§ RICERCHE IN PUGLIA NEGLI ULTIMI DECENNI

TRADIZIONI POPOLARI RELIGIOSE IN PUGLIA




Alfonso M. Di Nola



Un discorso su quanto si è scritto e ricercato in Puglia negli ultimi decenni sui grandi temi della religione popolare è particolarmente tentante, perchè si cala (e, quindi, convoca nell'analisi) in taluni intensi spessori della vita meridionale che proprio in Puglia è possibile individuare, anche attualmente, in forma autentica o inquinata soltanto parzialmente. E' tuttavia un discorso rischioso perchè, non essendo intenzionalmente esaustivo, viene a fondarsi su campionature che sono state scelte secondo criteri personali (e potrebbero essere criteri errati) dell'autore e, quindi, può aver peccato di omissione nei riguardi di contributi non facilmente accessibili. D'altra parte, l'intenzione era di segnalare e descrivere alcune tematiche per contenuti e per significati, avvalendosi di opere recenti e meno recenti, e non si intendeva fornire un elenco bibliografico preciso e completo, che dovrebbe, invece, essere affidato alla minuta registrazione degli archivi e delle biblioteche locali.
In secondo luogo si affrontano qui alcuni motivi storico-tradizionali che, nella corrente terminologia, appartengono alle forme popolari ed arcaiche della vita religiosa. Va chiarito che è attualmente in radicale crisi lo stesso termine "religione popolare", consueto nelle antiche classificazioni, e che, però, esso non è stato sostituito da un indice lessicale più evidente. E, d'altra parte, quando isoliamo, nello studio della cultura pugliese attraverso i testi, un rituale, un mito, una credenza magica, un pellegrinaggio ecc., realizziamo un'astrazione di elementi, quelli definiti come religiosi-popolari, da un più ampio contesto che, invece, dovrebbe essere, ogni volta, convocato nell'analisi. Le varie forme locali e subregionali nelle quali si sviluppa storicamente la cultura pugliese, appartengono, infatti, a quella che le scuole antropologiche francesi hanno definito come "cultura globale" o "integrale", una sorta di statuto culturale polivalente nel quale solo per comodità descrittiva è legittima isolare singoli fatti, assegnandoli alle varie categorie folkloriche (linguadialetto, tradizione orale, usi di mestiere, ergologia agricola, marinara, pastorale, ecc...). Questa interrelazione delle varie attività umane dall'interno di una funzionalità culturale "globale" resta, perciò, il continuo referente non espresso di queste note.

1. Il calendario sacrale dei contadini
Due raccolte di proverbi (Alfredo Giovine, Proverbi pugliesi, Milano, Martello, ed. 1970; Marco Trotta, Società e cultura contadina nei proverbi di Monte Sant'Angelo, con intr. di G. B. Bronzini, Centro Studi Garganici, Foggia, 1982) consentono di riproporre l'argomento particolare dei ritmi sacrali del lavoro contadino attraverso i proverbi. L'argomento era stato già trattato, a livello di minuta e attenta elencazione dei dati, da Saverio la Sorsa (1).
I detti proverbiali in questione appaiono, in redazione diversa, anche in altri ambiti culturali italiani, e tuttavia, per quanto riguarda taluni referenti, assumono in Puglia un tono locale proprio, dipendente da specificità ergologiche e da credenze particolari. In essi si rivela una stratificazione arcaica della mentalità rurale, la quale rifiuta le anonime datazioni del calendario ufficiale e si costituisce un proprio calendario mitologico, corposamente fondato su santi e celebrazioni del calendario liturgico. Si determina, così, un rapporto diretto fra l'universo della religiosità, i ritmi lavorativi e il ciclo stagionale, in quell'unità funzionale o globale che abbiamo segnalata.
E' difficile stabilire se le figure di santità evocate nei detti proverbiali siano da intendersi come forze protettrici e determinanti degli eventi agricoli cui sono connesse, o se, invece, l'interrelazione "nome di santo/ data/ evento agricolo" sia spoglia da ogni idea sottesa di azione potente ed esprima soltanto l'esigenza di collegare ad una datazione, non amorfa ed anonima, momenti fondamentali del ciclo lavorativo. I detti che esaminiamo si qualificano variamente. Sono previsioni meteorologiche relative a pioggia, vento, periodi solstiziali ed equinoziali, ecc.; e anche sono collegamenti precisi, di specifici eventi coltivatori ad un nome di santo, che agisce come indice memoriale.
Nel mese di Gennaio sono obliterate la memorie connesse alla festa della Circoncisione (1 Gennaio), che ebbe nel Medioevo, come fase di permissività e di rottura della norma, influenze anche sul costume agricolo. Né ha diretta relazione con il terreno coltivato la festa dell'Epifania, ricordata in molti proverbi. Un santo importante, anche perché protettore dei contadini e dei loro beni animali, in particolare del porco, resta sant'Antonio Abate, cadente al 17. Da quel giorno le galline cominciano a fetare: "Sant'Antune, ogne peddastre accumènze l'uve" (S.A., ogni pollastra comincia a fare le uova; Trotta, n. 1245); ma l'estate è ancora lontana: "Sant'Antune pla varva bbianche/ se ne nchiòve la néve ne mmanche" (Trotta, n. 1244). Diviene centro di attenzione (e non è frequente in altre aree folkloriche) San Sebastiano, martire presuntivamente sotto Diocleziano e assunto al protettorato contro la peste durante le grandi epidemie post-medioevali. I lavori di dissodatura e aratura sono iniziati, così che "Disce Sande Vastiàne: fatiche cucce ca mange pane" (Dice S.S.: fatica duro, chè mangi pane; Giovine, Bari n. 18). Siamo al 20 Gennaio; ma il santo, anche se annunzia la primavera ("Sande Vastiane che la viòle m-mane"; S.S. con la viola in mano; Giovine, Bari n. 25), non assicura il deciso e definitivo passaggio dall'inverno all'estate. Un proverbio di Bari (Giovine n. 15) annunzia previsioni che devono essere interpretate al contrario o nelle quali non si deve avere fiducia: "Pe Ssande Vastàne / sale u monde e uarde u piàne./ Ce vite picche / spire assà. / Ce vite assà / spire picche" (Per S.S., sali sul monte e guarda il piano. Se vedi niente, spera molto. Se vedi molto, spera niente). In Febbraio, il giorno 2, dedicato alla Presentazione della Vergine o Candelora, diviene momento divinatorio stagionale e meteorologico in quasi tutte le culture europee. Perciò in Puglia appare, in varie recensioni, il proverbio paneuropeo: "Candelora, estate dentro, inverno fuori". Ma le varianti sono importanti, perché il tempo di passaggio dall'inverno all'estate è riferito, rifacendosi alla autorità di una non identificato "vecchia", alla festa dell'Annunciazione (25 Marzo). Il modello più esteso di questo proverbio è quello bitontio: "A la Canelòure / da u vìirne sime foùre, / disce la vécchie de Patiìrne (Patierno): / stònne n'alt'é quaranda dì de vìirne; / disce la vécchie de jind'a u sacche: / na mbass'u vìirne ce na nvèine Sammarche; / disce la vécchie de Quarate (Corato): u vìirne passe a la Nenziate" (Alla Candelora, dall'inverno siamo fuori. Dice la vecchia di Patierno: ci sono altri quaranta giorni d'inverno. Dice la vecchia da dentro il sacco: non passa l'inverno se non viene S. Marco. Dice la vecchia di Corato: l'inverno passa all'Annunziata; Tradizioni popolari bitontine, raccolte dagli alunni delle scuole elementari e medie, Bitonto, 1975, p. 156). In un proverbio riportato dal Trotta, (n. 1263) si rivela ancora più insistentemente la perplessità contadina nei confronti dell'indice calendariale della Candelora, perché il passaggio dall'inverno all'estate, dopo essere stato riferito al 25 Marzo (Annunziata), viene garantito soltanto per giugno, quando i mietitori scendono nel Tavoliere: "Arrespònne lu Curpe de Criste: pe jèsse cchiù ssecure quanne aièssene li meteture". In un altro proverbio il mutamento di stagione lo si trova nel crescere delle foglie del fico, che annunziano il passaggio quando sono divenute grandi come una zampa di bue: "Tanne véne la vernéta fòre quanne la frònne la fiche ce fé quante na stampe de vòve" (Trotta, n. 1264). Per la stessa data è assicurato il fetare delle galline, altrove assegnato al 17 Gennaio: "A la Cannelòre / oggne e gaddìne arrive all'ove" (Giovine, Bari, n. 46). A S. Biagio (3 Febbraio) e a S. Valentino (14 Febbraio), le incertezze della Candelora sembrano superate e i detti proverbiali annunziano il tempo primaverile: "San Biése, p'ogni pertuse u sole trése" (S. C., per ogni pertugio il sole entra; Trotta, n. 1265); "A Ssande Valendìne la staggiòne (primavera) iè vecìne" (Giovine, Bari, n. 28).
Nel mese di Marzo, il giorno di S. Benedetto (21) è ricordato non soltanto per il solito motivo pan-italiano del ritorno della rondine sul tetto, che è dato in un proverbio barese (Giovine, Bari, n. 29). Stranamente il santo è connesso alla crescita del basilico: "A Ssammeninitte, lu vasilicòje sope lu titte" (A S. B. il basilico sopra il tetto; Trotta, n. 1290). Centrale in Marzo è il 25, festività del l'Annunciazione e inizio della gravidanza della Vergine Maria. I solchi sono ormai pronti alla germogliatura: "La Nenzziàte, o grùvete o fegghiàte" (Alla Annunziato i solchi sono gravidi o hanno germogliato; Giovine, Bari, n. 380). Come in altre aree contadine, in Puglia appare la credenza che in questo giorno è pericoloso mangiare le verdure che sono invase dai vermi: "A la Nenzziàte oggn'e vvèrme iàlze la cape" (Alla Annunziato ogni verme alza la testa; Giovine, Bari, n. 376). Ormai dovrebbe far caldo, in prima primavera, e questo caldo è annunziato dal canto del cuculo. In mancanza, il cuculo é morto o éammalato: "La Nnunziéte e Ilu cucule nn'à ccantète, o é murte o sté maléte" (Trotta, n. 1293).
Il periodo pasquale, ricorrente come serie di festività mobili, da origine ad alcune interessanti previsioni contadine. Se piove nella domenica delle Palme, il raccolto sarà abbondante: "Palma nfòsse, grégna jrosse" (Palme bagnate, raccolto grande; Trotta, n. 1301, con parallelo in Giovine, n. 1010). Mentre la Pasqua cadente in Marzo dà tristi presagi di guerra o carestia: Pasqua marzzadeche, o uèrre o famàdeche" (Pasqua marzolina, guerre o carestia; Giovine, Bari, n. 48, ripetuto in Trotta, nn. 1297, 1298).
Il giorno di Sant'Anastasio (27 Aprile) invita a controllare la condizione dei campi: "Sande Stase, va vvite fore ce ié remmase" (A S.A. va fuori, nei campi, a vedere quanto rimane; Giovine, Bari, n. 366). Nello stesso giorno le fave hanno già il nasello: "Sande Stase oggne e ffave à ffatte u nase" (Giovine, Bari, n. 368).
Per Maggio viene ricordato un proverbio salentino che annunzia per il giorno della Santo Croce, il 3, il rischio di bacatura delle noci, in caso di pioggia: "Ci chioe pi Ssanta Croce, si carotta ogni noce" (Giovine, 1100). San Cataldo, patrono di Taranto, venerato il 10 maggio, assicura il definitivo passaggio al caldo: A Ssan Gatàlde / lève u ffridde e mmètte u ccalde" (Giovine, Bari, n. 47). Allo stesso santo è riferito il pronostico di quaranta giorni di pioggia che, in altre regioni, è riportato al 4 Aprile: "Scin Catalde quaranta jurne chiòve e quaranta jurne fé càlede" (Trotta, n. 1316). Di formazione recente (intorno al XVIII sec.) deve essere un proverbio riferito a San Filippo Neri, venerato il 26 maggio: essa esalta la pioggia di maggio o l'acqua di maggio, che comunemente è considerata utile ai campi in tutte le nostre regioni e che libererebbe i poveri dalla necessitò di ricorrere ai ricchi per essere assistiti con prestiti in denaro se il raccolto, invece, è scarso ("Quanne chiove a Ssan Felippe, u povere ne ncure u ricche"; Trotta, 1318, con parallelo per Bari in Giovine, n. 411).
Giugno ci dà un solo proverbio contadino, ricordando che il 24, nel giorno di S. Giovanni, i fichi sono ormai maturi e danno i cosiddetti "fioroni": "San Ggiuànne, / pigghie chelùmme e ammine n'ganne" (S.G., prendi fioroni e gettali in gola; Giovine, Bari, n. 403).
Anche per luglio un solo detto, nel quale viene ripetuto, riferendolo a Sant'Anna (26 luglio), il consueto pronostico di pioggia: "Ce chiove la dì de Sand'Anne, av'a chiòve du uànne" (Se piove il giorno di S.A., dovrà piovere un mese dell'anno).
San Michele Arcangelo, al 29 Settembre, chiude il ciclo stagionale agricolo: esso corrispondeva alla chiusura della Dogana delle Pecore, che comportava il ritorno dei pastori transumanti alle loro terre di origine (come la festa di San Michele all'8 Maggio apriva il ciclo agricolo e l'afflusso dei pastori transumanti alla Dogana): é, quindi, giorno gravido di significati che residuano, però, in pochi detti proverbiali. L'uva é ormai matura ("De Sande Mechèle / l'uve ié ccome o mmèle"; A S.M. l'uva è come il miele; Giovine, Bari, n. 37). L'Arcangelo sembra essere collegato principalmente ad una pronosticazione meteorologica sul vento e sulla pioggia che interrompono la calura estiva e che dureranno fino a Natale: "U vèspre de Sammechèle, / u uuìnte che rèste é fine a Natèle" (Al vespro di S. M., il vento che spira dura fino a Natale; Trotta, n. 1353); "Quanne u aàngiue Mechèle se mbonne l'ale / chiove fingh'a Natàle" (Quando l'angelo M. si bagna le ali, piove fino a Natale; Giovine, Bari, n. 39, con parallelo in Trotta, n. 1354).
Più ricchi sono i residui paremiologici riferiti al 4 Ottobre, giorno dedicato a S. Francesco di Assisi. In un proverbio di carattere generico, quel giorno apre il periodo dei freddi (A Ssam Brangèsche / lève u ccalde e mmètte u friske"; A S.F. termina il caldo e inizia il fresco; Giovine, Bari, n. 41). Ma il santo sembra specificamente segnare la semina delle fave ("San Frangische, chiante ffève e inghie i ciste"; S.F., semina le fave e riempirai i cesti; Trotta, n. 1356). In un'altra recensione di Barletta (Giovine, n. 883), i due San Francesco - quello di Assisi del 4 Ottobre e quello di Paola del 2 Aprile - segnano l'inizio e la maturità del processo di produzione delle fave: "Sen Francìsc i fav indo canìstr" (S. F., le fave nel canestro; al 4 Ottobre per la semina, al 2 Aprile per primizia). Ma é anche il periodo della caccia al tordo ("Sam Brangische turde a canìste"; S.F., tordi a canestri; Giovine, Bari, n. 36), che è evidente calco dei proverbi relativi alle fave. Il 15 Ottobre, giorno di S. Teresa d'Avila, il contadino pone l'inizio del declino delle ore solari: "Santa Tarèse e lla sciurnète pigghie l'appèse" (S.T., la giornata prende la discesa; Trotta n. 1357). A San Luca, al 18 Ottobre, si pone l'esito positivo della semina: "Sante Luche, mine la seménte ca ne mmuche" (S.L., getta il seme, che non ammuffirà; Trotta, n. 1358).
La festa di Ognissanti (1 Novembre) invita al completamento delle piantagioni e annunzia le prime nevicate: "A le Sande / oggn' e zzippe chiànde" (A Ognissanti pianta ogni albero; Giovine, Bari, n. 385); Tutte li Sante / la nève infante" (Ognissanti, la neve può cadere da un momento all'altro; Trotta, n. 1377). Intanto, il 10 Novembre, dedicato a S. Andrea Avellino, si potrà controllare l'ingrossamento dei porci: "Pe Ssand'André / pigghie u puèrche pe la sédue / e ce non u puète pegghià / finghe a Natàle u à da fà stà" (A S.A. afferra il porco per la setola, e se non riesci ad afferrarlo, fino a Natale lo devi lasciare; Giovine, Bari, n. 22). Anche denso, in Novembre, è l'l 1, il giorno di S. Martino di Tours. Gli viene riferito, come in tutta l'Europa, il proverbio relativo alla maturazione del mosto in vino (per Barletta, v. Giovine, n. 878), che è banale calco di un modello comune. Ma il giorno è segnato principalmente da detti che riguardano il passaggio al tempo invernale e la conseguente necessità di affrettare le semine e i lavori dei campi: "Sante Mattìje, / tante la notte e ttante la dije" (S.M., tanto la notte e tanto il giorno; Trotta, n. 1266); Sant Martjn, scup e cucjn" (S.M hai appena il tempo di spazzare e cucinare; Giovine, Barletta, n. 886); De Sante Martine, scitte e ccamine"; (A S.M. semina a spaglio e percorri tutto il campo; Trotta, n. 1381); "A Ssante Martine, inghie lu pijone e accurte u camine" (A S.M. riempi il pugno e accorcia i cammino = getta più seme nel terreno; Trotta, n. 1383).
Ormai i detti si condensano intorno alla constatazione che l'inverno è giunto. Così, per S. Clemente, al 23 Novembre, si dice: "Ppe Ssande Clemènde / u viirne mètte nu dènde" (Per S.C., l'inverno mette un dente; Giovine Bari, n. 33). Per S. Caterina di Antiochia, al 25 Novembre, la neve e la brina nevosa sono presenti: "Santa Caterine, la nève sope la spine" (S.C., la neve sulle spine degli arbusti; Trotta, n. 1383, con parallelo, per Bari, in Giovine, n. 19). Per lo stesso giorno si ripetono le pronosticazioni (pan-italiane) sul prossimo periodo di pioggia: "Com'é Catarinelle / corsì é Natalelle" (Come é S. Caterina, così é Natale; Giovine, Barletta, n. 882, com parallelo in Trotta, n. 1385). Né, ormai, vale più gettare il seme nella terra: "La sémmene Santa Caterine ne vvèle nu carrine" (La semina a S.C. non vale un carlino; Trotta, n. 1384).
Per Dicembre, S. Barbara, al 4 del mese, conferma il gelo invernale: Pe Ssanta Varve / statte attùrne a fuèche e uàrde" (Per S.B., stattene intorno al fuoco e guarda; Giovine, Bari, n. 23). All'8 Dicembre, giorno dell'Immacolata Concezione, fino al 13 Dicembre, giorno di S. Lucia, si ripetono i consueti detti circa il deciso passaggio all'inverno con l'indicazione del giorno più breve dell'anno: "Da la Macolàte a Ssanda Lecì / ié ccorte la dì" (Dall'Immacolata a S. L. si accorcia il giorno; Giovine, Bari, n. 42); "Sanda Lecì, / la dì cchiù ccorte ca nge sì" (Giovine, Bari, n. 24, con paralleli n. 20,44). Stranamente, in un proverbio bitontino si ritiene che S. Lucia sia tempo utile ancora per la semina: "Quann'è la fèste de Sanda Lesciòje, / ammine la semmènde ca ne mmiuche" (Quando è la festa di S.L., getta il seme perchè non marcisce; Tradizioni popolari bitontine cit. p. 237).
A Dicembre si fondono tre detti proverbiali, dei quali uno riguarda l'uccisione natalizia del porco, l'altro costituisce un pronostico sul tempo fra Natale e dopo Natale, il terzo riguarda la crescita dei semi già messi nel terreno: "A le vendicinque nassce u Redentore / more u puèrche senza dòlore" (Al 25 nasce il Redentore, muore il porco senza dolore; Giovine, Bari n. 36, nel quale detto è forse il residuo di un comportamento etico contadino nei riguardi dell'uccisione degli animali o, al contrario, un residuo della credenza che l'uccisione dolorosa del porco comporta guasto alla sua carne, per la conservazione); "A Natale de nande / trèmene re nvande. / A Natale de dréite / trémene re pèite" (Prima di Natale tremano per il freddo i bambini. Dopo Natale tremano le pietre, Tradizioni popolari bitontine cit., p. 159, con parallelo per Bari in Giovine, n. 661); "Ci uè ca vène bbona la semènde, / Natale lucènde e Ppasque scurènde" (Se vuoi che cresca bene il seme, Natale assolato e Pasqua piovosa; Giovine, Bari, n. 388).
E infine, al di fuori di precisi referenti calendariali, un proverbio di Bisceglie (Giovine, n. 899) mi sembra condensi l'antico dramma della siccità e proietti la pioggia nell'ordine soprannaturale: "Quande chiòve zappe Criste" (Quando piove zappa Cristo).

2. I centri cultuali
Manca, nella mia impressione, una recente e valida bibliografia che investa l'analisi sui grandi centri cultuali pugliesi, sotto il profilo della religiosità popolare. I lavori e le elaborazioni di carattere storico ed antiquario sono numerosi e rispettabili, ma all'interno delle subregioni pugliesi sussiste una topografia sacrale subalterno connessa ai santuari, che non è stata ancora sondata secondo i metodi del l'antropologia religiosa. Bisognerebbe, cioè, aver presente che tracciare una storia religiosa e umana delle Puglie non significa soltanto individuare taluni filoni, certamente rilevanti, di carattere storico-archivistico, ma significa anche fermare nel tempo - in un tempo come il nostro, che va rapidamente cancellando le immagini del mondo arcaico - le linee di consuetudini, di remota origine, connesse alla vita contadina, pastorale e marinara.
La grotta di S. Michele Arcangelo, sul Gargano, è certamente uno dei punti centrali di una religiosità pan-europea che si esprime negli itinerari di pellegrinaggio. Pensiamo ai lontani nostri antenati, che si erano creata una geografia della salvezza e dell'aldilà che aveva i suoi referenti topici, per indicare soltanto alcuni punti, in S. Giacomo di Compostela o di Galizia, in Roma (il sepolcro di Pietro), in Gerusalemme, con le sedi fondamentali della tradizione cristiana oscillante fra nascita e morte di Cristo, in S. Michele di Normandia, in Colonia (dove esisteva il sepolcro dei Magi evangelici). In questa geografia immaginaria, che, tuttavia, ha dato origine a sistemi economici, a reti stradali, a interessi alberghieri, a conflittualità di potere feudale, S. Michele del Gargano, Arcangelo potente collegato, insieme, alle teofanie longobarde e al mondo contadino-pastorale, ha costituito un epicentro di vita religiosa che tuttora ha significati per la gente di Puglia, di Abruzzo, di Campania. Un libro molto bello, quello di Francesco Paolo Fischetti (Mercurio, Mithra, Michael. Magia, mito e misteri nella grotta dell'Arcangelo; Monte Sant'Angelo, Tipografia La Garganica, senza data) è un invito a rintracciare, nel labirinto delle tradizioni micheliane, le matrici antiche, quelle che vanno connesse alle cultualità tardo-antiche relative a Mercurio e al movimento misterico mitriaco, che aveva la sua sede nelle grotte e nei templi sotterranei.
Evidentemente questo lavoro è distante dagli interessi di religiosità popolare. Prossimo all'analisi del tema del pellegrinaggio, come dato di cultura di popolo, era l'ampio e documentato studio che Armando Petrucci pubblicava nel 1963 (Aspetti del culto e del pellegrinaggio di S. Michele Arcangelo sul monte Gargano in Pellegrinaggi e culto dei Santi in Europa fino alla la Crociata, Convegno del Centro di Studi sulla Spiritualità Medioevale, IV, 8-11 Ottobre 1961, Todi, 1963, pp. 145-180). Il contributo di Petrucci riguarda le epoche trascorse, sulle quali forse converrebbe riproporre al lettore contemporaneo la curiosa opera di frà Marcello Cavaglieri, Il Pellegrino del Gargano (Macerata, 1679), ristampandone un'edizione critica e commentata che renda utilizzabile la enorme quantità di notizie in essa accumulate. Manca, tuttavia, uno studio sul dato popolare del vero e proprio pellegrinaggio come avvenimento collettivo, che convoca intorno al centro sacrale del Gargano, nella fase attuale, grandi folle provenienti da varie regioni dell'Italia Meridionale e Centrale. Sembra stia per sopperire a tale carenza un gruppo di studi, guidato da Gianni De Vita, che ha seguito i vari itinerari dei peregrinanti nel 1981, descrivendone gli usi e i comportamenti e registrando in una serie di interviste la documentazione sull'evento. Di tale ricerca, della quale ci si augura, come contributo molto importante, la pubblicazione, si ha, allo stato, soltanto una redazione dattiloscritta. Che il pellegrinaggio garganico resti un fenomeno di grande rilievo nel panorama religioso meridionale risulta subito, sulla base di una stima attendibile, dal fatto che il santuario è stato visitato da un milione di persone nel 1981. Questa ricerca, condotta secondo criteri di rigorosa metodologia antropologica, integra i due importanti volumi di C. Angelillis (Il santuario del Gargano e il culto di San Michele nel mondo; Foggia, Ed. Rinascita Garganica, 1956), Soltanto come palinsesto documentario degli antichi aspetti della cultualità è la pubblicazione di G. Otranto, Il "Liber de apparitione" e il culto di San Michele sul Gargano nella documentazione liturgica altomedioevale (in "Vetera Christianorum", Bari, n. 18, 1981).
Il centro cultuale barese è stato investito, con un'analisi esemplare e minuta, all'interno di un recente volume, nel quale lo storico Charles W. Jones dell'Università di Berkeley, il più grande esperto della storia e delle tradizioni relative a S. Nicola di Mira, affronta il tema della traslazione delle reliquie a Bari e la fondazione del tempio barese dedicato al Santo (San Nicola. Biografia di una leggenda, trad. di F. Cezzi, Bari, Laterza, 1983). ]n particolare, il problema storico della traslazione - con le strane avventure che la circondano - è stato rigorosamente trattato sulla fonte del quattro documenti (di diversa matrice religioso-politica) che ne parlano quasi contemporaneamente al 1087, l'anno nel quale è ormai definitivamente fissato l'ingresso delle reliquie del Vescovo orientale a Bari. Erano tempi molto duri, dominati dalle lotte fra i centri bizantini e il prepotere normanno, e il culto di S. Nicola si innestava su una tradizione nicolaita già intensa e diffusa nel territorio pugliese. Un evento, quello della traslazione, che avrebbe segnato in modo definitivo la storia dell'area pugliese e che, in fondo, faceva di Bari l'epicentro di una devozione europea, passò quasi inosservato presso la Curia romana. Proprio nel 1087 era stato eletto papa, attraverso compromessi e violenze, l'abate Desiderio di Montecassino, che aveva preso il nome di Vittore III. Restio ai doveri che gli venivano dall'incarico, impiegò (e lo diciamo per spiegare l'inerzia dei tempi) ben quaranta giorni di viaggio da Montecassino a Roma: nè si accorse delle vicende che avvenivano in Puglia, marginalmente annotate dagli annalisti cassinensi.
Jones ha anche illustrato, con grande tensione filologica, il periodo durante il quale Elia, Arcivescovo di Bari e Abate di S. Benedetto, iniziò la costruzione della basilica barese, in area prossima al mare e all'accesso dei marinai, sulla corte del Catapano a lui concessa. Si tratta, in questo caso, di una ricerca di singolare valore che libera il tema dall'angustia delle notazioni locali e riesce a connetterlo al più vasto orizzonte di una cultura religiosa europea, che circolò intorno alla figura storica e leggendaria del vescovo orientale. Se una qualche riserva dovesse essere sollevata sulla parte dell'opera che riguarda questioni italiane circa S. Nicola, va detto che Jones, per carenza di informazioni, non è riuscito ad affrontare quello che a me sembra un sistema centrale della grande cultura nicolaita: il tema della trasformazione di una figura di santità, strettamente legata al mare (e nel Nord ai bambini e alle vergini maritande), in un santo dei pastori. Da Bari parte un'ondata di segnali che la transumanza, con la creazione di osmosi culturali, rielabora alla base, e il vescovo che viene dal mare emigra, attraverso i pastori transumanti, nelle terre di Abruzzo, del Molise, delle Marche, dove spesso ogni memoria marina viene dispersa. Il vescovo diviene il pacifico protettore delle pecore e dei pecorai, simile, per alcuni versi, a S. Antonio Abate o "del porcello". E, mi sembra, ci troviamo in presenza di un fenomeno di scambi e di inculturazioni che traveste la potente creatività e adattabilità delle plebi subalterne del nostro Paese meridionale, fino al punto che le protezioni potenti, garantite da storie miracolose, si trasformano secondo le esigenze delle etnie, dei luoghi e delle culture. Nè l'autore del libro sa che il modello narrativo della leggenda nicoliana o nicolaita, in un territorio culturale che va dalla Sardegna alla Calabria, origina, per calco, un ciclo popolare relativo a Sant'Anna. Come Nicola salva dalla contaminazione e dalla miseria le tre fanciulle, che il padre ha destinato alla prostituzione per superare la miseria e la morte, così, in un ciclo narrativo suditaliano, Anna, madre di Maria, salva, nello stesso modo, fanciulle e prostitute. Le quali notazioni, sotto il profilo delle considerazioni storiche, ripropongono anche per la Puglia e per il culto di S. Nicola, l'intricato problema dell'utilizzazione delle fonti, che non possono essere limitate (come avviene in questo libro) alla "historia major" o dotta e che devono, invece, investire l'universo orale e tradizionale delle subalternità, silenti dal punto di vista del documento scritto.
Un altro centro di religiosità pugliese, quello del Convento e della Chiesa di S. Matteo, nel territorio di S. Marco in Lamis, sulla grande via del pellegrinaggio micheliano, è stato oggetto di un attento volume che nasce da un convegno sulla spiritualità francescana in S. Matteo, tenuto fra il 13 e il 14 Ottobre del 1978 ("San Matteo", Storia, società e tradizioni del Gargano; Lacaita, Quaderni del Sud, 1979). I molti contributi toccano principalmente la storia del Convento, della Chiesa e delle vicende che ne fecero uno dei punti fondamentali di pellegrinaggio pugliese; ma all'interno del volume soltanto il contributo di Giovanni Bronzini sembra superare il puro interesse "antiquarian" e investire attuali problemi di presenze peregrinanti e di connessioni con realtà socioculturali pugliesi. Il che, evidentemente, non è diretto a sminuire il rilievo degli altri contributi, ma soltanto a segnalare l'opportunità di individuare, con il riferimento a situazioni attuali, la continuità di situazioni storiche che, altrimenti, restano relegate nel limbo della ricerca archeologica: laddove, nella mia impressione in Puglia segni antichissimi sono sempre o quasi sempre riflessi in situazioni attuali. Nè per l'analisi dei centri culturali e dell'attuale religiosità garganica é secondario un altro volume (Canti popolari di S. Marco in Lamis, a cura di R. Cera, lettera introduttiva di G.B. Bronzini; Lacaita, Quaderni del Sud, 1979), il quale, fra le pagine 101 e 140, contiene un'antologia delle liturgie cantate della gente garganica: intensi esempi di un vissuto religioso di plebi contadine che assumevano su di loro il tema della passione del Cristo o ripetevano, forse nelle trascrizioni redentoriste, i motivi dell'anima dannata, e che si aprivano all'orizzonte dei pellegrinaggi di Montevergine, dell'Incoronata di Foggia, di S. Filomena in Campania.

(1 - continua)


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