La " Biblioteca salentina di cultura"




Mario Marti



I.- Cultura regionale e cultura nazionale.

Non è che il problema del rapporto fra cultura regionale e cultura nazionale sia di oggi; che anzi esso - come par del tutto evidente e non certo bisognoso di dimostrazione - è vecchio almeno quanto l'unità politica del Regno d'Italia; e anzi dei modi con i quali fu raggiunta, quel fondamentale problema è, ancora oggi, storico simbolo ed ineluttabile conseguenza. Basterebbe pensare, senza insistere più di tanto, alla letteratura "regionalistica" della seconda metà dell'Ottocento e del primo Novecento (e via via, sia pur sotterraneamente), e a tutta la fenomenologia politica, economica, amministrativa che la motivava nel profondo; e basterebbe pensare al taglio, più o meno erudito, delle ricerche storiche, ma anche più ampiamente culturali, che direttamente o indirettamente riflettevano la varia "geografia" della nuova civiltà italiana, o che da questa succhiavano gli umori della propria vitalità. Certo, si tentava una composizione armonica, e, almeno entro certi limiti di rispetto, una sorta di novella reductio ad unum; ma mai si poté misconoscere l'esistenza ben identificabile di tradizioni culturali tipicamente regionali, entro l'ambito dell'unità politica per la prima volta raggiunta, o dell'unità nazionale per la prima volta politicamente reificata. Nel ventennio fascista - senza star lì a menzionare polemiche entro certa misura perfino pittoresche, e comunque decadentisticamente ben lontane, alla loro radice (alludiamo, per esempio, a "Strapaese-Stracittà" degli anni venti già fascisti), dalla problematica che qui c'interessa era e fu naturale che il processo, per così dire, della deregionalizzazione dello Stato italiano venisse fortemente accelerato e rafforzato. E ciò non soltanto dall'alto e dall'esterno, per via dell'ideologia violentemente accentratrice e centralizzatrice del movimento diventato governo della nazione, ma anche per interiore convincimento e consenso delle masse borghesi e popolari, sollecitate da un nazionalismo, magari illusorio e perfino grottesco nelle sue manifestazioni, che tuttavia operò, decisamente e nel profondo, nella direzione di una coscienza più consapevolmente unitaria in senso politico, culturale, nazionale. Par legittimo credere che un decentramento politico-amministrativo attuato in Italia senza la solida e concorde esperienza unitaria del ventennio fascista, o prima di essa, avrebbe potuto scatenare prepotenti forze centrifughe, tali da rendere vani gli stessi risultati dei decenni risorgimentali. Val la pena di ricordare a questo proposito ciò che avvenne in Sicilia (e non solo in Sicilia, sia pur in proporzioni meno vistose) negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale; di sottolineare le differenze, consacrate nella Costituzione, tra regioni a statuto ordinario e regioni a statuto speciale; di allegare le acri, acide e perfino astiose polemiche che contrapponevano (e continuano a contrapporre) il Settentrione e il Meridione d'Italia, non nel loro aspetto più deludente ("Via i Terroni!" sui muri delle case non solo di Milano), ma nel loro reale valore di contrapposizione antropologica, nonché economica; e altro ancora. Ne risulta indubbiamente rafforzata e motivata la prospettata ipotesi. E per altro il Fascismo, accentratore e persuasore anche nel campo della cultura, per quanto si voglia poco intelligente e incauto e magari proclive a un lassismo di comodo e addirittura scetticheggiante, si rendeva ben conto dei fermenti vivi operanti entro la vita più schietta delle regioni tradizionali; talché nel Dizionario di politica (1940) curato dal Partito stesso, alla voce "Regionalismo" si poteva leggere quanto segue:
"... la straordinaria intensità, varietà, vitalità della storia italiana ha lasciato la nazione, sorta a stato unitario, erede di una gamma policroma di individualità regionali ben caratterizzate e non distruttibili. In tali individualità regionali si tramandano e rinnovano i molteplici fermenti mediterranei dal cui continuo sovrapporsi e mescolarsi si genera la versatilità, la poliedricità, l'interiore equilibrio, l'umana e cristiana integrità dello spirito italiano. Le belle tradizioni regionali italiane costituiscono una forza viva della nazione, mentre d'altra parte l'unità nazionale, rinnovata attraverso la nobile epopea del Risorgimento, ma radicata in processi di intima fusione che risalgono alla civiltà etrusca e alla civiltà romana, è così assoluta da escludere ogni pericolo attuale di regionalismo politico."
Riconosciamolo francamente; l'impostazione della delicata "voce", formulata per un Dizionario di politica, e di politica fascista per giunta, non manca di una suadente chiarezza e possiede una certa carica di suggestività. lo non so chi l'abbia redatta, poiché, per invitante comodità, ho trascritto le precedenti righe dall'introduzione di Alfredo Stussi a una sua utile antologia di pezzi su Letteratura italiana e culture regionali (Bologna 1979, p. 13). Lo Stussi, per altro, in nota, l'attribuisce a G. Maranini, probabilmente il costituzionalista; e non c'è ragione di dubitarne. Colpisce, certo, l'affermazione dell'esistenza di "individualità regionali ben caratterizzate", in regime di poderoso accentramento e alle soglie dell'ultimo conflitto mondiale; ma più ancora quella della loro non distruttibilità, onde la conseguente proposta di un reciproco dare e avere, nei riguardi della nazione. E' vero che si parla anche di "belle tradizioni italiane" con paurosa scivolata, se non erro, verso il folcloristico e verso il pittoresco; e che l'intera argomentazione si conclude con l'esclusione di "ogni pericolo attuale di regionalismo politico", dove il "pericolo" denuncia il sintomo dell'ideologia, e l'"attuale", a parte ogni pregnanza profetica, mette in forte rilievo, anche se in modo indiretto, l'incidenza delle "individualità regionali" nella realtà nazionale. Fatto sta che la "voce" è tutt'altro che un invito a una imperiosa prevaricazione della cultura nazionale fino a rendere asfittica e nuda la regionale, e soffocarla infine. Potrà sembrare assurda l'ipotesi che gli effetti accentratori, livellatori ed uniformatori conseguenti all'azione politico-culturale del regime fascista nel quadro del problema dei rapporti fra regioni e nazione, siano stati continuati dalla sempre più massiccia diffusione e dall'esercizio sempre più continuato dei mezzi di comunicazione di massa; ma per me non lo è affatto. Linguisticamente è ben noto, per intanto, l'effetto livellatore causato dai mass-media sui dialetti di ogni regione; essi ne uccidono i caratteri più singolari e peculiari, particolarmente nel campo del lessico e della fonologia (la sintassi e la morfologia risultano maggiormente resistenti); ma culturalmente gli stessi effetti sono ancor più patenti e, se si vuole, addirittura drammatici. Giornali, radio, televisione agiscono come spaventose aggregazioni di opinioni di massa, a ogni livello orizzontale e verticale, nel senso insomma della dislocazione geografica e in quello della stratificazione sociale, sia in sede locale, sia in sede nazionale. Le culture regionali, in quanto e per quanto esse posseggono di autentico e di autoctono, si difendono in una poderosa opera di rivalsa e cercando di conoscere meglio, di studiare più rigorosamente e di definire con la maggiore chiarezza possibile la propria attendibilità e la propria identità. Non fuori, ma entro la nazione; non in giuoco di alternativa culturale, ma in inscindibile unità dialettica. Dio mio; sembra un giuoco di parole, o una trappola sofistica per irretire gl'inermi. Veniamo allora al concreto storico; esemplifichiamo su personaggi noti al comune dei possibili lettori (quanti?) di queste pagine. Nessuno di loro vorrà negare che Girolamo Corni e Vittorio Bodini siano poeti "salentini", e non soltanto per ragioni anagrafiche. Il loro modo di essere "salentini", e la loro "salentinità", è oggetto di studio, è insomma un'ipotesi di lavoro. Ma nessuno di loro vorrà negare che Corni e Bodini siano poeti italiani ed europei; e il loro modo di essere italiani ed europei è anch'esso oggetto di studio, anch'esso insomma un'ipotesi di lavoro. Mi si perdoni il procedere per asserzioni apodittiche; ma almeno fin qui queste mi sembrano del tutto oggettive, estremamente lapalissiane. Sarebbe pazzesco fare allora un passo avanti, e dedurre che nel loro europeismo, nel loro alto e possente respiro europeo, si innalza e si sublima, viene innalzata e sublimata, la realtà del loro Salento (almeno come componente della loro poetica e della loro poesia), e che proprio il loro sentirsi europei, la loro "condizione" europea, si cali nella realtà di quello stesso loro Salento, permettendo loro di ricrearla, reinventandola nei modi che di ciascuno di loro sono ben peculiari, e che ciascuno di loro singolarmente caratterizzano? E non si tratta, sia chiaro, di momenti o di movimenti cronologicamente distinti o strutturalmente diversi, ma di un solo moto creativo, per il quale Corni e Bodini sono europei per il Salento e sono salentini per l'Europa. Questa a me pare la maniera più corretta d'impostare, e in qualche modo di risolvere, il problema dei rapporti fra culture regionali e cultura nazionale; quella, per lo meno, che meglio risponde, fra quante se se ne sono venute formulando in questi decenni postbellici, a una metodologia di storicismo integrale e d'ascendenza vichiana, qual è appunto la metodologia cui si è ispirato e si ispira, in linea generale, il mio mestiere di storico e di critico della letteratura italiana. Mi si potrebbe forse obiettare che l'esempio è scelto a bella posta e magari, anche senza volerlo, un pò tendenzioso, considerato che si riferisce a un settore estremamente specifico; ma è verosimile che una più matura riflessione e un'ulteriore meditazione (inopportuna in questa sede) porterebbe a chiarire ogni dubbio. Quando dunque si dice che il problema del rapporto fra culture regionali e cultura nazionale è andato concretizzandosi in questi ultimi decenni, si dice cosa esatta e insieme inesatta: inesatta poiché esso lo si è accennato - risale addirittura all'epoca dell'Unità; esatta, nel senso che in questi ultimi decenni, esso è stato dibattuto in modo nuovo e sempre più impegnato: la relazione di Carlo Dionisotti, intitolata significativamente Geografia e storia della letteratura italiana, pubblicata nel 1951 in "Italian Studies" e poi in volume miscellaneo, recante quello stesso titolo, nel 1967 a Torino, in realtà fu letta a Londra il 22 novembre 1949. All'appassionato fervore del dibattito hanno infatti contribuito cause nuove, che gli hanno impresso carattere non possibile prima degli anni cinquanta: la lunga discussione politico-amministrativa sul decentramento regionale previsto e voluto dalla Costituzione; la successiva attuazione dell'ordinamento stesso e i poteri attribuiti al nuovo organismo, anche sotto il profilo culturale; la crisi dei valori estetici categorialmente commisurati e l'esaltazione della fenomenologia delle poetiche; l'ampliamento e l'arricchimento del concetto stesso di letteratura e di cultura con l'acquisizione del regno dell'antropologia; la consapevolezza più diffusa del policentrismo della cultura e del possibile recupero unitario entro una superiore dialettica. E forse altro ancora. Certo, è una problematica assai complessa, e perciò non immune da possibili confusioni o da false implicazioni; e a me pare che non raramente se ne siano verificate nel corso dello specifico dibattito di questi anni, al quale or ora si alludeva: non si può identificare per esempio, la letteratura nazionale nella letteratura colta e dotta, rispetto alla letteratura regionale considerata popolare; né la nazionale sic et simpliciter nella letteratura in lingua e la regionale nella letteratura in dialetto. Aporie frequenti e ritornanti, che vanno superate e chiarite caso per caso, in una costante visuale dialettica fra vita e civiltà regionale e vita e civiltà nazionale e supernazionale.

II.- L'avvio della "Biblioteca Salentina di Cultura".

L'istituzione universitaria leccese cominciò a funzionare nell'anno accademico 1955-56 con una sola Facoltà, e perciò come "Istituto Superiore di Magistero". Nell'anno successivo 1956-57, fu istituita la Facoltà di Lettere e Filosofia e nacque la vera e propria Università degli Studi di Lecce, poiché gli ordinamenti prevedono che una "Università" sia costituita da almeno due Facoltà. In quell'anno stesso io, che vivevo a Roma fui chiamato a ricoprire per incarico l'insegnamento della Letteratura Italiana, avendo già superato, poco innanzi, il concorso per la libera docenza in quella disciplina; e uno dei miei più vivi propositi era di iniziare e promuovere un'opera di scavo culturale nell'area salentina, alla ricerca di una possibile costante tradizione e di una configurabile identità, proprio nel quadro della problematica fin qui illustrata e in un orientamento insomma ancor nuovo e perciò stesso più stimolante. La prima tesi di laurea della quale io fui relatore nel 1960, subito dopo il riconoscimento giuridico della "Libera Università degli Studi di Lecce", aveva per titolo: "Autori salentini del secolo XVI" ed era stata compilata dalla laureanda Anna Maria De Vergori. Si trattava di un'ampia ma cronologicamente limitata, esplorazione bibliografica, condotta appunto secondo un largo concetto di "letteratura", come del resto si evince dal titolo che parla di "Autori" e non, poniamo, di "scrittori" o di "letterati". L'esplorazione bibliografica serviva a mettere in luce figure interessanti di salentini tutte da scoprire, o da riscoprire dopo l'antico momento di fiammata di notorietà, e sulle quali, a loro volta, venivano assegnate altre tesi. Una dozzina di anni di cosiffatto lavoro aveva prodotto i suoi frutti, quando gli avvenimenti del '68 e degli anni successivi bloccarono tutto. Del resto a quell'epoca parlare non dico di "cultura salentina", ma di "cultura del Salento" o "nel Salento", significava nell'Università di Lecce esporsi alle più sarcastiche contestazioni e alle accuse di angustia provincialesca, di erudizione campanilistica, di cultura reazionaria e chiusa, e di altro ancora, naturalmente in peggio; laddove lo sforzo invece tendeva proprio alla direzione opposta, a quella cioè di recuperare una tradizione culturale del Salento e nel Salento in relazione alla storia della cultura nazionale, nel quadro della più avanzata e dibattuta problematica critica. Donato Valli, dapprima assistente bibliotecario alle mie dipendenze e poi mio stretto collaboratore e collega, intuì la vera natura e l'estrema importanza della ricerca, nonché l'amplissimo arco di possibilità che gli offriva un assai vasto campo tutto ancora da esplorare o da riesaminare con rigore scientifico, e pubblicò nel '61, nella collezioncina del "Minima" di Milella da me fondata e diretta, quella Cultura letteraria nel Salento (1860-1950), la quale, superato il periodo delle perplessità e delle contestazioni, può essere considerata oggi il punto di partenza della rifondazione della recente cultura salentina entro un filone tendenzialmente letterario. E così, in quest'ultimo decennio, le prospettive degli studiosi sul Salento, sono andate sempre più allargandosi e arricchendosi, dalla storia all'archeologia, dalla letteratura all'antropologia, e via dicendo.
Sicché nel settembre del 1975, ritornato a Lecce dalle vacanze estive, volli sottoporre all'editore Milella l'idea di una silloge di autori salentini studiati e presentati col massimo rigore scientifico in una prospettiva di lavoro più che decennale. E Milella, dopo qualche perplessità, dovuta, più che altro, al pregiudizio, anche suo, che l'iniziativa nascesse col marchio dell'angustia provincialesca (tipico pregiudizio di mentalità appunto provinciale, piuttosto diffusa, come si è detto, anche in zone che avrebbero dovuto esserne franche), diede il proprio apprezzatissimo consenso. Mi rivolsi allora agli studiosi che mi erano più cari e vicini, e interessati per più versi allo studio delle cose salentine, per costituire una valida redazione: al già ricordato Donato Valli; ad Antonio Mangione, il quale si era laureato a Roma con Schiaffini, ma sotto la mia guida (essendo io allora Assistente Straordinario di quell'illustre Maestro), e che aveva accettato di esser mio Assistente nell'anno accademico 1956-57, e lo fu poi per più lustri; e infine a Gino Rizzo, dapprima mio allievo, poi mio assistente e ora anche mio collega. Un anno e più di ricerche e di lavoro ci occorse per affrontare e risolvere i grossi problemi scientifici posti da un'iniziativa di tal genere, dal concetto stesso di letteratura regionale alla presunta apodittica realtà dello stesso Salento come "regione"; dalla denominazione della silloge alla indicazione in serie degli autori e delle opere da trascegliere e da stampare. Una grossa operazione di scavo culturale e di storicizzazione, sia pure ancora approssimativa. Si optò infine per il titolo di "Biblioteca Salentina di Cultura", ove l'aggettivo "salentina" indica il grosso filone storico e geografico della rifondazione culturale (con assoluta esclusione di un carattere categoriale, e dunque contro ogni ipotesi di "cultura salentina"); e dove il sostantivo "cultura", preferito decisamente a quello di "letteratura", sta a rassicurare sull'ampiezza e sulla ricchezza degli interessi in giuoco. Furono fissate come generale programma due serie composte di dodici volumi ciascuna, le quali non travalicassero il limite cronologico della prima guerra mondiale, per ovvie ragioni: dagli anni venti in poi infatti, penetrando nel vivo della contemporaneità, il processo di storicizzazione sarebbe stato impossibile, privo del l'indispensabile filtro della prospettiva culturale e del tempo. I previsti ventiquattro volumi, alcuni dei quali divisi in tomi o con possibilità che lo siano divisi, comprendono poeti e letterati, come i lirici salentini dell'epoca barocca, i narratori salentini dell'Ottocento, i poeti e prosatori salentini fra Otto e Novecento, e così via; pensatori e trattatisti, come gli illuministi e i riformatori salentini, i filosofi salentini del Rinascimento, e così via; gli scrittori di teatro, i memorialisti, gli scienziati, particolarmente dal Settecento in poi, la letteratura dialettale. Volumi sono anche messi in conto per una silloge di testimonianze giornalistiche e per una silloge di testimonianze demologiche. E volumi monografici dovrebbero essere dedicati a figure eminenti: a Roberto Caracciolo, al Galateo, a Scipione Ammirato, ad Ascanio Grandi. La redazione della "Biblioteca" ha curato di mettere a punto la prima serie di dodici volumi, affidandone la responsabilità a studiosi salentini: Enzo Esposito, Oreste Macrì, Giovanni Papuli e Aldo Vallone, nonché Mario D'Elia per la sezione dialettale, oltre ai già ricordati componenti della redazione stessa, Mangione, Marti, Rizzo e Valli. Questo, quanto al programma e alle strutture generali; e quanto ai criteri editoriali: testi in edizione critica oppure criticamente (filologicamente) accertata; ampie introduzioni generali a ciascuno dei volumi, in modo che, messe poi insieme, risultino come altrettanti capitoli di una storia della cultura nel Salento e corredate, naturalmente, di bibliografia di carattere generale; introduzioni singole a ciascuno degli autori, con bibliografia particolare; note esegetiche di carattere storico, linguistico e culturale, senza fronzoli e senza edonismi estetizzanti; indice linguistico e indice onomastico. Assoluta prevalenza alla riproduzione di opere intere; eventuale antologia di parti unitarie e compatte, con esclusione di ogni scelta di "belle pagine".
Non tanto i criteri editoriali, il cui rigore scientifico è difficilmente contestabile, ma quelli generalmente programmatici e strutturali potrebbero sembrare discutibili in tutto o in parte: nessun analogo programma - ne sono convinto - è formulato in modo tale da non suscitare un qualche dubbio, una qualche perplessità, una qualche proposta di sostituzione o di integrazione. Nessuno tuttavia, in buona fede, può avanzare l'ipotesi che la "Biblioteca Salentina di Cultura" sia, come si dice, "partita alla garibaldina", senza idee chiare e senza un piano organico. I risultati di più di un anno di lavoro redazionale ne sono la prova e il documento.

III.- I primi volumi della "Biblioteca".

L'assegnazione dei volumi alla prima o alla seconda serie, in cui si bipartisce l'intera collezione, fu generalmente motivata da ragioni pratiche ed empiriche: la redazione cioè ritenne opportuno di tener conto, nell'affidare i primi dodici volumi, dello stato attuale degli studi intorno agli argomenti e ai personaggi da trattare e del lavoro già effettuato o in via di effettuazione, nello specifico campo, da parte dei componenti della redazione o di altri studiosi salentini specialisti. lo stesso da tempo, e proprio nella convinzione che l'iniziativa giungesse a buon fine, mi studiavo l'ancora inedito Rogeri de Pacienza di Nardò; Gino Rizzo aveva più che gettato gli occhi e dato uno sguardo al suo Ferdinando Donno di Manduria; Donato Valli era ormai diventato uno specialista della cultura salentina fra Otto e Novecento; Antonio Mangione aveva già pubblicato presso il Cappelli di Bologna il suo Castiglione e andava approfondendo i suoi studi sull'Ottocento salentino. Queste considerazioni costituirono la certezza del primo cammino, e corrispondono in effetti ai primi tre volumi già pubblicati e al quarto in via di pubblicazione. Ma Oreste Macrì fu pregato di accettare la cura dei lirici salentini del Seicento; Aldo Vallone quella degli Illuministi e Riformatori; Enzo Esposito di Roberto Caracciolo e dei predicatori della Controriforma; e infine il dialettologo Mario D'Elia quella della letteratura in dialetto, il quale chiese e ottenne la collaborazione di due critici della letteratura, il sottoscritto per il periodo fino all'Unità del Regno, e Donato Valli per quello successivo. Una dozzina d'anni è prevista per il completamento di questa prima serie di volumi, e forse anche di più, considerato che alcuni di questi volumi sono divisi in due tomi, una dozzina d'anni a partire, ovviamente, dal dicembre del 1977, data del "finito di stampare" apposta nell'explicit del primo volume in ordine di tempo.
Nei primi mesi del '78 infatti fu distribuito l'inedito Rogeri de Pacienza di Nardò con le sue inedite opere: Lo Balzino e il Triunfo, entrambe in lode di Isabella Dei Balzo, che divenne regina di Napoli, dopo aver sposato Federico d'Aragona. Le due opere, già note al Croce, che però concentrò la propria attenzione solo sul Balzino, giacevano quasi del tutto sconosciute (solo del Balzino aveva pubblicato una piccola parte S.Panareo a Trani nel 1906) nel manoscritto F27 della Biblioteca "Augusta" di Perugia, una bella copia preparata per la nobildonna leccese Giulia Paladini, signora di Rogeri e amica d'Isabella. Da questo bel manoscritto io le ho tratte in edizione critica (alle pp. 309-315 le varianti critiche e le varianti grafiche) e le ho presentate in volume secondo i criteri generali della "Biblioteca": introduzione generale, nota bio-bibliografica, testi, indicazioni filologiche, esegetiche, linguistiche, onomastiche. Mi pare che la pubblicazione, a prescindere da ogni considerazione di carattere tecnicamente valutativo (affidata al benevolo lettore), offra elementi d'estremo interesse sotto un duplice aspetto: sotto quello strettamente monografico (autore, opere) e sotto l'altro aspetto che si potrebbe definire filologico-strutturale, del modo in cui le opere si presentano nel manoscritto. Lo Balzino narra in ottave canterine la vita di Isabella Dei Balzo dalla nascita fino al trionfo regale del 13 febbraio 1498, quando Federico rientrò nella sua Napoli festante dopo la sua vittoria sul Principe di Salerno. Sono otto canti; ma particolarmente suggestivi appaiono i canti centrali - dal terzo al sesto contenenti le sventure di Isabella e poi il suo trionfale viaggio da Lecce verso Napoli. A prescindere dalla piacevolissima lettura dalla narrazione di tono semipopolare o semidotto, ma tutta storicamente esatta, durante la quale si svolge un processo agiografico nei riguardi dell'amatissima e ammiratissima regina, colpiscono lo studioso i meravigliosi inserti di documenti letterari e di documenti di costume dei quali la regina è destinataria durante il suo viaggio. Roba ghiotta per i letterati, per gli studiosi delle tradizioni popolari, per gli storici della cultura, per gli antropologi. E anche per i linguisti, dal momento che vi si leggono due inserti in lingua francese salentinizzata (siamo alla fine del sec. XV) e uno in lingua serbo-croata, che ha costretto gli storici di questa lingua a precisazioni e retrodatazioni impensabili prima della sua pubblicazione. Inoltre, tutto il poema chiede un suo posto nel panorama narrativo semipopolare fra Quattro e Cinquecento, non poi così ricco. Il Triunfo denuncia anch'esso la limitatezza della statura poetica di Rogeri (una "visione d'Isabella bella e buona circondata da eroine belle e buone d'epoca antica e recente") nella fattura delle terzine, nel linguaggio, nell'erudizione troppo evidentemente d'accatto e di seconda mano; ma si pone anche come tappa di una fortuna (Petrarca, Boccaccio), come diffusione di un particolare "genere" finora non troppo studiato, e come frutto di una tensione umanistica e culturale d'epoca operante, nell'Italia meridionale e nel Salento, anche in fasce sociali perfino insospettabili.
La struttura del manoscritto poi è quanto di più armonioso ed elegante si può desiderare nella rinascimentale sensibilità; poiché le due opere in successione, prima Lo Balzino poi il Triunfo, sono precedute, accompagnate, concluse da una serie di sonetti, dopo le rispettive lettere dedicatorie, ai quali è attribuita la specifica funzione di illustrazione, di completamento, di decorazione (sonetti amorosi).
A Ferdinando Donno di Manduria (1591-1649) e alle sue opere è dedicato il secondo volume apparso in ordine di tempo, magnificamente curato da Gino Rizzo; con la sua solida introduzione generale incentrata sulla poco nota figura del Donno e corredata da un'eccellente bibliografia; con i suoi testi criticamente accertati; con i suoi indidici linguistici e onomastici; e soprattutto con le sue imponenti annotazioni storico-culturali. Comprende: La Musa Lirica, una ricca e strutturalmente mossa raccolta di poesie; L'amorosa Clarice, un romanzo in prosa, già segnalato come di imminente pubblicazione (incredibilmente, considerata l'altezza della data rispetto alla storia del romanzo nel sec. XVII) nel 1620, ma uscito poi soltanto nel 1625, e comunque sempre in epoca quasi preistorica; l'Allegro Giorno Veneto, in dieci canti di ottave, un poema a celebrazione dello sposalizio di Venezia col mare. Il Donno visse infatti a lungo a Venezia, dopo una sua sofferta partenza giovanile dalla natia Manduria; e alla sua piccola patria infine ritornò nel 1635, per morirvi, come arciprete della Chiesa Matrice, il 25 aprile 1649. Gino Rizzo non ha mancato la fortunata occasione per lumeggiare e affrontare anche il problema, importantissimo, delle relazioni fra Venezia e il Salento (e non solo dal punto di vista letterario) in quell'epoca, e del rapporto fra la civiltà barocca del Seicento leccese e le forme espressive donniane nella sua dimora veneziana. Ma lascio a lui la parola, per un'adeguata presentazione di questo suo encomiabilissimo lavoro: "La carriera letteraria di Ferdinando Donno ... prende l'avvio da un distacco traumatico dalla città natale Manduria di Taranto. Nell'iniziale raccolta poetica, La Musa Lirica, i temi dell'assenza perciò, della separazione, della lontananza, creano proiezioni e scavi psicologici dai risvolti baroccamente onirici o allucinatori (si veda soprattutto il poemetto in ottave Gli Amori di Leandro ed Ero), all'interno di un codice, quello petrarchesco-bembesco, che si propone quale illusorio risarcimento dello spazio autobiografico ancora sconnesso e irrisolto. Ed è significativo, a questo proposito, che nella successiva opera, l'Amorosa Clarice, faccia da sfondo proprio la città natale, che si configura come un edenico e platonico fondale per una sorta di immaginario e rassicurante pensiero del ritorno.
Per altro il romanzo del Donno, esemplato sulla Fiammetta del Boccaccio (ma su un piano di competitività non di dipendenza), e dalla scrittura smaliziata ed elegante, testimonia della precoce autonoma e audace usufruizione di un genere letterario assai diffuso in Francia ma ancora ignorato in Italia agli inizi del sec. XVII, e rivela una singolare attenzione alle pulsioni emotive della protagonista, secondo una direzione sostanzialmente trascurata dalla successiva produzione romanzesca dello stesso secolo. Del 1627 è l'ultima opera del Donno, l'Allegro Giorno Veneto, un poema eroico scritto dal letterato manduriano per rendere omaggio a Venezia, città nella quale egli soggiornò per un lungo periodo, prima del definitivo rientro in patria. Il poema celebra la più imponente e fastosa festa veneziana, quella dell'Ascensione, ed insieme il patrimonio iconografico e mitografico oltre che epico della repubblica veneta, simbolo di perennità e di continuità alternativo al sentimento dell'"effimero", tragicamente vissuto dall'epoca barocca". Di recente è poi apparso, naturalmente con la stessa veste tipografica e per opera dello stesso editore Milella, il terzo volume: Poeti e prosatori salentini fra Otto e Novecento: Ampolo, Nutricati, Rubichi, a cura di Donato Valli ed è superfluo sottolineare come esso rappresenti il più maturo frutto di uno studioso che all'analisi storico-critica della cultura del Salento in quest'ultimo secolo e passa ha dedicato tanta parte della sua fervida e diuturna attività. Strutturalmente questo volume presenta aspetti diversi da quelli dei volumi precedenti, poiché non un solo scrittore, ma tre autori, vengono sottoposti all'attenzione degli interessati. E inoltre esso costituisce il primo di due tomi (e intanto già di per sé conta ben 696 pagine), il secondo dei quali conterrà opere di Giuseppe Gigli e vari e significativi documenti della cultura e del costume del Salento fra Otto e Novecento. Sicché, l'opera intera, quando sarà completa, rappresenterà un insostituibile strumento, col suo meditato taglio, per la conoscenza storica della vita culturale salentina fra l'avvento dell'Unità e la prima guerra mondiale. Lo si può desumere già con certezza dalle fitte e vigorose cinquanta pagine dell'introduzione generale nelle quali Donato Valli ha tracciato, con la sicurezza derivantegli da tanti anni di specifico lavoro, il più suadente affresco della vita culturale salentina sullo sfondo della vita culturale della nazione. Non mancano naturalmente le singole introduzioni agli autori con il dovuto corredo bibliografico; i testi criticamente accertati e annotati secondo i criteri generali della "Biblioteca"; e in fondo al volume i disponibili indici linguistico e onomastico. Ma anche in questo caso cediamo volentieri la parola al curatore:
"... Il presente volume ... offre tre testimonianze, diverse per caratteristiche e risultati, ma egualmente convergenti a delineare il panorama storico-culturale degli ultimi trent'anni del sec. XIX nel Salento. Dalla robusta e insieme raffinata coscienza letteraria di Vincenzo Ampolo, nutrita di risonanze e di contenuti omologhi ai più validi esemplari della contemporanea poesia nazionale; all'estrosa, anche se non sempre coerente, ideologia poetica di Trifone Nutricati Briganti, attento alle modifiche del costume letterario e docile ai richiami di uno sperimentalismo non privo di suggestioni e di inconsuete anticipazioni; alle meditazioni finora inedite del giovane Francesco Rubichi, dotate di acuto spirito critico e di penetrante capacità problematica in perfetta simbiosi con l'ambiente napoletano della sua formazione; il libro consente la ricostruzione di tutta una fiorente stagione letteraria, nella quale motivazioni storiche e regionali di fondo si incrociano, e si integrano con pari dignità, con le sollecitazioni e i documenti della più ampia e aggiornata cultura italiana ed europea. Si aggiunge così un altro tassello alla composizione del movimentato mosaico della civiltà meridionale ed è possibile, attraverso queste testimonianze, acquisire un'ulteriore prova di quella inscindibile complementarietà culturale che, nel mentre induce la provincia ad esaltarsi nel confronto con la nazione, consente a questa di arricchirsi ininterrottamente delle fresche energie da quella promananti".
Il quarto volume comprende i Narratori salentini dell'Ottocento e, curato da uno specialista come Antonio Mangione, è in corso di stampa e uscirà quest'anno 1981. Altri volumi sono in stato di avanzata preparazione.
Così quest'iniziativa, voluta tenacemente e da lontano, ma nata tra perplessità e difficoltà locali, va raccogliendo - sia detto con la dovuta modestia, e tuttavia con giusto compiacimento - i più ampi e talora entusiastici consensi in Italia e all'estero, vuoi sotto il profilo del programma generale e comunque dell'intrapresa in se stessa, vuoi per ciascuno dei singoli volumi. Lo comprova la nascita, giuridicamente perfezionata in questi giorni, di una "Fondazione per gli studi per il Salento", che una fortunata, ma anche consapevolmente perseguita, confluenza di circostanze ha voluto sia patrocinata dalla Banca Piccolo Credito Salentino, con assoluta priorità a favore della "Biblioteca"; e lo comprovano recensioni, segnalazioni, lettere private di studiosi altamente autorevoli in Italia e fuori. Così pare ormai definitivamente fugato l'inutile timore che la "Biblioteca" potesse segnare il cristallizzarsi e il fossilizzarsi e l'intisichirsi di certe zone dell'attività universitaria leccese entro le soffocanti e talora ridicole angustie del provincialesco, a vantaggio della certezza, sempre più diffusa e sempre più palese, dell'inserimento vivo ed efficace della cultura nostra regionale nell'organico e pulsante giro della cultura nazionale e internazionale. Quest'inserimento non può sfuggire, e non sfugge, agli occhi degli studiosi più vigili e attenti e aggiornati; e piace ancora constatare come, in questi ultimi anni, l'interesse scientifico e diciamo pure accademico per le cose del Salento si sia andato ravvivando e allargando e innalzando (con la conseguente fatale emarginazione di ogni superficiale faciloneria, di ogni illusorio dilettantismo) a diretto o indiretto beneficio di tutti.


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