Salento dei poeti




Tonino Caputo, Romana Turchini



Uomo-terra e uomo-sole: questi i due legami onfalici che esalta la poesia dedicata alla terra salentina. Il "clima", la latitudine, i comportamenti degli uomini, influiscono, incidono in profondità, nell'ispirazione. Non tanto in una visione ottico-fisica in campo lungo, quanto dagli "interni" dai quali si focalizzano visioni ampie, con fulminee puntualizzazioni, veri e propri squarci (di storia, di cronaca, di tranches de vie), che nulla tolgono al respiro poetico. Scrive in "Sulle piazze" Ennio Bonea:

Sulle piazze degli antichi baroni
ov'è fissata la storia del Salento,
piatto lago di terra, di roccia e di tabacco,
tempesta di ulivi e di vigneti,
stanno scalzi i villani, senza canti,
che lasciano i figli scalzi nelle strade
e nelle case con le porte aperte
le vecchie madri col fazzoletto nero
pronte al lamento di prefiche su un morto.
Salento, terra di case bianche
e palazzi con facce di spagnoli sghignazzanti
sotto i tronfi balconi barocchi,
terra di chiese e campanili,
condannata alla sete, coi Santi,
che portano le sarde nella bocca.

E' sempre lo stesso poeta a darci una poesia-lamento, trasposizione del canto di una prefica, rinnovandoci il ricordo di remote tradizioni della Grecia salentina:

Com'è fredda la tua mano
Maria.
Com'è bianco il tuo volto
Maria.
Quanta aria di sonno c'è in giro
nel colore del cielo
e gli occhi, i tuoi occhi velati
Maria,
non hanno il colore
di chi guarda nel sole.
E la voce, dov'è la tua voce
Maria?

Com'era viva la tua vita
Maria.
Maria.
Maria.

Rapporto uomo-terra. La mediazione è affidata all'albero emblematico del Salento e del Sud: l'ulivo.

Gli ulivi
sono fantasmi affollati
nelle distese di grano
oltre i lunghi filari delle viti.
Tanta polvere tanto sole
e la sola insecchita
porta a miraggi di sorgenti
nell'arida terra del Salento
dove le montagne si sognano.

E in "Sono uno di loro" la visione di tutto il Sud, della storia più tragica che grande del Sud, in una poesia che dalla visione generale della condizione umana e sociale dei meridionali scende all'immagine poetica finale, dal piglio lorchiano:

E' fatto di pietre il mio Sud
di terribili uomini in lotta
contro la roccia dei millenni.
Le donne aspettano la sera
i figli che fuggono di casa,
intorno al focolare.
Le figlie dietro i vetri
spiano nella strada
il venditore di percalla
sognando futuri di Penelopi.

Sono uno di loro
uno dei bruciati cafoni,
ma venate non ho mani
come foglie di tabacco;
piedi non ho ampi come pale
e duri come zoccoli di mulo
né dal cuore purissimo
so trarre canzoni da lanciare
col fiore in bocca sui balconi.

Da Bonea a un altro poeta, Girolamo Corni. Con Corni, la tradizione del simbolismo francese e delle grandi esperienze europee prevalgono sulla visione "locale" e "concreta", terragna, del Salento. Scrive Corni, in "Immagine del Salento":

Numeri, figure e libri,
simboli di una Misura
silenziosa e sicura,
fanno che io riposi o vibri
- vivo di sobri equilibri
nell'ossame della Natura.

Cristalli di luce varia
spaccano l'ozio dei suoli
per fecondarli di voli
di cantici, d'aromi e d'aria,
e perché l'ansia del dire
s'incanti nelle matrici
rocciose delle radici
e nel loro sordo fiorire.

Dalla tradizione della poesia giapponese (poesia di rapide sintesi, cinque sillabe più sette più cinque nei tre brevi versi che racchiudono le immagini) questi componimenti di Giovanni Francesco Romano, tessere di un grande mosaico, ciascuna tessera conclusa in sé, e tutte insieme immagine di una terra che emerge qua e là, come le punte di tanti icebergs, con le sue figure, i suoi scorci, le angolazioni, le sensazioni. I versi sono tratti da "Il vento e le stagioni":


Desiderio
Vorrei seguire
di giardino in giardino
la primavera.


Canicola
Nell'immobile siepe
fruscio:
guizza il ramarro.


Declino
Ahi!
sul dorso della mia mano
la prima brezza.


La bella di un tempo
Occhiali neri
raccolta nel suo scialle
bella di un tempo!

D'ottobre in un uliveto
Cantano donne
lontano. Che tristezza
muove le foglie!


Mattutino in paese
Zoccoli allegri
L'acqua ora canta
nelle brocche di rame.


Plenilunio d'estate
Un grillo canta.
Pullula melodiosa
acqua di luna.


Chiesina rustica
A visitarti
il profumo del timo
Madonnina sola sola.

Torniamo al realismo. Una ininterrotta storia dei comporta
menti, quasi un philum antropologico, e una cronaca di fat
ti e di cose, di vicende emblematiche è esaltata da una schie
ra di poeti che si sono ispirati ad immagini veristiche della
terra natìa. Entrano in questa poesia tutti gli elementi tradi
zionali, trasposti anche con rara efficacia, con immediatezza.
Eppure, la trasposizione poetica non ne è sminuita. Anzi, in
taluni casi coincide perfettamente con la "storia" che ne ha
determinato il nucleo ispirativo, lo slancio creativo. In questo
senso, il realismo (pur con tutte le limitazioni che il termine
può comportare nel breve excursus che stiamo facendo) ha
dato frutti notevoli, e ha consentito di includere tutto nell'am
bito dei suoi steccati: il sogno e il ricordo, la realtà in sé e
la realtà per sé, l'emblematismo simbolico, l'innesto roman
tico. Senza che tutto questo abbia significato - se non in casi
eccezionali - perdere di vista il "fatto in sé", la condizione
e la dimensione umana e civile delle genti salentine. Scrive
in "Contadine del Capo" Donato Moro:

Quando affrontano il giorno sui cammini
col fazzoletto in testa e il vando nero
hanno lo sguardo fiero
e un metro fisso di marcia sotto la roggia del sole.

Non parlano non cantano
non guardano dintorno
cavalcatrici di strade e di sentieri.
I segreti pensieri ruotano lentamente
magri falchi sui bisogni elementari.

Nessuno le vide nascere
nessuno ancora le vedrà morire.
Destino affamigliato le porta alla campagna
che anela fra le rocce come la loro bocca.

Al giro indifferente di cielo e di rapaci
le scarpe in mano vanno su asfalti provinciali
o lungo le carrare polverose.
Finiscono d'un tratto dietro case di pietra
e lasciano solo ombre d'occhi neri.


E in "Terra e mare":

Non so dove la terra del Salento
confina con il mare.
Fattura è l'aria salsa
la sete nel cielo.

I miei fratelli
coperti di fustagno
arano mare e terra
con la bocca riarsa,
bevono l'acqua

in anfore d'argilla
che alzano solenni in mezzo al sole.
Sulla terra e sul mare
più aspri dell'ulivo secolare.

E altrove (in "Da Vicari al tramonto": ma c'è il Sud e c'è il Salento; c'è la tragicità della vita meridionale, e c'è l'intricata vicenda storica della vita meridionale, mirabilmente sintetizzata in pochi versi):

Cane capra mulo scapolare
l'isola passa ai margini di strade solitarie
l'asfalto nel crepuscolo non porta un'illusione.
Aspri orizzonti avvinghiano
le ruote fonde degli scialli neri.
La cornacchia è calata dentro il nido
l'orgoglio è rimandato
il silenzio sommerge la paura.
Lento moto del cielo
greggi di cime e nubi ad occidente
verso Rocca Busambra,
fosco mantello
ciclopico pastore al centro della terra
puntigliosa misura del pane e dell'acqua.
Sbanda l'ala del pipistrello.

Adesso il telamone ha già finito
il suo giorno di pietra arroventata
il fedele si umilia alla moschea
il trono è giustizia del barone
il barone destino del suo servo.
Nell'ombra è ormai difficile scoprire
il pianto di ciascuno.
La risacca ha deposto strati
a strati non li tocca neppure la radice dell'ulivo.
Il pescatore con le braccia in croce
le donne delle terre deflorate
il colono trafitto fra le rocce
sono volti musivi imprigionati
sugli sfondi delle absidi dorate.
E l'oro più non splende nella sera.

Amaro commentare della guida
a San Giovanni degli Eremiti
- Chi vince ha sempre ragione di disfare -.
A orde gli invasori battevano su ciuffi di palmizi
con violente libecciate.
Rotolava sul mare l'onda fresca
il forestiero si lavava il viso.
Ogni cupola rossa nel suo cerchio
ogni arancia matura infondo al pozzo,
alle varie vicende degli dei
lo stesso sconsolato sacrificio.
I vecchi fichidindia immoti,
stirpe d'esseri incisi
da mille punte di coltello.
Più duri della selce nella scorza.

Il vento del deserto non ha canti
la musica è lamento
ogni porta si chiude sul tramonto.
E' l'ora del governo delle bestie
del boccone a fatica masticato
dello sguardo fissato contro il muro.
La speranza è la notte.

Ovunque andiamo il Sud ci accora: / terre assetate, piante pie gate, / uomini che non sanno più amare. / Neppure l'aria puoi dire che è tua: / le case si frantumano al sole".
I versi sono di Lucio Romano, poeta che forse raramente fa sentire la sua voce, pur essendo una voce di buona tempra e di vigorose immagini. Brevissime le sue poesie, eppure densissime di umani significati. Scrive in "Salento":

E' questo il Salento
bruciato dal sole
ove il cielo del Sud
avaro di piogge
ha sotto gli occhi
schiene curvate, some
dal cuore in pena:
ove sirene di cantieri sono
antichi rumori di zappe.

E ancora, in sette versi che formano la poesia sul "Contadino", anche questa compresa nella raccolta "Sul calar della sera":

Ti pieghi sulle aride zolle
e hai le braccia spossate:
il tuo pianto lo sente
la terra e la vite malata;
poi, quando giunge il raccolto
ti cade dal cuore ogni fede
e vai bestemmiando per i campi.

E, infine, quasi un'invettiva, nei versi di "Migrano nel Nord":

Il Salento è stanco
di fare la fame,
è stanco di essere in pena,
di vivere in attesa:
per questo i suoi figli
sognano le tute azzurre
delle officine, abbandonano
le terre, migrano nel Nord,
ove il sudore si vende
a un prezzo più onesto.

Dello stesso timbro la poesia di Nicola G. De Donno, rafforzata probabilmente - per l'immediatezza del messaggio - dall'uso del dialetto. Ne riportiamo una, "Utràntu" ("Otranto") con la traduzione di Donato Moro:

Mare de sale, jentu senza cantu:
a Utràntu cinque seculi de jentu,
frange de cràuli an celu, e stu spaventu
ca dura, e llu ribbombu de ddu schiantu.

Cusì t'ài strutta a pelle e cchiesa, Utràntu,
ma ogni annu sullu cippu alli Ottucentu
se scunùcchiane l'osse, e allu Salentu
li cràmmani ricordi, e cchiami chiantu.

Piccinni nuti cu rrena pe mmantu
àlica sporca de scoma de mare
scàvane scàvane a gnenti truvare.

O pe ttruvare reliquie de Santu,
isca de paratisu, a ffrasturnare
pena de pane vera a vvanu vantu.

Mare di sale, vento senza canto: / ad Otranto cinque secoli di vento, 1 frange di cornacchie in cielo, e questo spavento 1 che dura ed il rimbombo di quello schianto. Così ti sei consumata a pelle e chiesa, Otranto, / ma ogni anno sul ceppo degli Ottocento / si disarticolano le ossa, ed al Salento / gli càrmini memorie, e chiami pianto. Fanciulli nudi con rena per veste / alghe sporche di schiuma di mare / scavano scavano a niente trovare. O per trovare reliquie di Santi, / esca di paradiso, a distrarre pena di pane vera a vano vanto).

Vittore Fiore, nato in tempi in cui suo padre, Tommaso, giacobino agrario, era in esilio. Gallipoli la sua patria. Alla quale dedica "Ero nato sui mari del tonno":

Ero nato sui mari del tonno
dove l'Jonio mostra la sua dolcezza
e all'inverno il suo terribile moto.
E allora che il viso dei pescatori
ha la forma del vento
e fra mare e terra vi è un unico spazio.
Venga Lupo Protospata a dirci
le antiche invasioni e il massamutino
passi il cotone e le spezie e il lino
per arabe mani.
Gallipoli, un vento azzurro guidò
me bambino fra le tue case
fino alla chiesa del Mal Ladrone:
fu allora che tra bene e male
conobbi un divario. Appena finito
il mare gridava le sue perdute
speranze la Magna Grecia
e come in un'antica armonia
la ragione fu l'uno
e il due la scienza
e tre l'opinione
e il quattro fu sensazione.
Qui venne Pitagora
e giorni felici conobbe
chi cantò la lira.
Torneranno i volti umani,
le belle forme finora celate
dove ora solitaria Metaponto
la sabbia lascia al vento di lontane
pietre spoglie di gloria e un'aria secca
trascina tra i campi gonfi di sole.
Noi cogliamo cicorie
tra le Murge e lumache,
un filo d'erba, rinasce la speranza.
All'Adriatico i miei giorni
inclinano, a questi cieli grigi.
Qui anche l'Addolorata
ha spade d'argento nel petto,
qui anche a me la parte di dolore
riportano dalle piazze
le voci che alle incerte luci dell'alba
all'asta comprano i braccianti.
E se tu nuovo sangue
in me sei, terra natale,
meglio aprire le braccia dagli approdi
dell'antico meditare.

Ancora una poesia dedicata al paese natio, colta nella pienezza dell'antico, fatale immobilismo. Tutto è già nel titolo: "Sonno del mio paese":

E tu bianco di mura
così lontano e solo intorpidisci,
lì, oltre il mare, son isole perse
su acque azzurre.
Ecco, se entri al piano solitario
di là per sempre il mio paese aspetta,
traverso gli archi tuoi la Spagna cola
un sonno antico lentamente viola.

E ancora più ampio il respiro di "Salento":

E qui, se mai verrai, l'estate
quietamente si sfanno gli obelischi
e cattedrali come sortilegi
consumano in esilii avventurosi.
Prossimi alle scogliere noi
parleremo del Sud, dell'Europa,
dell'uggia e del campo di tabacco
che avanza in bilico tra noi e il mondo.

Fino al bellissimo canto dedicato al "Salento estremo", Finibusterre, ai confini del mondo, terra della desolazione neolitica, l'ultima spiaggia leucana:

Venivano al nostro fresco mare, a Leuca,
fedeli avventure,
ecco sui dorsi dell'onda
c' erano secoli alla deriva,
uomini secoli per cercare
meridiane paure
e sulla costa abbandonata
fiato e fiato d'altri cieli,
d'altre case marine,
navi precoci di morte,
di silenzi. Di mare in mare
uomini prima di noi
costruirono una casa, una tomba,
neri secoli anche,
come sonno dalle paludi,
le distrussero,
più nessuno sa quanti anni
dietro di noi,
quando già molti destini
erano emersi dagli scogli.
Uniamoci contro la morte, amici,
lo dicono non uno, ma mille anni
nel vasto mare di Leuca.
Per sempre l'avrei taciuto
se da secoli intorno
i cespugli, le case fanno questo,
fanno freddo nel cuore
se pietre e pietre
reggono l'aria calda del Salento.
Anche le lapidi sono entrate,
erano forse storie necessarie,
come una giovinezza sfiorita
laggiù dentro di noi
ai cieli dei paesi senza gridi
presso case cretose,
quando ognuno in estate
da anni ed anni
ha un sole negli occhi,
s'affila una pianura.
Uniamoci, amici, ogni giorno
crepita una nuova tomba,
i morti riposavano sul cuore
compresi i vivi
attraverso una sola terra ormai.
Chi l'aveva detto?
Dove ogni rupe è sola,
dove ogni albero è duro silenzio,
ogni uomo fuga sulle labbra,
uniamoci, amici, è Leuca,
in un deserto d'erica, quell'aria.

Un'ultima voce, la più intensa, forse, tra tutti i poeti salentini. L'inquieto e vigoroso Vittorio Bodini, la voce più moderna della poesia italiana. Scriveva:

Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
dalla faccia d'un dado.

E alla capitale salentina, la città emblematica di questa terra, elegante e pettinata, con il suo incredibile barocco affiorante dalle Chiese e dalle parole della gente, la trasposizione felice nei versi di "Lecce":

Biancamente dorato
è il cielo dove
sui cornicioni corrono
angeli dalle dolci mammelle,
guerrieri saraceni e asini dotti
con le ricche gorgiere.

Un frenetico gioco
dell'anima che ha paura
del tempo,
moltiplica figure,
si difende
da un cielo troppo chiaro.

Un'aria d'oro
mite e senza fretta
s'intrattiene in quel regno
d'ingranaggi inservibili fra cui
il seme della noia
schiude i suoi fiori arcignamente arguti
e come per scommessa
un carnevale di pietra
simula in mille guise l'infinito.

E l'ultima poesia, il grido senza fine, come l'urlo ritmato nella spagnolesca arena del Salento e del Sud, nella terra illuminata a lame e a striature bianco-lampeggianti, sotto il simbolo del delfino con la mezzaluna in bocca che campeggia nel cielo, nella cultura, nei comportamenti, dei salentini:

La luna dei Borboni
col suo viso sfregiato tornerà
sulle case di tufo, sui balconi.
Sbigottiranno il gufo delle Scalze
e i gerani - la pianta dei cornuti -,
e noi, quieti fantasmi, discorreremo
dell'unità d'Italia.

Un cavallo sorcigno
camminerà a ritroso sulla pianura.


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