La guerra del vino




Lucio Tartaro, Dario Giustizieri



La guerra del vino esplosa ancora una volta tra la Francia e l'Italia ricorda abbastanza da vicino le controversie doganali della fine dell'Ottocento, quando i traffici tra i due Paesi ebbero improvvise interruzioni. Il danno, anche allora, fu reciproco, con una maggiore accentuazione per l'Italia, che aveva sviluppato nelle regioni meridionali una spinta specializzazione viticola, anche in funzione del mercato francese.
D'altra parte, nell'Europa della fine Ottocento era in vigore una "quasi libera" circolazione delle merci, essendo minimi i dazi doganali e gli altri vincoli del commercio internazionale. Le crisi economiche che in quel tempo si manifestarono, con le conseguenti agitazioni delle categorie professionali più toccate (tanto per cambiare, i piccoli proprietari), misero in luce in modo drammatico la debolezza del libero scambio fondato sulla benevolenza e sulla buona volontà dei Paesi europei.
Esperienze ancora più drammatiche furono fatte in seguito, dopo la prima guerra mondiale, quando allo sforzo di specializzazione e di scambio delle varie economie si sostituì uno sforzo disastroso di autarchia economica. Allora, nel nostro Paese, le viti furono in buona parte spiantate per fare luogo al frumento, anche se su quelle terre le produzioni unitarie del cereale erano minime. In questo modo, l'agricoltura italiana, insieme con quella europea, subì un fenomeno di relativa stasi, nonostante lo sviluppo non irrilevante della tecnologia.
L'esperienza della debolezza intrinseca del libero scambio internazionale ispirò negli Anni Cinquanta la firma del Trattato di Roma e la creazione del Mercato Comune Europeo. Per la prima volta nella storia tormentata dell'Europa Occidentale, il libero scambio era fondato su un accordo politico "di ferro" e su istituzioni comuni supernazionali. Il Mercato Comune doveva dunque eliminare, e definitivamente, qualsiasi tipo di guerra doganale. Del resto, ci si rese conto fin dai primi anni che, se i prezzi agricoli non venivano garantiti, almeno a livelli minimi, l'accordo politico "di ferro" avrebbe subito una volta o l'altra seri sconvolgimenti, soprattutto nei periodi di basso mercato, inevitabili in condizioni di libera concorrenza e di produzione dispersa tra milioni di piccole imprese. Anzi, la stessa eliminazione delle barriere doganali sarebbe stata causa di serie difficoltà tra i vari Paesi, in modo particolare per quelli aventi agricoltura con scarse risorse, come l'Italia e la Repubblica Federale Tedesca.
Per questo motivo, si stabilì un Mercato Comune regolamentato in modo che anche le crisi gravi, vale a dire le cadute verticali dei prezzi agricoli, non potessero verificarsi. In linea di principio, il mercato comune agricolo doveva essere "politicamente" forte, fondato su salde istituzioni supernazionali e su interventi continui nel mercato, tali da impedire scompensi sensibili. La guerra del vino che ha riempito anche nel corso del 1981 le cronache dei giornali europei, dunque, non avrebbe dovuto esser possibile. In realtà, i regolamenti che dal 1962 in poi furono messi a punto, tradussero in interventi tra loro diversi il principio della stabilità sopraddetta. I cereali, il latte e derivati, lo zucchero e la carne bovina furono protetti da regolamenti molto energici, che immediatamente comportarono forti spese (si formarono montagne di burro e di polvere di latte, invendute ai prezzi garantiti a livelli troppo elevati). Questa esperienza convinse le autorità comunitarie a stabilire regolamenti "più leggeri" per i successivi prodotti: fra questi ultimi, proprio il vino.
Di fatto, nessuno ha mai cancellato il sospetto che i regolamenti comunitari abbiano privilegiato i prodotti delle cosiddette "produzioni continentali", tipici delle economie forti e delle bilance dei pagamenti in attivo, a danno delle colture "mediterranee" (vino, olio, ortaggi, frutta, e via dicendo) che interessano le aree meridionali del vecchio continente.
In buona parte, dunque, si comprende perché, nonostante il Mercato Comune, le crisi nel settore vitivinicolo possono essere ancora profonde. D'altra parte, è proprio nel settore viticolo che il nostro Paese possiede la più elevata capacità di competizione in Europa (fino a quando non dovremo fare i conti con gli altri Paesi mediterranei, la Spagna in particolare, poi la Grecia e il Portogallo). Infatti, quella del vino è una delle voci più rilevanti dell'esportazione agricola italiana. Occorre aggiungere, peraltro, che questa esportazione è fatta di due parti. Una prima parte è costituita dai vini da taglio, prevalentemente di origine meridionale, molto alcolici e molto colorati.
Questi vini trovano il loro maggiore mercato proprio in Francia, e servono a "confezionare" i vini francesi, che venendo da uve prodotte in climi più freschi, instabili, in definitiva meno "vocazionali", sono appunto povere di alcool e di colore. Prima dei vini italiani, il mercato francese era inondato da quelli algerini, poi venuti meno in seguito alla cacciata dei coloni francesi dall'Africa del Nord. Non va dimenticato, tuttavia, che i vini francesi "finiti" sono famosi in tutto il mondo e vengono abbondantemente esportati. Vedremo fra poco perché.
La seconda parte delle esportazioni italiane è costituita da vini di media e di elevata qualità. Questo tipo di esportazione è andato crescendo con il passare del tempo e manifesta comunque una considerevole stabilità. A dire la verità, l'Italia avrebbe interesse ad esportare tutto il vino di qualità, e non quello da taglio, non fosse altro che per garantirsi da accanite concorrenze. Ma la dimensione del mercato mondiale è oggettivamente modesta e la concorrenza tra i vini di qualità è addirittura spietata. Per questi motivi la suddivisione della produzione tra "taglio" e "qualità" risponde bene alle esigenze del mercato e alle possibilità dell'industria vitivinicola del nostro Paese.
Se non che, da qualche tempo, il mercato interno ed estero non assorbe più come nel passato. La debole o minima crescita dei redditi nei Paesi europei, l'allontanamento dei giovani dal vino per via delle mutate abitudini alimentari, la guerriglia portata avanti dai produttori di birra e quella condotta dalle bevande americane, infine lo stesso rincaro dei materiali necessari per commercializzare il vino (il vetro delle bottiglie, i tappi di sughero, i costi di conservazione per lunghi periodi, e così via), hanno portato ad una generale crisi di mercato, con prezzi minimi e con alte giacenze.
Tutti ne soffrono, ma di più i piccoli viticoltori della Francia meridionale, che producono uve di mediocre qualità, in piccole aziende tutte a vigneto. La loro disperazione è dunque giustificata, ma le azioni violente che essa ispira sono riprovevoli e dannose alla stessa produzione francese. Infatti, che cosa succederà se il vino da taglio italiano non troverà più mercato in Francia? Gli italiani accresceranno la concorrenza ai vini francesi sul piano della qualità e la crisi cacciata dalla porta entrerà, assai più violenta, dalla finestra. Per i vignerons transalpini c'è sempre la possibilità di un maggior ricorso alla distillazione. Le leggi del mercato sono ferree: deve prevalere il prodotto d'alta qualità e di prezzi concorrenziali. Ogni altra fama è semplicemente usurpata.
Dal punto di vista dell'interesse economico italiano, questa che è stata definita una "guerra tra poveri" (in realtà, i contadini francesi viaggiano in Mercedes e mandano i figli nelle migliori Università) colpisce un'intera rete organizzativa e un gruppo di regioni del Sud. Per la rete organizzativa, le cantine sociali, che nel nostro Paese sono 712 (540 delle quali fanno capo alla Confcooperative) e lavorano e gestiscono il 40-45 per cento della produzione vinicola italiana (circa trentacinque milioni di ettolitri, su una media annua di ottanta milioni di ettolitri); per le regioni meridionali, Sicilia, Puglia, Sardegna e in parte anche la Calabria, la cui economia rischia di saltare per lo spericolato protezionismo francese. Non è colpa dei contadini meridionali se le loro terre producono uve migliori, vini più alcolici e a più buon mercato, di quello dei viticoltori del Midi, il "Mezzogiorno" francese. Né possiamo farci nulla, se nel corso degli Anni Sessanta si decise di impiantare lungo l'intero arco meridionale francese vigneti colturalmente e climaticamente sbagliati. Il Midi, osservano gli specialisti, è un'area molto esposta a perturbazioni, l'uva non arriva alla giusta maturazione, il vino prodotto è di 5,5-6 gradi appena: semmai, con questo vino, si può fare concorrenza a Cipro, non all'Italia. Che cosa accadrà, allora, quando nel Mercato Comune entrerà anche la Spagna, che è in grado di produrre a condizioni più vantaggiose delle nostre? Si opporranno anche alle esportazioni iberiche? In realtà, è proprio quello che stanno già facendo. Ma, continuando di questo passo, si decreterebbe la fine dell'Europa Verde e della CEE. Certamente, ha dichiarato il presidente della Confcooperative italiane, se i viticoltori d'oltralpe dicono di riuscire a produrre a un prezzo più alto di tre franchi al litro rispetto agli italiani, c'è da credergli. Va tuttavia ricordato che troppi politici, prima delle ultime elezioni francesi, sono calati nel Midi a promettere che ad un tratto le importazioni dall'Italia sarebbero cessate, come d'incanto, senza tener conto del fatto che i vini francesi, senza il "taglio" di quelli italiani, subiscono dal punto di vista qualitativo una caduta verticale.
Cifre alla mano, Italia e Francia producono troppo vino. Le ultime due annate sono state semplicemente eccezionali. Nel 1979, il nostro Paese ha prodotto ottantaquattro milioni di ettolitri, che rappresentano un record assoluto; e nel 1980 ha sfiorato questa stessa cifra. Il novanta per cento del nostro vino è da tavola, il dieci per cento è di media e di alta qualità, e viene esportato in bottiglie: per quest'ultimo, occorre mettere in rilievo, non si è mai verificato uno stato di crisi.
La Francia, invece, ha prodotto nel 1979 addirittura ottantaquattro milioni e mezzo di ettolitri, ma nel 1980 è precipitata ad appena sessantotto milioni di ettolitri, a causa dei nubifragi che si sono abbattuti appunto nel Midi, nella fascia meridionale, dal confine italiano a quello spagnolo. E qui c'è la differenza a nostro vantaggio. Entrambi i Paesi, tuttavia, hanno fortissimi stock di prodotto invenduto. Solo per il 1979, quarantacinque milioni di ettolitri nella Francia e trentaquattro milioni di ettolitri nel nostro Paese. Fra l'altro, le nostre esportazioni "qualitative" sono gravate da tasse (per essere più precisi, da "accise") che sono differenti da Paese a Paese. Basterebbe, se non abolirle, per lo meno unificarle a livello medio-basso (e questo è compito della Comunità Economica Europea): troveremmo subito nuovi sbocchi di mercato. Tanto per fare un esempio significativo: nella Repubblica Federale Tedesca una nostra bottiglia che arriva a mille lire viene oggi rivenduta a 1.300: qui il fisco è clemente, e del resto vendiamo bene. Ma in Belgio la stessa bottiglia sale a 1.600-1.700 lire; in Danimarca a 1.800; in Gran Bretagna addirittura a 2.200 lire: senza questa batosta, gli inglesi potrebbero raddoppiare il consumo di vino italiano, allo stato attuale fermo intorno ai 300-400 mila ettolitri. Fra gli altri mercati da sviluppare o da raggiungere, ci interessa in particolare quello degli Stati Uniti, dove da sette-otto anni vendiamo già parecchio. C'è, fra l'altro, una cooperativa romagnola che vi spedisce quaranta milioni di cartoni all'anno di "Lambrusco", e proprio a metà 1981 ha celebrato il milionesimo ettolitro esportato. Il Lambrusco non è un vino proprio superbo, ma agli americani piace il frizzante, lo considerano "coca-cola-wine": è diffuso nel ceto medio, ma lo consumano a mensa anche gli operai. Sfondare è stato abbastanza difficile. Lo si è fatto con intelligenza imprenditoriale, studiando attentamente il prodotto di cui gli americani avevano bisogno e prestando la massima attenzione alla qualità. Negli Stati Uniti quasi certamente incrementeremo le nostre esportazioni. In altri Paesi, dal Venezuela (dove risiedono moltissimi italiani, oriundi e figli di oriundi) e in Giappone, ad esempio, i mercati sono tutti da scoprire. Quel che ci manca è una vera e propria azione di promotion. La Francia ha messo su un'organizzazione potentissima per pubblicizzare i suoi prodotti agricoli, la Sopexa; enorme e capillare anche l'organizzazione tedesca, che non bada a spese pur di essere presente anche nei "caroselli" televisivi europei. Noi abbiamo gli uffici dell'ICE, l'Istituto del Commercio Estero, che sono insufficienti e, sotto alcuni aspetti, inadeguati. Poi, occorre molto denaro (parliamo di denaro da investimento: cioè da amministrare, non da sperperare semplicemente, disperdendolo in mille rivoli). Il vero problema italiano è come piazzare quel novanta per cento che rappresenta la produzione di vino da tavola, in condizioni di mercato difficili. Una proposta si è fatta: le eccedenze potranno essere ridotte, se le utilizzeremo per produrre lo "zucchero di vino" che può servire, invece del mosto concentrato o del vino da taglio, a rendere più alcolici i vini stranieri. Lo zucchero di vino, realizzato sperimentalmente nel 1976, rispetto allo zucchero di canna o di barbabietola al quale fanno ricorso ad esempio i tedeschi, ha non solo un potere dolcificante, ma anche qualità chimiche e proteiche che danno al vino una qualità superiore. La CEE lo ha riconosciuto. Unico problema: il processo di produzione è più costoso. E allora, perché la Comunità europea, invece di darci soldi per distruggere il surplus di vino, non incentiva con il corrispettivo lo "zucchero di vino"? Ci sono sufficienti tre impianti in tutta la Penisola uno c'è già, quello di Starsatte, a Marsala. Un altro è in fase di costruzione, a Faenza. Il terzo dovrà essere localizzato.
Persistendo la "guerra tra poveri", che poi sembra essere una guerra tra viticoltori a medio reddito (quelli italiani, con i meridionali a medio-basso reddito) e vignerons ad alto reddito, l'affinamento della qualità non può che essere un impegno tassativo per la nostra produzione. A questo proposito, emblematica è la situazione del nostro spumante a fermentazione naturale, che non è secondo a nessuno, e tanto meno a quello transalpino. E' bene sottolineare, in proposito, che lo champagne francese altro non è che spumante a fermentazione naturale, la cui produzione può avvenire (e in molti casi avviene) anche con uve italiane, non necessariamente tra le migliori, commerciate in Francia.
E' vero invece che i risultati dell'organizzazione commerciale e promozionale transalpina sono estremamente efficienti e redditizi. Infatti, mentre lo spumante italiano si attesta sull'uno per cento dell'intera produzione viticola (con timide esportazioni), quello francese si aggira sul cinque per cento (la Repubblica Federale Tedesca giunge addirittura intorno al venti per cento, anche se la produzione globale tedesca non è significativa).
Per venir fuori da questa nostra lamentata inferiorità, è necessario fra l'altro invertire il rapporto di incidenza fra i due metodi correnti di produzione, a tutto vantaggio del classico "champenois", rispetto allo "charmat", attualmente di gran lunga il più diffuso: il secondo trova una sua giustificazione economica nel risparmio di mano d'opera, e una giustificazione organolettica, ed è perciò preferito per gli spumanti aromatici del tipo "Asti" (una delle glorie della nostra enologia) e fra quelli di sapore fruttato.
Il metodo "champenois" è invece riservato all'elaborazione degli spumanti di gran classe, grazie alla meticolosità certosina delle singole operazioni, che hanno subito numerosi perfezionamenti: dal dosaggio scrupoloso del tenore zuccherino, alla colmatura, alla fase di maturazione (quest'ultima sempre in bottiglie orizzontali, dura due anni, sviluppando in questo modo la parte più nobile del profumo).
Quello che non si capisce (se non a livello di iperconsumo, o di vero e proprio plaisir de paraître, come i francesi correttamente definiscono il più intelligente esibizionismo), essendo lo champagne francese non superiore al nostro spumante, è il flusso delle importazioni, salite a oltre quarantasei miliardi di lire, con un incrementi del 25,3 per cento.
Altro problema che riguarda i produttori italiani è quello dell'"immagine" che noi (non da oggi) offriamo all'estero: ci riferiamo in particolare al "sospetto", più o meno subdolamente accreditato dagli interessati e dagli addetti ai lavori stranieri, e più o meno verificabile grazie al comportamento di spregiudicati "produttori" italiani, secondo cui il nostro vino è ampiamente sofisticato. Basta scorrere i giornali dell'agosto '81 (e non soltanto quelli francesi), per leggervi che il nostro vino è fatto, quando va bene, di acqua, zucchero e "qualcos'altro". Noi perdiamo regolarmente tutte le guerre del vino, ha affermato un esperto, perché abbiamo di che perdere la faccia: e in questo senso, i francesi hanno in parte ragione. Il ragionamento è questo: come fa una regione come la Sicilia a passare in pochissimi anni da cinque a dieci milioni di ettolitri di vino? Nella migliore delle ipotesi, c'è stato un errore di programmazione. Nell'ipotesi più realistica qualcuno, o meglio, più di uno gioca a fare il furbo.
E' stata avanzata anche in questo campo una proposta: quella della carta d'identità del vino. Ogni camion, ogni nave che porti il vino all'estero, Francia o altro Paese che sia, deve avere chiara l'indicazione che sia un prodotto ricavato dall'uva, oltre al luogo esatto di provenienza. Allo stato delle cose, noi possiamo inviare all'estero vino buonissimo, ma non c'è un solo documento ufficiale che lo provi: di conseguenza, i viticoltori francesi hanno buon gioco nell'affermare che è roba sofisticata, anche se nella maggior parte dei casi ciò non corrisponde al vero. Ma la loro voce è comunque pericolosa come un'onda, che rischia di travolgere la fragile immagine dei nostri vini di pregio, nella difficile conquista dei mercati.
Sul piano strettamente politico, se si dovesse andare "à la guerre comme à la guerre", i maggiori inconvenienti potrebbero essere incontrati proprio dai francesi, e dagli agricoltori francesi delle regioni del nord del Paese in modo particolare. Costoro sono già preoccupati per altre due "piccole guerre", dichiarate rispettivamente dagli spagnoli (che nel corso dell'estate scorsa hanno impedito in più occasioni il passaggio dei camion con frutta e con latte diretti in Portogallo per controbattere analoghe azioni francesi contro i trasporti di frutta spagnola in Francia) e dagli inglesi (i quali, a causa delle importazioni di tacchini prodotti con sovvenzioni statali francesi, hanno visto sparire in Gran Bretagna duemila posti di lavoro nel settore dell'allevamento avicolo e vedono profilarsi il pericolo della chiusura di numerose piccole e medie aziende di questo settore, con la conseguente perdita di altri ventimila posti di lavoro).
I nostri conti con la Francia sono esattamente questi: noi importiamo prodotti e merci per duemilacinquecento miliardi di lire all'anno, mentre ne esportiamo per soli 730 miliardi di lire: non c'è paragone tra le due cifre. Che il Presidente francese debba destreggiarsi tra le promesse fatte ai viticoltori e in genere agli agricoltori del Midi, è un discorso; che non possa mantenere quelle promesse senza violare apertamente i Trattati di Roma (cosa che ha già fatto irresponsabilmente), è un altro discorso. Ma che noi non si debba reagire in ugual senso, in stato di necessità, per difendere la più debole delle economie italiane, e oltre tutto il tipo di economia più diffusa nelle regioni a più basso reddito, quali sono quelle meridionali, è un dato di fatto che non potrà non essere preso in considerazione a breve termine. E' appena il caso di ricordare, fra l'altro, che i francesi, o meglio, gli agricoltori più garantiti d'Europa, quelli delle "colture continentali", riversano nel nostro Paese ogni anno un oceano di latte: qualche cosa come il venti per cento del nostro intero fabbisogno. Una quantità enorme, che influisce sensibilmente sulla nostra bilancia dei pagamenti nel settore alimentare. Di fronte ad alcune scaramucce doganali italiane, sono improvvisamente cresciute le preoccupazioni dei produttori della Francia del Nord. Se ai nostri valichi di frontiera vengono bloccati latte, formaggi, vini e carne prodotti in territorio francese, per i transalpini è crisi aperta. Il presidente Mitterand, dunque, può aver fatto tutte le promesse che si vuole, anche le più ambigue o spericolate: le leggi del mercato gli danno torto, e soprattutto gli può dar torto la rabbia dei nostri viticoltori, che hanno minacciato ritorsioni contro i trasporti di prodotti francesi nel nostro Paese. Il protezionismo, alla resa dei conti, soprattutto quando è accompagnato da una buona dose di demagogia, finisce col danneggiare tutti, e prima d'ogni altro chi lo applica per primo. E ad allontanare questo pericolo non basta relegare nelle pagine interne dei giornali, dopo aver dato ampio risalto alle "rivolte" dei vignerons, le notizie sulla guerra del vino. Il problema non è solo quello del governo francese, che ha perso la faccia di fronte alle istituzioni comunitarie. E' che l'ha persa nel modo peggiore. Senza stile. Nell'Europa dei Dieci, Parigi brucia?

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000