Un
discorso su quanto si è scritto e ricercato in Puglia negli ultimi
decenni sui grandi temi della religione popolare è particolarmente
tentante, perchè si cala (e, quindi, convoca nell'analisi) in
taluni intensi spessori della vita meridionale che proprio in Puglia
è possibile individuare, anche attualmente, in forma autentica
o inquinata soltanto parzialmente. E' tuttavia un discorso rischioso
perchè, non essendo intenzionalmente esaustivo, viene a fondarsi
su campionature che sono state scelte secondo criteri personali (e potrebbero
essere criteri errati) dell'autore e, quindi, può aver peccato
di omissione nei riguardi di contributi non facilmente accessibili.
D'altra parte, l'intenzione era di segnalare e descrivere alcune tematiche
per contenuti e per significati, avvalendosi di opere recenti e meno
recenti, e non si intendeva fornire un elenco bibliografico preciso
e completo, che dovrebbe, invece, essere affidato alla minuta registrazione
degli archivi e delle biblioteche locali.
In secondo luogo si affrontano qui alcuni motivi storico-tradizionali
che, nella corrente terminologia, appartengono alle forme popolari ed
arcaiche della vita religiosa. Va chiarito che è attualmente
in radicale crisi lo stesso termine "religione popolare",
consueto nelle antiche classificazioni, e che, però, esso non
è stato sostituito da un indice lessicale più evidente.
E, d'altra parte, quando isoliamo, nello studio della cultura pugliese
attraverso i testi, un rituale, un mito, una credenza magica, un pellegrinaggio
ecc., realizziamo un'astrazione di elementi, quelli definiti come religiosi-popolari,
da un più ampio contesto che, invece, dovrebbe essere, ogni volta,
convocato nell'analisi. Le varie forme locali e subregionali nelle quali
si sviluppa storicamente la cultura pugliese, appartengono, infatti,
a quella che le scuole antropologiche francesi hanno definito come "cultura
globale" o "integrale", una sorta di statuto culturale
polivalente nel quale solo per comodità descrittiva è
legittima isolare singoli fatti, assegnandoli alle varie categorie folkloriche
(linguadialetto, tradizione orale, usi di mestiere, ergologia agricola,
marinara, pastorale, ecc...). Questa interrelazione delle varie attività
umane dall'interno di una funzionalità culturale "globale"
resta, perciò, il continuo referente non espresso di queste note.
1. Il calendario
sacrale dei contadini
Due raccolte di proverbi (Alfredo Giovine, Proverbi pugliesi, Milano,
Martello, ed. 1970; Marco Trotta, Società e cultura contadina
nei proverbi di Monte Sant'Angelo, con intr. di G. B. Bronzini, Centro
Studi Garganici, Foggia, 1982) consentono di riproporre l'argomento
particolare dei ritmi sacrali del lavoro contadino attraverso i proverbi.
L'argomento era stato già trattato, a livello di minuta e attenta
elencazione dei dati, da Saverio la Sorsa (1).
I detti proverbiali in questione appaiono, in redazione diversa, anche
in altri ambiti culturali italiani, e tuttavia, per quanto riguarda
taluni referenti, assumono in Puglia un tono locale proprio, dipendente
da specificità ergologiche e da credenze particolari. In essi
si rivela una stratificazione arcaica della mentalità rurale,
la quale rifiuta le anonime datazioni del calendario ufficiale e si
costituisce un proprio calendario mitologico, corposamente fondato
su santi e celebrazioni del calendario liturgico. Si determina, così,
un rapporto diretto fra l'universo della religiosità, i ritmi
lavorativi e il ciclo stagionale, in quell'unità funzionale
o globale che abbiamo segnalata.
E' difficile stabilire se le figure di santità evocate nei
detti proverbiali siano da intendersi come forze protettrici e determinanti
degli eventi agricoli cui sono connesse, o se, invece, l'interrelazione
"nome di santo/ data/ evento agricolo" sia spoglia da ogni
idea sottesa di azione potente ed esprima soltanto l'esigenza di collegare
ad una datazione, non amorfa ed anonima, momenti fondamentali del
ciclo lavorativo. I detti che esaminiamo si qualificano variamente.
Sono previsioni meteorologiche relative a pioggia, vento, periodi
solstiziali ed equinoziali, ecc.; e anche sono collegamenti precisi,
di specifici eventi coltivatori ad un nome di santo, che agisce come
indice memoriale.
Nel mese di Gennaio sono obliterate la memorie connesse alla festa
della Circoncisione (1 Gennaio), che ebbe nel Medioevo, come fase
di permissività e di rottura della norma, influenze anche sul
costume agricolo. Né ha diretta relazione con il terreno coltivato
la festa dell'Epifania, ricordata in molti proverbi. Un santo importante,
anche perché protettore dei contadini e dei loro beni animali,
in particolare del porco, resta sant'Antonio Abate, cadente al 17.
Da quel giorno le galline cominciano a fetare: "Sant'Antune,
ogne peddastre accumènze l'uve" (S.A., ogni pollastra
comincia a fare le uova; Trotta, n. 1245); ma l'estate è ancora
lontana: "Sant'Antune pla varva bbianche/ se ne nchiòve
la néve ne mmanche" (Trotta, n. 1244). Diviene centro
di attenzione (e non è frequente in altre aree folkloriche)
San Sebastiano, martire presuntivamente sotto Diocleziano e assunto
al protettorato contro la peste durante le grandi epidemie post-medioevali.
I lavori di dissodatura e aratura sono iniziati, così che "Disce
Sande Vastiàne: fatiche cucce ca mange pane" (Dice S.S.:
fatica duro, chè mangi pane; Giovine, Bari n. 18). Siamo al
20 Gennaio; ma il santo, anche se annunzia la primavera ("Sande
Vastiane che la viòle m-mane"; S.S. con la viola in mano;
Giovine, Bari n. 25), non assicura il deciso e definitivo passaggio
dall'inverno all'estate. Un proverbio di Bari (Giovine n. 15) annunzia
previsioni che devono essere interpretate al contrario o nelle quali
non si deve avere fiducia: "Pe Ssande Vastàne / sale u
monde e uarde u piàne./ Ce vite picche / spire assà.
/ Ce vite assà / spire picche" (Per S.S., sali sul monte
e guarda il piano. Se vedi niente, spera molto. Se vedi molto, spera
niente). In Febbraio, il giorno 2, dedicato alla Presentazione della
Vergine o Candelora, diviene momento divinatorio stagionale e meteorologico
in quasi tutte le culture europee. Perciò in Puglia appare,
in varie recensioni, il proverbio paneuropeo: "Candelora, estate
dentro, inverno fuori". Ma le varianti sono importanti, perché
il tempo di passaggio dall'inverno all'estate è riferito, rifacendosi
alla autorità di una non identificato "vecchia",
alla festa dell'Annunciazione (25 Marzo). Il modello più esteso
di questo proverbio è quello bitontio: "A la Canelòure
/ da u vìirne sime foùre, / disce la vécchie
de Patiìrne (Patierno): / stònne n'alt'é quaranda
dì de vìirne; / disce la vécchie de jind'a u
sacche: / na mbass'u vìirne ce na nvèine Sammarche;
/ disce la vécchie de Quarate (Corato): u vìirne passe
a la Nenziate" (Alla Candelora, dall'inverno siamo fuori. Dice
la vecchia di Patierno: ci sono altri quaranta giorni d'inverno. Dice
la vecchia da dentro il sacco: non passa l'inverno se non viene S.
Marco. Dice la vecchia di Corato: l'inverno passa all'Annunziata;
Tradizioni popolari bitontine, raccolte dagli alunni delle scuole
elementari e medie, Bitonto, 1975, p. 156). In un proverbio riportato
dal Trotta, (n. 1263) si rivela ancora più insistentemente
la perplessità contadina nei confronti dell'indice calendariale
della Candelora, perché il passaggio dall'inverno all'estate,
dopo essere stato riferito al 25 Marzo (Annunziata), viene garantito
soltanto per giugno, quando i mietitori scendono nel Tavoliere: "Arrespònne
lu Curpe de Criste: pe jèsse cchiù ssecure quanne aièssene
li meteture". In un altro proverbio il mutamento di stagione
lo si trova nel crescere delle foglie del fico, che annunziano il
passaggio quando sono divenute grandi come una zampa di bue: "Tanne
véne la vernéta fòre quanne la frònne
la fiche ce fé quante na stampe de vòve" (Trotta,
n. 1264). Per la stessa data è assicurato il fetare delle galline,
altrove assegnato al 17 Gennaio: "A la Cannelòre / oggne
e gaddìne arrive all'ove" (Giovine, Bari, n. 46). A S.
Biagio (3 Febbraio) e a S. Valentino (14 Febbraio), le incertezze
della Candelora sembrano superate e i detti proverbiali annunziano
il tempo primaverile: "San Biése, p'ogni pertuse u sole
trése" (S. C., per ogni pertugio il sole entra; Trotta,
n. 1265); "A Ssande Valendìne la staggiòne (primavera)
iè vecìne" (Giovine, Bari, n. 28).
Nel mese di Marzo, il giorno di S. Benedetto (21) è ricordato
non soltanto per il solito motivo pan-italiano del ritorno della rondine
sul tetto, che è dato in un proverbio barese (Giovine, Bari,
n. 29). Stranamente il santo è connesso alla crescita del basilico:
"A Ssammeninitte, lu vasilicòje sope lu titte" (A
S. B. il basilico sopra il tetto; Trotta, n. 1290). Centrale in Marzo
è il 25, festività del l'Annunciazione e inizio della
gravidanza della Vergine Maria. I solchi sono ormai pronti alla germogliatura:
"La Nenzziàte, o grùvete o fegghiàte"
(Alla Annunziato i solchi sono gravidi o hanno germogliato; Giovine,
Bari, n. 380). Come in altre aree contadine, in Puglia appare la credenza
che in questo giorno è pericoloso mangiare le verdure che sono
invase dai vermi: "A la Nenzziàte oggn'e vvèrme
iàlze la cape" (Alla Annunziato ogni verme alza la testa;
Giovine, Bari, n. 376). Ormai dovrebbe far caldo, in prima primavera,
e questo caldo è annunziato dal canto del cuculo. In mancanza,
il cuculo é morto o éammalato: "La Nnunziéte
e Ilu cucule nn'à ccantète, o é murte o sté
maléte" (Trotta, n. 1293).
Il periodo pasquale, ricorrente come serie di festività mobili,
da origine ad alcune interessanti previsioni contadine. Se piove nella
domenica delle Palme, il raccolto sarà abbondante: "Palma
nfòsse, grégna jrosse" (Palme bagnate, raccolto
grande; Trotta, n. 1301, con parallelo in Giovine, n. 1010). Mentre
la Pasqua cadente in Marzo dà tristi presagi di guerra o carestia:
Pasqua marzzadeche, o uèrre o famàdeche" (Pasqua
marzolina, guerre o carestia; Giovine, Bari, n. 48, ripetuto in Trotta,
nn. 1297, 1298).
Il giorno di Sant'Anastasio (27 Aprile) invita a controllare la condizione
dei campi: "Sande Stase, va vvite fore ce ié remmase"
(A S.A. va fuori, nei campi, a vedere quanto rimane; Giovine, Bari,
n. 366). Nello stesso giorno le fave hanno già il nasello:
"Sande Stase oggne e ffave à ffatte u nase" (Giovine,
Bari, n. 368).
Per Maggio viene ricordato un proverbio salentino che annunzia per
il giorno della Santo Croce, il 3, il rischio di bacatura delle noci,
in caso di pioggia: "Ci chioe pi Ssanta Croce, si carotta ogni
noce" (Giovine, 1100). San Cataldo, patrono di Taranto, venerato
il 10 maggio, assicura il definitivo passaggio al caldo: A Ssan Gatàlde
/ lève u ffridde e mmètte u ccalde" (Giovine, Bari,
n. 47). Allo stesso santo è riferito il pronostico di quaranta
giorni di pioggia che, in altre regioni, è riportato al 4 Aprile:
"Scin Catalde quaranta jurne chiòve e quaranta jurne fé
càlede" (Trotta, n. 1316). Di formazione recente (intorno
al XVIII sec.) deve essere un proverbio riferito a San Filippo Neri,
venerato il 26 maggio: essa esalta la pioggia di maggio o l'acqua
di maggio, che comunemente è considerata utile ai campi in
tutte le nostre regioni e che libererebbe i poveri dalla necessitò
di ricorrere ai ricchi per essere assistiti con prestiti in denaro
se il raccolto, invece, è scarso ("Quanne chiove a Ssan
Felippe, u povere ne ncure u ricche"; Trotta, 1318, con parallelo
per Bari in Giovine, n. 411).
Giugno ci dà un solo proverbio contadino, ricordando che il
24, nel giorno di S. Giovanni, i fichi sono ormai maturi e danno i
cosiddetti "fioroni": "San Ggiuànne, / pigghie
chelùmme e ammine n'ganne" (S.G., prendi fioroni e gettali
in gola; Giovine, Bari, n. 403).
Anche per luglio un solo detto, nel quale viene ripetuto, riferendolo
a Sant'Anna (26 luglio), il consueto pronostico di pioggia: "Ce
chiove la dì de Sand'Anne, av'a chiòve du uànne"
(Se piove il giorno di S.A., dovrà piovere un mese dell'anno).
San Michele Arcangelo, al 29 Settembre, chiude il ciclo stagionale
agricolo: esso corrispondeva alla chiusura della Dogana delle Pecore,
che comportava il ritorno dei pastori transumanti alle loro terre
di origine (come la festa di San Michele all'8 Maggio apriva il ciclo
agricolo e l'afflusso dei pastori transumanti alla Dogana): é,
quindi, giorno gravido di significati che residuano, però,
in pochi detti proverbiali. L'uva é ormai matura ("De
Sande Mechèle / l'uve ié ccome o mmèle";
A S.M. l'uva è come il miele; Giovine, Bari, n. 37). L'Arcangelo
sembra essere collegato principalmente ad una pronosticazione meteorologica
sul vento e sulla pioggia che interrompono la calura estiva e che
dureranno fino a Natale: "U vèspre de Sammechèle,
/ u uuìnte che rèste é fine a Natèle"
(Al vespro di S. M., il vento che spira dura fino a Natale; Trotta,
n. 1353); "Quanne u aàngiue Mechèle se mbonne l'ale
/ chiove fingh'a Natàle" (Quando l'angelo M. si bagna
le ali, piove fino a Natale; Giovine, Bari, n. 39, con parallelo in
Trotta, n. 1354).
Più ricchi sono i residui paremiologici riferiti al 4 Ottobre,
giorno dedicato a S. Francesco di Assisi. In un proverbio di carattere
generico, quel giorno apre il periodo dei freddi (A Ssam Brangèsche
/ lève u ccalde e mmètte u friske"; A S.F. termina
il caldo e inizia il fresco; Giovine, Bari, n. 41). Ma il santo sembra
specificamente segnare la semina delle fave ("San Frangische,
chiante ffève e inghie i ciste"; S.F., semina le fave
e riempirai i cesti; Trotta, n. 1356). In un'altra recensione di Barletta
(Giovine, n. 883), i due San Francesco - quello di Assisi del 4 Ottobre
e quello di Paola del 2 Aprile - segnano l'inizio e la maturità
del processo di produzione delle fave: "Sen Francìsc i
fav indo canìstr" (S. F., le fave nel canestro; al 4 Ottobre
per la semina, al 2 Aprile per primizia). Ma é anche il periodo
della caccia al tordo ("Sam Brangische turde a canìste";
S.F., tordi a canestri; Giovine, Bari, n. 36), che è evidente
calco dei proverbi relativi alle fave. Il 15 Ottobre, giorno di S.
Teresa d'Avila, il contadino pone l'inizio del declino delle ore solari:
"Santa Tarèse e lla sciurnète pigghie l'appèse"
(S.T., la giornata prende la discesa; Trotta n. 1357). A San Luca,
al 18 Ottobre, si pone l'esito positivo della semina: "Sante
Luche, mine la seménte ca ne mmuche" (S.L., getta il seme,
che non ammuffirà; Trotta, n. 1358).
La festa di Ognissanti (1 Novembre) invita al completamento delle
piantagioni e annunzia le prime nevicate: "A le Sande / oggn'
e zzippe chiànde" (A Ognissanti pianta ogni albero; Giovine,
Bari, n. 385); Tutte li Sante / la nève infante" (Ognissanti,
la neve può cadere da un momento all'altro; Trotta, n. 1377).
Intanto, il 10 Novembre, dedicato a S. Andrea Avellino, si potrà
controllare l'ingrossamento dei porci: "Pe Ssand'André
/ pigghie u puèrche pe la sédue / e ce non u puète
pegghià / finghe a Natàle u à da fà stà"
(A S.A. afferra il porco per la setola, e se non riesci ad afferrarlo,
fino a Natale lo devi lasciare; Giovine, Bari, n. 22). Anche denso,
in Novembre, è l'l 1, il giorno di S. Martino di Tours. Gli
viene riferito, come in tutta l'Europa, il proverbio relativo alla
maturazione del mosto in vino (per Barletta, v. Giovine, n. 878),
che è banale calco di un modello comune. Ma il giorno è
segnato principalmente da detti che riguardano il passaggio al tempo
invernale e la conseguente necessità di affrettare le semine
e i lavori dei campi: "Sante Mattìje, / tante la notte
e ttante la dije" (S.M., tanto la notte e tanto il giorno; Trotta,
n. 1266); Sant Martjn, scup e cucjn" (S.M hai appena il tempo
di spazzare e cucinare; Giovine, Barletta, n. 886); De Sante Martine,
scitte e ccamine"; (A S.M. semina a spaglio e percorri tutto
il campo; Trotta, n. 1381); "A Ssante Martine, inghie lu pijone
e accurte u camine" (A S.M. riempi il pugno e accorcia i cammino
= getta più seme nel terreno; Trotta, n. 1383).
Ormai i detti si condensano intorno alla constatazione che l'inverno
è giunto. Così, per S. Clemente, al 23 Novembre, si
dice: "Ppe Ssande Clemènde / u viirne mètte nu
dènde" (Per S.C., l'inverno mette un dente; Giovine Bari,
n. 33). Per S. Caterina di Antiochia, al 25 Novembre, la neve e la
brina nevosa sono presenti: "Santa Caterine, la nève sope
la spine" (S.C., la neve sulle spine degli arbusti; Trotta, n.
1383, con parallelo, per Bari, in Giovine, n. 19). Per lo stesso giorno
si ripetono le pronosticazioni (pan-italiane) sul prossimo periodo
di pioggia: "Com'é Catarinelle / corsì é
Natalelle" (Come é S. Caterina, così é Natale;
Giovine, Barletta, n. 882, com parallelo in Trotta, n. 1385). Né,
ormai, vale più gettare il seme nella terra: "La sémmene
Santa Caterine ne vvèle nu carrine" (La semina a S.C.
non vale un carlino; Trotta, n. 1384).
Per Dicembre, S. Barbara, al 4 del mese, conferma il gelo invernale:
Pe Ssanta Varve / statte attùrne a fuèche e uàrde"
(Per S.B., stattene intorno al fuoco e guarda; Giovine, Bari, n. 23).
All'8 Dicembre, giorno dell'Immacolata Concezione, fino al 13 Dicembre,
giorno di S. Lucia, si ripetono i consueti detti circa il deciso passaggio
all'inverno con l'indicazione del giorno più breve dell'anno:
"Da la Macolàte a Ssanda Lecì / ié ccorte
la dì" (Dall'Immacolata a S. L. si accorcia il giorno;
Giovine, Bari, n. 42); "Sanda Lecì, / la dì cchiù
ccorte ca nge sì" (Giovine, Bari, n. 24, con paralleli
n. 20,44). Stranamente, in un proverbio bitontino si ritiene che S.
Lucia sia tempo utile ancora per la semina: "Quann'è la
fèste de Sanda Lesciòje, / ammine la semmènde
ca ne mmiuche" (Quando è la festa di S.L., getta il seme
perchè non marcisce; Tradizioni popolari bitontine cit. p.
237).
A Dicembre si fondono tre detti proverbiali, dei quali uno riguarda
l'uccisione natalizia del porco, l'altro costituisce un pronostico
sul tempo fra Natale e dopo Natale, il terzo riguarda la crescita
dei semi già messi nel terreno: "A le vendicinque nassce
u Redentore / more u puèrche senza dòlore" (Al
25 nasce il Redentore, muore il porco senza dolore; Giovine, Bari
n. 36, nel quale detto è forse il residuo di un comportamento
etico contadino nei riguardi dell'uccisione degli animali o, al contrario,
un residuo della credenza che l'uccisione dolorosa del porco comporta
guasto alla sua carne, per la conservazione); "A Natale de nande
/ trèmene re nvande. / A Natale de dréite / trémene
re pèite" (Prima di Natale tremano per il freddo i bambini.
Dopo Natale tremano le pietre, Tradizioni popolari bitontine cit.,
p. 159, con parallelo per Bari in Giovine, n. 661); "Ci uè
ca vène bbona la semènde, / Natale lucènde e
Ppasque scurènde" (Se vuoi che cresca bene il seme, Natale
assolato e Pasqua piovosa; Giovine, Bari, n. 388).
E infine, al di fuori di precisi referenti calendariali, un proverbio
di Bisceglie (Giovine, n. 899) mi sembra condensi l'antico dramma
della siccità e proietti la pioggia nell'ordine soprannaturale:
"Quande chiòve zappe Criste" (Quando piove zappa
Cristo).
2. I centri
cultuali
Manca, nella mia impressione, una recente e valida bibliografia che
investa l'analisi sui grandi centri cultuali pugliesi, sotto il profilo
della religiosità popolare. I lavori e le elaborazioni di carattere
storico ed antiquario sono numerosi e rispettabili, ma all'interno
delle subregioni pugliesi sussiste una topografia sacrale subalterno
connessa ai santuari, che non è stata ancora sondata secondo
i metodi del l'antropologia religiosa. Bisognerebbe, cioè,
aver presente che tracciare una storia religiosa e umana delle Puglie
non significa soltanto individuare taluni filoni, certamente rilevanti,
di carattere storico-archivistico, ma significa anche fermare nel
tempo - in un tempo come il nostro, che va rapidamente cancellando
le immagini del mondo arcaico - le linee di consuetudini, di remota
origine, connesse alla vita contadina, pastorale e marinara.
La grotta di S. Michele Arcangelo, sul Gargano, è certamente
uno dei punti centrali di una religiosità pan-europea che si
esprime negli itinerari di pellegrinaggio. Pensiamo ai lontani nostri
antenati, che si erano creata una geografia della salvezza e dell'aldilà
che aveva i suoi referenti topici, per indicare soltanto alcuni punti,
in S. Giacomo di Compostela o di Galizia, in Roma (il sepolcro di
Pietro), in Gerusalemme, con le sedi fondamentali della tradizione
cristiana oscillante fra nascita e morte di Cristo, in S. Michele
di Normandia, in Colonia (dove esisteva il sepolcro dei Magi evangelici).
In questa geografia immaginaria, che, tuttavia, ha dato origine a
sistemi economici, a reti stradali, a interessi alberghieri, a conflittualità
di potere feudale, S. Michele del Gargano, Arcangelo potente collegato,
insieme, alle teofanie longobarde e al mondo contadino-pastorale,
ha costituito un epicentro di vita religiosa che tuttora ha significati
per la gente di Puglia, di Abruzzo, di Campania. Un libro molto bello,
quello di Francesco Paolo Fischetti (Mercurio, Mithra, Michael. Magia,
mito e misteri nella grotta dell'Arcangelo; Monte Sant'Angelo, Tipografia
La Garganica, senza data) è un invito a rintracciare, nel labirinto
delle tradizioni micheliane, le matrici antiche, quelle che vanno
connesse alle cultualità tardo-antiche relative a Mercurio
e al movimento misterico mitriaco, che aveva la sua sede nelle grotte
e nei templi sotterranei.
Evidentemente questo lavoro è distante dagli interessi di religiosità
popolare. Prossimo all'analisi del tema del pellegrinaggio, come dato
di cultura di popolo, era l'ampio e documentato studio che Armando
Petrucci pubblicava nel 1963 (Aspetti del culto e del pellegrinaggio
di S. Michele Arcangelo sul monte Gargano in Pellegrinaggi e culto
dei Santi in Europa fino alla la Crociata, Convegno del Centro di
Studi sulla Spiritualità Medioevale, IV, 8-11 Ottobre 1961,
Todi, 1963, pp. 145-180). Il contributo di Petrucci riguarda le epoche
trascorse, sulle quali forse converrebbe riproporre al lettore contemporaneo
la curiosa opera di frà Marcello Cavaglieri, Il Pellegrino
del Gargano (Macerata, 1679), ristampandone un'edizione critica e
commentata che renda utilizzabile la enorme quantità di notizie
in essa accumulate. Manca, tuttavia, uno studio sul dato popolare
del vero e proprio pellegrinaggio come avvenimento collettivo, che
convoca intorno al centro sacrale del Gargano, nella fase attuale,
grandi folle provenienti da varie regioni dell'Italia Meridionale
e Centrale. Sembra stia per sopperire a tale carenza un gruppo di
studi, guidato da Gianni De Vita, che ha seguito i vari itinerari
dei peregrinanti nel 1981, descrivendone gli usi e i comportamenti
e registrando in una serie di interviste la documentazione sull'evento.
Di tale ricerca, della quale ci si augura, come contributo molto importante,
la pubblicazione, si ha, allo stato, soltanto una redazione dattiloscritta.
Che il pellegrinaggio garganico resti un fenomeno di grande rilievo
nel panorama religioso meridionale risulta subito, sulla base di una
stima attendibile, dal fatto che il santuario è stato visitato
da un milione di persone nel 1981. Questa ricerca, condotta secondo
criteri di rigorosa metodologia antropologica, integra i due importanti
volumi di C. Angelillis (Il santuario del Gargano e il culto di San
Michele nel mondo; Foggia, Ed. Rinascita Garganica, 1956), Soltanto
come palinsesto documentario degli antichi aspetti della cultualità
è la pubblicazione di G. Otranto, Il "Liber de apparitione"
e il culto di San Michele sul Gargano nella documentazione liturgica
altomedioevale (in "Vetera Christianorum", Bari, n. 18,
1981).
Il centro cultuale barese è stato investito, con un'analisi
esemplare e minuta, all'interno di un recente volume, nel quale lo
storico Charles W. Jones dell'Università di Berkeley, il più
grande esperto della storia e delle tradizioni relative a S. Nicola
di Mira, affronta il tema della traslazione delle reliquie a Bari
e la fondazione del tempio barese dedicato al Santo (San Nicola. Biografia
di una leggenda, trad. di F. Cezzi, Bari, Laterza, 1983). ]n particolare,
il problema storico della traslazione - con le strane avventure che
la circondano - è stato rigorosamente trattato sulla fonte
del quattro documenti (di diversa matrice religioso-politica) che
ne parlano quasi contemporaneamente al 1087, l'anno nel quale è
ormai definitivamente fissato l'ingresso delle reliquie del Vescovo
orientale a Bari. Erano tempi molto duri, dominati dalle lotte fra
i centri bizantini e il prepotere normanno, e il culto di S. Nicola
si innestava su una tradizione nicolaita già intensa e diffusa
nel territorio pugliese. Un evento, quello della traslazione, che
avrebbe segnato in modo definitivo la storia dell'area pugliese e
che, in fondo, faceva di Bari l'epicentro di una devozione europea,
passò quasi inosservato presso la Curia romana. Proprio nel
1087 era stato eletto papa, attraverso compromessi e violenze, l'abate
Desiderio di Montecassino, che aveva preso il nome di Vittore III.
Restio ai doveri che gli venivano dall'incarico, impiegò (e
lo diciamo per spiegare l'inerzia dei tempi) ben quaranta giorni di
viaggio da Montecassino a Roma: nè si accorse delle vicende
che avvenivano in Puglia, marginalmente annotate dagli annalisti cassinensi.
Jones ha anche illustrato, con grande tensione filologica, il periodo
durante il quale Elia, Arcivescovo di Bari e Abate di S. Benedetto,
iniziò la costruzione della basilica barese, in area prossima
al mare e all'accesso dei marinai, sulla corte del Catapano a lui
concessa. Si tratta, in questo caso, di una ricerca di singolare valore
che libera il tema dall'angustia delle notazioni locali e riesce a
connetterlo al più vasto orizzonte di una cultura religiosa
europea, che circolò intorno alla figura storica e leggendaria
del vescovo orientale. Se una qualche riserva dovesse essere sollevata
sulla parte dell'opera che riguarda questioni italiane circa S. Nicola,
va detto che Jones, per carenza di informazioni, non è riuscito
ad affrontare quello che a me sembra un sistema centrale della grande
cultura nicolaita: il tema della trasformazione di una figura di santità,
strettamente legata al mare (e nel Nord ai bambini e alle vergini
maritande), in un santo dei pastori. Da Bari parte un'ondata di segnali
che la transumanza, con la creazione di osmosi culturali, rielabora
alla base, e il vescovo che viene dal mare emigra, attraverso i pastori
transumanti, nelle terre di Abruzzo, del Molise, delle Marche, dove
spesso ogni memoria marina viene dispersa. Il vescovo diviene il pacifico
protettore delle pecore e dei pecorai, simile, per alcuni versi, a
S. Antonio Abate o "del porcello". E, mi sembra, ci troviamo
in presenza di un fenomeno di scambi e di inculturazioni che traveste
la potente creatività e adattabilità delle plebi subalterne
del nostro Paese meridionale, fino al punto che le protezioni potenti,
garantite da storie miracolose, si trasformano secondo le esigenze
delle etnie, dei luoghi e delle culture. Nè l'autore del libro
sa che il modello narrativo della leggenda nicoliana o nicolaita,
in un territorio culturale che va dalla Sardegna alla Calabria, origina,
per calco, un ciclo popolare relativo a Sant'Anna. Come Nicola salva
dalla contaminazione e dalla miseria le tre fanciulle, che il padre
ha destinato alla prostituzione per superare la miseria e la morte,
così, in un ciclo narrativo suditaliano, Anna, madre di Maria,
salva, nello stesso modo, fanciulle e prostitute. Le quali notazioni,
sotto il profilo delle considerazioni storiche, ripropongono anche
per la Puglia e per il culto di S. Nicola, l'intricato problema dell'utilizzazione
delle fonti, che non possono essere limitate (come avviene in questo
libro) alla "historia major" o dotta e che devono, invece,
investire l'universo orale e tradizionale delle subalternità,
silenti dal punto di vista del documento scritto.
Un altro centro di religiosità pugliese, quello del Convento
e della Chiesa di S. Matteo, nel territorio di S. Marco in Lamis,
sulla grande via del pellegrinaggio micheliano, è stato oggetto
di un attento volume che nasce da un convegno sulla spiritualità
francescana in S. Matteo, tenuto fra il 13 e il 14 Ottobre del 1978
("San Matteo", Storia, società e tradizioni del Gargano;
Lacaita, Quaderni del Sud, 1979). I molti contributi toccano principalmente
la storia del Convento, della Chiesa e delle vicende che ne fecero
uno dei punti fondamentali di pellegrinaggio pugliese; ma all'interno
del volume soltanto il contributo di Giovanni Bronzini sembra superare
il puro interesse "antiquarian" e investire attuali problemi
di presenze peregrinanti e di connessioni con realtà socioculturali
pugliesi. Il che, evidentemente, non è diretto a sminuire il
rilievo degli altri contributi, ma soltanto a segnalare l'opportunità
di individuare, con il riferimento a situazioni attuali, la continuità
di situazioni storiche che, altrimenti, restano relegate nel limbo
della ricerca archeologica: laddove, nella mia impressione in Puglia
segni antichissimi sono sempre o quasi sempre riflessi in situazioni
attuali. Nè per l'analisi dei centri culturali e dell'attuale
religiosità garganica é secondario un altro volume (Canti
popolari di S. Marco in Lamis, a cura di R. Cera, lettera introduttiva
di G.B. Bronzini; Lacaita, Quaderni del Sud, 1979), il quale, fra
le pagine 101 e 140, contiene un'antologia delle liturgie cantate
della gente garganica: intensi esempi di un vissuto religioso di plebi
contadine che assumevano su di loro il tema della passione del Cristo
o ripetevano, forse nelle trascrizioni redentoriste, i motivi dell'anima
dannata, e che si aprivano all'orizzonte dei pellegrinaggi di Montevergine,
dell'Incoronata di Foggia, di S. Filomena in Campania.
(1 - continua)
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