Risonanze di Leonida da Taranto nell'antichità




Ottorino Specchio



I padri - Meleagro e Costantino Cefala - di quella che sarà in seguito la più vasta antologia del mondo, la Palatina, tramandarono a noi del poeta Leonida, nato a Taranto e vissuto per la più gran parte della sua vita, ramingo in Grecia di terra in terra nella prima metà del III sec. a.C., un centinaio di epigrammi: numero cospicuo rispetto a quanto di poesia epigrammatica ci è giunto di Callimaco e di Teocrito (poeti di ben più alta statura) messi insieme. Di così esteso spazio nell'Antologia elargito a Leonida, ebbero a rammaricarsi il Gow ed il Page nell'ormai famosa edizione leonidea del 1965. Certo, i criteri selettivi praticati dai compilatori delle prime "ghirlande" erano basati, più che sulle qualità poetiche dell'opera dei prescelti, sul capriccioso arbitrio degli antologisti; nel caso specifico di Leonida poi ha certamente giocato un ruolo determinante, sotto il profilo della scelta, la stessa natura del suo epigramma così carico di sapore alessandrino con quella caratteristica strutturazione su triadi di concetti scrupolosamente osservata, a parte l'impiego di vocaboli nuovi all'arte, di precisi termini tecnici. Ma tutto ciò non vuol che gli antichi, antologizzando Leonida, non siano stati attratti, oltreché dalla lingua elaborata e dai continui giochi verbali fin troppo appariscenti, anche dalla singolarità dei contenuti spesso sorprendentemente vicini al vivere quotidiano di misere e laboriose esistenze. Comunque, gli epigrammi di Leonida ebbero al loro apparire molta fortuna ed un nuvolo di verseggiatori e di mediocri letterati fra iI II e il I sec. a. C. (Antipatro Sidonio, Archia di Mitilene, Filippo di Tessalonica, ... ) tentò di riecheggiarne i motivi; ma niente affatto legati al Tarantino da una qualche affinità spirituale, questi poetastri rivelarono al più una certa capacità di imitazione, mai ovviamente riuscendo (e come potevano?) a cogliere le istanze del mondo poetico del modello. Fu in sostanza un vano tentativo (come del resto ogni tentativo del genere) che si ridusse a stanche e smorte esercitazioni sulle artificiosità dell'involucro esterno degli epigrammi presi a modello che niente hanno da condividere col timbro autentico della poesia di Leonida. Le imitazioni - innumerevoli - continuarono, pedantescamente registrate nell'Antologia, ben oltre il II sec. a. C., sempre più scialbe e superficiali, spesso insopportabili ricalchi. E' talvolta difficile - si sa - distinguere, in arte come in poesia, il falso dall'autentico; accadde così che spesso Leonida finì con l'essere confuso con i suoi imitatori. La qual cosa incise fin troppo negativamente in epoca moderna sul giudizio critico intorno al nostro poeta.
Interesse e simpatia - però non più ancorati soltanto all'eccellenza del mestiere, alla tecnica perfetta dell'abile artefice di versi, ma forse anche alle vere e proprie qualità poetiche - manifestarono per Leonida qua e là nelle loro opere, taluni grandi Autori del mondo latino.
A parte le citazioni a memoria di versi leonidei dovute a Cicerone e uno sporadico riferimento in Seneca (Epist. 49, 3: punctum est quod vivimus et adhuc puncto minus - Leon. ep. 77,4 G. -P.), Virgilio trae certamente spunto da Leon. ep. 96 G. - P. nel raffigurare in Ecl. VII, 29 un pastore che dedica a Diana cacciatrice "ramosa vivacis cornua cervi". Ma ancora più interessante è osservare che il grande poeta in Ecl. V, 38 e segg. (laddove descrive la tomba di Dafni invasa dal cardo e dal frutice spinoso) forse ha in mente il tumulo del pastore leonideo Alcimene (ep. 18 G. - P.), anch'esso invaso dalle stesse malefiche piante. Ovidio, in un verso del II dei Tristis (527: sic madidos siccat digitis Venus uda capillos), riecheggia molto da vicino Leonida ep. 23, 5 G. - P. Ancora lo stesso poeta nel I dei Fasti (353 e segg.) riprende uno dei motivi più suggestivi del piccolo mondo poetico di Leonida, la favola del Caprone (ep. 32 G. - P.): "rode, caper, vitem", "Ketre, Kákiste, Kléma": la voce che si sollevò dal profondo della terra contro un caprone tutto teso a devastare una volta, in una vigna, i teneri tralci della vite. "Distruggi pure, scellerato, con i tuoi morsi i miei fertili rami, ma la radice rimane salda e di nuovo emetterà dolce nettare, quanto basta per aspergere te, caprone, durante il sacrificio". Un riecheggiamento infine di Leonida ep. X G. - P. (Aristocrate non trae moglie perché convinto dell'iniquità delle donne) sembra possibile cogliere nel Pigmalione ovidiano (Met. X, 244) che "offensus vitiis quae plurima menti / femineae natura dedit, sine coniuge caelebs / vivebat". Ma l'omaggio più significativo al poeta di Taranto è reso da Properzio che in 111, 13 inserisce una libera elegantissima traduzione dell'ep. 29 G. - P.; due distici che mandano l'eco della voce di Pan nel silenzio dei boschi, augurante buona preda al cacciatore:

"Et leporem quicumque venis venaberis, hospes,
et si forte meo tramite quaeris avem:
et me Pana tibi comitem de rupe vocato,
sive petes calamo praemia, sive cane".

Notevole anche la popolarità di Leonida in Roma nel mondo degli artisti; ne è bella testimonianza l'incisione (scoperta dal Dilthey nel 1876) sul muro di una casa di Pompei dell'ep. 46 G. - P.; disgraziatamente, dei tre distici incisi rimangono soltanto alcune tracce di lettere, ma è certo che si tratta dell'anátema di tre cacciatori che consacrano le reti a Pan. Né sembra una fortuita coincidenza il fatto che l'epigramma inciso a Pompei e quello tradotto da Properzio appartengano al genere anatematico e che ambedue siano dedicati a cacciatori. La scelta, specie nel caso particolare di Properzio, è certamente un'operazione di cultura nonché di gusto; pertanto non sembra azzardata l'ipotesi che gli epigrammi anatematici di Leonida abbiano potuto destare in ambiente romano interesse particolare forse perché portatori di un qualche messaggio simbolico che sfugge alla nostra interpretazione.
Si vede da questi rapidi appunti - un'indagine più estesa potrebbe dare, a mio avviso, risultati di maggiore rilievo - che la risonanza della poesia leonidea nel mondo antico, a parte le fin troppe imitazioni infelici di cui si è detto, non è doviziosa ma non tale da ritenere ingiustificata la consapevolezza che il poeta ebbe in vita (cf. ep 93 G. - P.) dell'immortalità del suo canto.


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