Reclutati prevalentemente 
        nella "classe infima", i briganti godevano della solidarietà 
        dei contadini per i rifornimenti, i rifugi, le informazioni e, soprattutto 
        per il silenzio. 
        Assalivano cittadine e villaggi, depredavano case e negozi di esponenti 
        liberali (o ritenuti tali); autorità locali, guardie nazionali 
        e qualche prete erano sospettati di connivenza con loro.  
        Per tutto il primo 
          periodo seguente il compimento dell'unità, fino all'inizio del 
          '62, per Terra d'Otranto non si può parlare di vero e proprio 
          brigantaggio. Nulla di simile alle grandi bande ben organizzate che 
          operavano stabilmente nel resto del Mezzogiorno continentale; piuttosto, 
          forme di brigantaggio sporadico ed endemico, ad opera di piccoli gruppi, 
          fatto di furti e vandalismi, oppure brigantaggio di importazione, incursioni 
          di bande della vicina Basilicata, epicentro, a quell'epoca, del fenomeno. 
          Frequenti, invece le "reazioni" nei paesi, le sommosse contadine 
          provocate da reali motivi di malcontento, e alle quali, con una certa 
          facilità, veniva sovrapposto un intento politico filoborbonico. 
          Dimostrazioni per la divisione dei demani si erano avute già 
          nell'estate del '60 a Ginosa e a Palagiano. Dopo l'unità, più 
          attiva si fece l'attività clericale e borbonica per imprimere 
          un senso antiunitario alle sommosse: a Sava, Surbo, Poggiardo, Andrano, 
          Taviano, in date diverse tra la fine del '60 e il '61, disordini furono 
          provocati da alcuni legittimisti nel tentativo di estendere la rivolta 
          ai paesi circostanti e di far insorgere i contadini. Agli incidenti 
          che scoppiarono in quel periodo non dovevano essere estranei i settori 
          più reazionari del clero, in particolare dell'Episcopato, dal 
          momento che l'Arcivescovo di Otranto, i Vescovi di Ugento, di Gallipoli 
          e di Nardò, e l'intrigante Vescovo di Oria Margarita furono sottoposti 
          a misure poliziesche e giudiziarie di vario genere per sospette connivenze 
          con i borbonici e, poi, con i briganti. 
          E' solo nel '62 che numerose bande iniziarono l'attività nel 
          Tarantino e in Terra d'Otranto. 
          Reclutati prevalentemente nella "classe infima", secondo una 
          definizione del sotto-prefetto di Taranto, Bozzi, i briganti godevano 
          della solidarietà dei contadini per i rifornimenti, i rifugi, 
          le informazioni, ma, soprattutto, per il silenzio, al punto che il comandante 
          del presidio militare in Terra d'Otranto, Marchetti, dichiarò 
          alla commissione parlamentare di inchiesta sul brigantaggio di non aver 
          mai ottenuto informazioni, neppure dietro pagamento, e di aver sempre 
          incontrato i briganti per puro caso. 
          Nell'agosto del '62 vi fu un raduno nel bosco di Pianella di tutte le 
          maggiori bande che operavano nella zona, le quali si coordinarono stabilmente 
          agli ordini del capobanda Romano. 
          Ex sergente borbonico, il Romano fu il più autorevole tra i briganti 
          salentini di quel periodo. Nel luglio del '61 era stato a capo di un 
          tentativo di occupazione di Gioia del Colle, ferocemente represso dalle 
          forze governative, e dopo un periodo di vita in montagna e di attività 
          minore, il 26 luglio del '62 aveva invaso Alberobello, razziando le 
          armi della Guardia Nazionale. Dopo il raduno di Pianella, la banda Romano 
          poté contare su circa 300 uomini, in gran parte provenienti dalle 
          file dell'esercito borbonico, e altrettante cavalcature. Vigeva al suo 
          interno una disciplina abbastanza rigida, e la sua struttura fu, almeno 
          agli inizi, modellata su schemi militari, con una divisione in compagnie 
          agli ordini del Romano e dei suoi luogotenenti: Cosimo Mazzeo, detto 
          il Pizzichicchio, Giuseppe Laveneziana, l'Abbate, Antonio Lo Caso, detto 
          il Capraro, Riccardo Colasuono detto Ciucciariello, Francesco Monaco 
          e Giuseppe Valente detto Nenna-Nenna, un ex sottufficiale garibaldino 
          renitente alla leva. 
          Tutti costoro avevano alle spalle una attività brigantesca: il 
          Laveneziana si distinse nel taglieggiare la zona tra Ostuni, San Pietro 
          Vernotico e ad ovest Oria; il Capraro in quell'anno sequestrò 
          il liberale Giuseppe Bardoscia di Torricella, con la richiesta di un 
          riscatto di ventimila lire. 
          Fu molto importante, tuttavia, nel far fare un salto di qualità 
          al brigantaggio salentino, la capacità di coordinamento di ordini 
          e di azione che il Romano portò nell'attività delle bande 
          locali, anche se per un periodo di tempo abbastanza breve. Le compagnie 
          operavano separatamente o riunite ai comandi di uno o più capi. 
          Estesero la loro azione in tutta la zona delle Murgee del tavoliere 
          di Lecce e giunsero a minacciare Brindisi per tentare di liberare i 
          detenuti nel bagno penale. 
          Tra il settembre e il dicembre del '62, pare agli ordini del Valente 
          e del Laveneziana, la banda ebbe al suo attivo "83 reati fra omicidi, 
          rapine, grassazioni, estorsioni, sequestri di persona, incendi, furti 
          di bestiame, resistenza e tentati omicidi alla forza pubblica". 
          Il 23 ottobre la banda attaccò la Guardia Nazionale di Cellino 
          San Marco e di San Pietro Vernotico: "tre militi vennero uccisi 
          perché portanti Il pizzo all'italiana; nove sfregiati, secondo 
          il costume brigantesco, con l'asportazione di un lembo dell'orecchio, 
          per essere così pecore segnate". In novembre la banda Romano 
          attaccò Erchie, ed invase Grottaglie e Carovigno. A Grottaglie, 
          il 17 novembre '62, l'invasione ebbe luogo agli ordini del Pizzichicchio: 
          è probabile un preciso accordo tra i briganti e i legittimisti 
          del paese, che erano in maggioranza nel Comune, dal momento che più 
          di una razzia indiscriminata l'azione sembrò una vendetta contro 
          alcuni esponenti liberali. Il sorteggio delle reclute che si sarebbe 
          dovuto svolgere di lì a due giorni, con l'insoddisfazione che 
          l'obbligo di leva suscitava nella gente del Mezzogiorno, dava oltretutto 
          ai briganti molte probabilità di una buona accoglienza da parte 
          del paese. Come fu, infatti. Al grido di "Viva Francesco II, abbasso 
          i liberali, viva i piccinni nostri", i briganti entrarono in Grottaglie, 
          accolti da molti popolani guidati da alcuni reazionari del paese, e 
          senza alcuna resistenza da parte della Guardia Nazionale. Dopo il solito 
          rito iniziale di abbattimento dello stemma sabaudo, razzia dei fucili 
          e liberazione dei detenuti, i briganti passarono alla "vendetta" 
          contro i liberali. Il "Cittadino Leccese" del, 22 novembre 
          riferisce di case e negozi di esponenti liberali depredati e incendiati. 
          L'azione, conclusasi a 1 alba, ebbe come seguito alcuni arresti, tra 
          cui quello del Sindaco, e al processo ben 264 furono gli imputati, per 
          partecipazione diretta favoreggiamento e ricettazione. Dove però 
          è interessante la cronaca del "Cittadino" è 
          nella parte finale, in cui quasi per inciso afferma che " ... Il 
          funzionante sindaco ... con altri consiglieri comunali, Guardie Nazionali 
          e alcuni preti aveva voce di intesa con i briganti ... ", il che 
          spiegherebbe non solo l'accoglienza del paese, ma anche il dileguarsi 
          della Guardia Nazionale. 
          Sequenza simile ebbe, cinque giorni dopo, l'invasione di Carovigno. 
          I Consigli Comunali e le Guardie Nazionali di Carovigno e Grottaglie 
          furono poi, probabilmente in seguito alle connivenze riscontrate con 
          la banda Romano, tra i molti che furono sciolti nel quadro della epurazione 
          delle Municipalità e delle Guardie Nazionali dagli elementi filoborbonici 
          disposta dal governo Farini-Minghetti nel '63: 18 Consigli e ben 21 
          Guardie Nazionali nella sola Terra d'Otranto, secondo quanto riportato 
          da "L'opinione" del 10 maggio '63. 
          L'11 dicembre '63, un reparto di fanteria attaccò di sorpresa 
          e sconfisse duramente la banda Romano alla masseria Monaci, presso Noci. 
          Il sergente Romano fu costretto di conseguenza a frazionare i suoi. 
          Al sopravvenire dei rigori invernali del '62-63, il punto caldo del 
          brigantaggio era la zona tra il Fortore e Terra d'Otranto. La zona pugliese 
          era infestata non solo dalle bande autoctone, ma anche dagli sconfinamenti 
          delle formidabili bande a cavallo lucane. 
          Dopo la sconfitta, il Romano aveva ripiegato nelle Murge di Vallata, 
          nel bosco della Corte. Qui, il 5 gennaio '63, la banda fu sorpresa dalla 
          cavalleria e dalla Guardia Nazionale: il capo e una ventina di briganti 
          caddero sotto le sciabole dell'esercito, e furono trovati dei documenti 
          piuttosto importanti. 
          Con la fine del Romano, il brigantaggio in Terra d'Otranto subì 
          un duro colpo e le bande locali non riuscirono più a coordinare 
          la loro azione. Il Capraro si rifugiò nel territorio di Ginosa; 
          sulla sua testa fu posta una taglia di L. 4000; catturato il 30 gennaio 
          del '63, venne fucilato il giorno dopo a Castellaneta. 
          Al Valente fu fatale la visita ad una donna di Lecce: riconosciuto da 
          un "vetturale" del suo paese, Carovigno, fu arrestato nel 
          dicembre del '63 e scontò i lavori forzati a vita. 
          Maggiore resistenza ebbe la banda del Pizzichicchio, una grossa ed agguerrita 
          banda a cavallo. Suo rifugio, il comune di Carosino, e suo teatro d'azione 
          le Murge Tarantine. 
          La banda fu sorpresa da Carabinieri ed Esercito nell'estate del '63 
          nei pressi di Carovigno, e subì grossissime perdite tra morti 
          ed arrestati. Il Pizzichicchio, però riuscì a sfuggire; 
          fece altre azioni in tono minore, fino ai primi giorni del '64, quando 
          fu catturato a Martina Franca. Anche per lui la condanna dopo il processo 
          celebrato quello stesso anno fu la fucilazione. 
          Più o meno nello stesso periodo altre piccole bande operavano 
          nel salentino. La più attiva fu quella di Quintilio Venneri di 
          Alliste, sbandato e renitente alla leva, catturato ai primi di gennaio 
          del '64 con i suoi compagni in una masseria. 
          Il bosco di Arneo fu rifugio di gruppi di banditi della zona circostante 
          e anche di briganti provenienti dal vicino circondario di Taranto. Ippazio 
          Gianfrda, soprannominato il Pecoraro, capeggiò dal'61 alla fine 
          del '63 una banda nel Capo di Leuca. Dopo l'arresto dei compagni del 
          Romano, il tarantino si poteva considerare sbarazzato dal brigantaggio 
          autoctono. Continuavano le incursioni delle bande lucane, della Basilicata 
          meridionale ed occidentale, le quali, anzi, premute dall'intensificata 
          azione dell'Esercito tra le Murge e il Vulture, nell'inverno '63 / '64 
          si spinsero sempre più spesso verso Terra d'Otranto. Nel gennaio 
          del '64 briganti lucani tentarono senza riuscirvi di occupare Palagianello. 
          Di lì a pochi giorni le grosse bande a cavallo di Egidione e 
          di Angelo Masini, provenienti dalla Basilicata, combatterono a lungo 
          nella zona di Castellaneta contro l'Esercito. Fu l'attività di 
          queste bande, probabilmente, che determinò l'inclusione del tarantino, 
          nel febbraio del '64, tra le zone in "stato di brigantaggio" 
          previste dalla legislazione speciale. Dal '63, tuttavia, Terra d'Otranto 
          ebbe essenzialmente un brigantaggio "minore", anche se duraturo 
          e logorante, i cui protagonisti furono malfattori comuni più 
          che briganti veri e propri, raggruppati in numerose bande di dimensioni 
          assai ridotte, a cui proveniva linfa costante dalle masse affamate e 
          disoccupate dei contadini più poveri.
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