mmia,
ce motte torò tén erkese
ivotò tin ghetonìa.
Ivò se meno, se meno, petaci-mu,
ivò se meno sara ses pente
notte torò tén èrkese
ivotò ole tes parente;
ce 'vò se meno se meno, petàci-mu,
ivò se meno sara ses saranta
ce motte torò tén èrkese
ivò eo chamèna pa speranza.

Ce a putte erkete tuso anèmo,
tuo èrkete a tti Mmorèa,
n'afìki ti kkiatera-mu
ce na, pai so Kkicco tu Foddea

- Ce màna-mu ce màna-mu,
cini pìrte 'na macrì ppaisi
cini pìrte na vrìki médeco
a ccitto quai nón arotìsi
cini ìvrike pateru ce monecu
na tis pune cittì Ilutrìa

Icleome ce ole clèome,
ole dòkete mia ffonì
posse imesta ittossu
palèu ce neu tus èchome icì.
Ti llei màna-mu, màna-mu,
cittin caran atreffì;
ivò leo: pu ene i jatèra-mu
tin iche mavri ce scotinì.
Pontàmmuto, cummara-mu,
motte istìgghe na tarassi,
'na orrio ccanistri sóstiadza
na pari tis kkiatèra-mu na ddassi
ca cina pu tis valàmo
ijurìsa 'cchoùa ce puru statti.

- Se precalò, màna-mu,
so limbìtari na mi chatisi
sandè javènno' itta ìsa-mu,
isù asconnese nés canonìsi.
Se precalò, màna-mu,
is charè na mi ppai,
icì pu cui viseto
n'ascotì ce náche nna pai

Pacenzia, pacenzia, kecci-mu,
jà possi iche i Madonna
na' petì unico iche
ce tis ton valane si culonna

E figlia mia, figlia mia figlia mia sempre devo dire finché non mi esca il fuoco dal petto finché non mi si spenga quel fumo e non me lo spegne il mare e neanche il fiume salato; solo in un modo si spegnerebbe se venisse mia figlia perché io la veda.

E questa cosa no. madre mia non mi vedrai e non ti vedrò

E io ti aspetto, ti aspetto, figlia mia, io ti aspetto sino all'una e quando vedrò che non vieni io andrò in giro per tutto il vicinato. Io ti aspetto, ti aspetto, figlia mia io ti aspetto sino alle cinque quando vedrò che non vieni andrò da tutti i parenti; e io ti aspetto, ti aspetto, figlia mia, io ti aspetto sino alle quaranta e quando vedrò che non vieni ho perduto ogni speranza.

Da dove viene questo vento, questo viene dalla Morea che lasci mia figlia e che vada a Chicco di Foddèa

- E mamma, e mamma mia, quella è andata in un lontano paese, quella è andata a trovare un dottore per domandarlo di quel male quella trovò preti e monaci chè le dicessero quella messa.

Piangiamo e tutte piangiamo tutte date un grido quante siamo qui dentro vecchi e giovani li abbiamo lì. Chi dice mamma mia, mamma mia, quella cara sorella io dico: dov'è mia figlia la ebbe nera e oscura Me l'avessi detto. o comare mia, quando stavi per partire, un bel cesto t'avrei preparato chè portassi a mia figlia da cambiarsi perché quelle vesti che le abbiamo messo sono diventate terra e anche cenere.

- Ti supplico madre mia, sulla soglia non sedere se nò passano quelle della mia età tu ti alzi per guardarle. Ti supplico, madre mia, in feste non andare, là dove senti lutto alzati e vai

Pazienza, pazienza, figlia mia, quanta n'ebbe la Madonna, un figlio solo aveva e glielo legarono alla colonna (= croce).


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