Una lettera di Emanuele Barba (1819-1887)




Oliviero Cataldini



Il reperimento tra vecchi libri della biblioteca di mia nonna, di una lettera autografa, inedita, del dottor Emmanuele Barba (1819 - 1887), il noto sofferente politico del nostro Risorgimento Salentino, nonché la risposta riportata a margine della stessa lettera, dal Vicario Diocesano, Giuseppe Maria Giove, Vescovo di Gallipoli dal 1834 al 1848, cui la missiva è diretta, ci ripropone ancora una volta, il riaccostamento alla personalità e all'opera instancabile dell'illustre concittadino, votato, per istintivo convincimento, all'educazione, al miglioramento e all'emancipazione della società operaia del suo tempo.
Già l'impegno e l'opera del Barba, sorretti da meditazione e persuasione culturale, si era manifestata, nei primi anni di sua giovinezza, con la spontanea e attiva partecipazione alla lotta risorgimentale, della quale così ebbe ad esprimersi il concittadino e contemporaneo Avv. Stanislao Senape quando, nel 1887, ne rimpianse l'improvviso distacco terreno:

"Giovanetto ancora - egli disse - si sentì scosso alla profetica voce di chi turbò i sonni al principe di Metternich, dell'apostolo Mazzini, e si affiliò alla Giovane Italia prima, alla Massoneria poi, e propugnò libertà, eguaglianza, fratellanza, quando a manifestar tali principii si correva il pericolo di rimetterci e sangue e sostanze. Cospirò con tutti i liberali della Provincia, fu intimo di Libertini, di Castromediano, di Mazzarella, ed insieme ad Epaminonda Valentini e Oronzo Piccioli, mantenne sempre attiva la corrispondenza segreta fra i militi italiani della libertà ... Ma il tiranno fiutò il patriota in Emmanuele Barba ... ed egli dové andar profugo per parecchio tempo ... Preso poscia ed imprigionato insieme ad altri nostri concittadini Piccioli, Marzo, Valentini, gli si fece scontare la condanna di duro carcere".

Così, infatti, nel volumetto "Albo ad Emmanuele Barba" edito da G. Campanella in Lecce nel 1888, in occasione della dolorosa dipartita del nostro patriota.
A noi, tuttavia, per una migliore penetrazione dei principi sociali ed ideali cui s'ispirò il nostro Barba, necessaria, d'altronde, a comprendere le ragioni che lo spinsero alla stesura della lettera di cui ci stiamo occupando, piacerebbe interessarci del Barba meno noto, del medico, cioè, paziente ed amoroso, così come traspare dai pochi accenni sviluppati nella missiva e che lo rivelano, d'altra parte, assai propenso ad un raziocinio scientifico, ad un pragmatismo, cioè, tendente all'affermazione del reale e dell'utilitario, come, in sostanza, è proprio di quei concetti filosofici che son portati a dimostrare l'inefficacia delle astratte verità rispetto a ciò che serve ad aumentare o migliorare l'attività sociale; vorremmo, insomma, parlare del Barba che, pur educato alla scuola del più puro laicismo o tanto meno dell'indifferentismo religioso, tuttavia non si mostra insensibile ai "bisogni spirituali", il cui corredo etico ammette e riconosce negli infelici pazienti, ai quali sin dal primo ricovero nelle corsie dell'Ospedale Provisorio (sic), nel Convento, cioè, dei Padri Domenicani di Gallipoli, Egli, nella qualità di Direttore e Primario di medicina, è sempre venuto incontro "con ogni maniera di sussidi religiosi" soddisfacenti, anche perché "precipua cura che il Regolamento di questo Ospedale raccomanda per lo bene degl'infermi, è quella dell'anima".
Balzano evidenti, allora, l'aspetto umano e l'oculata potenzialità spirituale di questo medico, non solo apportatore di ristoro, dal punto di vista professionale, ai cittadini afflitti dal morbo, ma assertore anche, di concezioni morali volute come rigenerazione di fede e impegno di volontà rinnovatrice.
Si tratta, indubbiamente, di un comportamento meditato e compenetrato di reiterate riflessioni sociali, di elaborazione, a dir meglio, animatrice di principii che tesi a prefigurare una indubbia capacità di concretezza, nella pratica di vita, per avvenimenti certamente abnormi ma non del tutto invalicabili, quali possono dimostrarsi le malattie leggere e le sofferenze, potrebbero, tuttavia, essere agevolati, o meglio, definiti, se sorretti da un certo stimolo spirituale, da una ipotetica leva di futura speranza.
Si rivela, allora, dice di lui Alberto Consiglio, - Gran Mestro della Massoneria, per la Loggia di Gallipoli -"l'umanitario Emmanuele Barba, medico, innanzi al letto dell'infermo, con affettuosa cura, rinfrancarne le sofferenze e ravvivarne la vacillante speranza ... Emmanuele Barba, affratellato all'universale famiglia dei Liberi Muratori, cui la causa dell'Umanità è legge infrangibile".
E che la sua partecipazione operosa sia stata veramente utile ed indispensabile nel 1848, lo si desume da giudizi dei suoi contemporanei. Dice un suo coevo Carlo Rocci-Cerasoli, in un opuscolo (dal sapore piuttosto polemico per vedute personali e particolari di carattere politico) del 1868, edito dalla Tipografia Antonio Del Vecchio di Gallipoli, dal titolo: "Poche parole ai suoi vecchi amici ...":

"E' fatto innegabile che sin dal principio di marzo a quasi tutto giugno 1848, Gallipoli fu desolata dal contaggioso (sic) morbo del tifo-petecchiale, che tolse la vita a più di 500 cittadini. E sono ormai più che storici l'abnegazione, il disinteresse ed il disprezzo alla vita dimostrati dagli onorevoli Cari. D. Camillo Gottuso, già vittima di quel male contagioso, e dai Signori Nicola Massa ff. da Sindaco; Dottor Emmanuele Barba; Luigi de Belvis ... e non pure da me sottoscritto ... Ognuno dei miei compagni superstiti ricorda quali sacrifici, quante fatiche furori durate notte e giorno dai sullodati cittadini, sino al termine di quel flagello che, per miracolo vero di Dio, ci risparmiò la vita: sino a continuare costanti la fine di quel luttuoso periodo della Storia Gallipolina".

Importa, pertanto, a questo punto, pur attraverso queste sintetiche indicazioni, cogliere del Barba la radicale esperienza di una vita fatta di lotte e di sacrifici, nonché la necessità di liberarsi da tutte le incrostazioni sociali per affermare l'esigenza della funzione sperimentale nei problemi reali della vita.

"E il nostro Barba - dice, inoltre, il dottor Antonio Fiorito -fu Direttore dell'Ospedale provvisorio di Gallipoli e, durante cinque mesi, fu sempre pronto ad ogni bisogno e primo in ogni pericolo di questo luttuoso avvenimento, e rischiando la sua vita, prestò servigio ad oltre tremila infermi ... Certo nessuno fu di Lui più zelante ed amorevole assistente dei suoi infermi: nessuno quanto Lui seppe adoperare il balsamo della parola a conforto e sollievo della umanità che soffre".

Tenendo, perciò, presenti queste attestazioni, sulla scia di queste azioni, allora, si può comprendere il carattere e l'opera del nostro medico che, sempre con modestia e disinteresse, pose l'eccellenza della sua mente e la bontà del suo animo a disposizione dell'altrui necessità, così come, nel 1886, in occasione della luttuosa epidemia di colera che imperversò in Gallipoli, tanto si prodigò da meritare egli solo, una medaglia d'oro ad attestazione di stima e riconoscenza da parte di tutta la cittadinanza gallipolitana.
E a questo punto, mettiamo fine alle nostre considerazioni, anche per dar modo di leggere e ponderare i reconditi concetti della lettera del Barba; facciamo a meno di citare i tanti giornali provinciali, regionali e nazionali che si occuparono dell'opera meritoria del Nostro, permettendoci soltanto di concludere - a nostro, forse, discutibile giudizio - che tutta l'operosità del medico e patriota gallipolino, rivela ascendenze religiose e mistiche, anche se la visione che viene emergendo è totalmente laica, di una laicità, oseremo, però, dire, rigorosamente ascetica.
Solo sotto questa visuale si può dare una risposta alla domanda che il Barba rivolge a S. E. Rev., Monsignor Vescovo di Gallipoli, se cioè, fu principale "medela" (medicina, cura) l'interesse dell'animo o l'efficacia della scienza medica. IL certo, tuttavia, che ben si adatta alla sua opera, ciò che di lui si disse: essere cioè, "la sua bandiera l'amore, la sua religione il dovere".
Gallipoli 17 Maggio 1848

OSPEDALE PROVVISORIO DI GALLIPOLI

N°3
A S. S. Rev.a MONSIGNOR VESCOVO DI GALLIPOLI
Monsignore Rev.o
la precipua cura che il Regolamento di questo Ospedale raccomanda per lo bene degl'infermi è quella dell'anima. Infatti sin dal primo giorno del suo nascimento non v'è stato infelice che abbia esso ricoverato, cui al primo entrare non siasi occorsa con ogni maniera di sussidi religiosi soddisfacendone gli spirituali bisogni. Noi per verità non sapremmo col limitato nostro intelletto dar pieno giudizio su gli evidentissimi sanitari risultamenti che la statistica di questo Pio luogo offre al presente. Certissima cosa è che 20 infermi ne sono stati finora licenziati e tutti pervenuti a completa guarigione. Qual ne ,fu la principale medela? Lasciamo a V. S. Ill.ma la non ardua sentenza. A noi intanto preme fortemente farle noto che questa parte potissima del Regolamento non può andar soggetta a qualche disordine non già per difetto di zelanti Sacerdoti, che di tali v'ha dovizia nella nostra città, bensì per continuo baratto di tempo che si fa nel chiamare all'uffizio loro segnatamente i confessori.
Per la qual cosa noi rivolgiamo le nostre umili istanze a V. S. Ill.ma affinché desse su di ciò quei provvedimenti che Ella reputerà più acconci al progressivo ordinamento di tanto servizio.
E profittando di una certa esperienza, che le tristi congiunture ci han data, noi ci facciamo audaci a proporle una specie di turno al quale potrebbe V. S. Ill.ma costringere i Rev.i Sacerdoti per servizio quotidiano di questo nostro Spedale.
Gradisca i nostri sinceri attestati di nostra devozione e ci largisca la santa pastorale benedizione.
IL PROFESSORE DELL'OSPEDALE Emmanuele Barba

GALLIPOLI 18 Mag. '48
Sig.r Professore.
Di riscontro al suo pregiato foglio sull'assegno de' Confessori che domanda per cotesto Ospedale Provisorio, io La prego riflettere sulla scarsezza degli stessi, e convincersi, che non è mala volontà de' pochi, che ci sono, ma è l'occupazione continua, che li trascina a servire gli ammalati della Città: e volendoli io obbligare a servire solamente l'Ospedale, essi lo farebbero di buon cuore, ma lascerebbero a loro stessi gli ammalati della Città: ed io non avrei cosa da risponderli.
Per tali angustie, e strettezze di Confessori, ed ora anche di Sacerdoti, io pregai e facoltai i Padri Domenicani tutti ascoltare le Confessioni e amministrare i Sagramenti a tutti gl'infermi ove erano chiamati durante la malattia presente.
Ora trovandosi i PP. Dom.ni nel locale dell'Ospedale, ed i Francescani vicini all'Ospedale, io la prego avvalersi de' primi, e de' secondi per le Confessioni degli ammalati, o per l'Amministraz. e de' Sagramenti, come si stabilì dal bel principio della malattia.
Volendosi poi avvalere di Confessori del Capitolo, destino i due Canonici e Dignità Sig.r Cantore Franco, e Sotto-Cantore Sig.r Paturzo.
IL VESCOVO DI GALLIPOLI


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