IL PENSIERO ECONOMICO NEL PRIMO TRENTENNIO DEL '900




Gennaro Pistolese



Il travaglio del pensiero economico del XX secolo, che ha come immediato punto di riferimento i progressi fino ad allora compiuti nello studio dei meccanismi dei prezzi e della ripartizione dei redditi - le due materie fondamentali sulle quali si sono cimentate le scuole neoclassiche ha avuto e tuttora ha come suo fondo una realtà politica, economica e sociale in pieno fermento. Le crisi sono divenute più lunghe ed anche più gravi. Le due guerre mondiali hanno provocato non solo periodi di depressione, di inflazione massiccia o strisciante ma ormai costante, bensì anche un'irrequietezza generatrice pure di dinamica, nel bene e nel male, con le spinte progressive allo sviluppo tecnologico da un lato e dall'altro alla sollecitazione delle rivendicazioni e dei mutamenti di status e di condizione sociale e civile. Commento Emile James nella sua "Storia del pensiero economico" che "certamente la ripartizione dei redditi è migliorata, nel senso che i salari si sono accresciuti; ma il mondo operaio vive con il terrore della disoccupazione e voci sonore venute dall'Est gli vantano le virtù di un regime non capitalista, che non conoscerebbe nè disoccupazione, nè crisi ed organizzerebbe una economia nel solo interesse del lavoratore". Sono questi sconvolgimenti a segnare momento e motivazione critici della contestazione delle scuole e delle teorie fino ad allora dominanti, a cominciare dalla neoclassiche.
A queste, in particolare, si impuntano, dal pensiero economico che veniva maturando e si veniva così rinnovando, un'eccessiva astrattezza in contrasto con il realismo postulato e praticato dai cosidetti economisti di azione; una valutazione statica dei fenomeni; un finalismo ubicato in un mercato fuori del tempo e dello spazio cui le forze economiche avrebbero dovuto tendere, prescindendo dalla valutazione delle origini di queste e dalla foro trasformazione; l'errata spiegazione dei fenomeni sociali con alcuni tratti della psicologia individuale; la sottovalutazione dei quadri istituzionali; lo scarso interesse manifestato per il ruolo della moneta nel sistema economico.

LINEE DELLA CRITICA ALLE SCUOLE PRECEDENTI

Tre autori, in particolare, si-sono distinti in questo impegno critico, che ha investito la primissima parte di questo secolo, e cioè l'americano T. Veblen, il tedesco O. Spann ed il francese F. Simiand.
Il primo ha contestato ai classici la mancato loro oggettività, dovendosi infatti prescindere da fondamenti subiettivi di giudizio; il loro edonismo; il mancato ancoraggio ad una psicologia realistica derivante dalla pura osservazione; la mancata valutazione dell'evoluzione del quadro istituzionale nel tempo; ecc... Tratto saliente della sua dottrina, che è stata anche di critica ai seguaci della scuola storica o marxista, è stato quello di una critica della proprietà privata, formulata soprattutto con il suo saggio dal titolo "Absentee ewnerschip".
A questo pensatore si attribuisce più che il merito di aver concorso ad una motivata evoluzione del pensiero, quello di aver aperto la strada, nello specifico ambito statunitense per quanto riguarda le implicazioni pratiche dei suoi principii, alla riforma delle strutture, al dirigismo, alla tecnocrazia, all'idea di un "brains trust" che consigliasse le autorità pubbliche in materia economica. In definitiva si tratta di una nuova proposta di metodo, che è poi quella che domina oggi le strategie economiche e la progettualità delle condotte economiche.
O. Spann dal canto suo polarizza la sua attenzione ed i suoi approfondimenti sul comportamento dei gruppi, sul consolidamento istituzionale dei gruppi nati spontaneamente: sindacati operai e Stato, su scelte di superamento dell'individualismo e di avvio alla macroeconomia.
Anche François Simiand è ancorato al positivismo, contestando il metodo astratto e concettuale dei neoclassici. Storia e statistica sono i due metri di misura fonti di formazione delle teorie. In funzione di questa concezione estremamente positiva egli pretendeva statistiche poco elaborate e perciò libere da valutazioni ed interpretazioni unilaterali. Senonchè è proprio per questa aridezza che il suo pensiero economico non si è elevato a forme superiori di determinazione e di peso concettuali.
In sostanza il pensiero di cui fin qui abbiamo detto è valutato più come apporto alla critica dei pensieri classici, che alla creazione di nuovi flussi di principii e valori.
Ne è derivato un passaggio intermedio nella storia del pensiero economico rispetto alle angolazioni veramente rappresentative dell'excursus compreso fra il 1900 ed il 1930, che vengono a riguardare lo sviluppo del marxismo, l'equilibrio monetario, la concorrenza, la teoria dell'equilibrio nella fase successiva alla sua formazione che risale al 1870. Di questa teoria i protagonisti sono distribuiti nell'intero Occidente, cominciando da Pareto e Barone per l'Italia, per passare a Menger in Austria, a Jevons, Edgeworth e Marshall in Inghilterra, a Walras in Francia, a Clark e Fisher in America, a Wicksell in Svezia.
C'è infine una quinto angolazione della quale tenere conto, e che riguarda la contrapposizione alle suddette teorie esercitata dalla dottrina liberale, nella sua lontana e congenita ispirazione come nei suoi adeguamenti ad una realtà in continuo movimento.
Nell'evoluzione del pensiero economico, questa fase di esso che ci accingiamo ad approfondire costituisce la cerniera fra il periodo anteriore alla sistematizzazione generale della dottrina avvenuta a cominciare dal 1750, il periodo delle scuole classiche e neoclassiche ed infine le teorie dominanti prima e dopo J.M. Keynes.
Un lungo cammino, con il quale due obiettivi principali sono stati conseguiti e cioè quello della maggiore concretezza e l'altro della maggiore chiarezza di principii e di valori, pur nella vigenza delle precedenti scuole, perchè altre nuove stentano a formarsi o non sono ancora mature.
L'incidenza del marxismo nel secolo XX e nell'evoluzione (od involuzione?) del pensiero economico e sociale, che in questa ottica l'ha contraddistinta, ha a che fare con due fatti principali, e cioè l'ispirazione e le motivazioni che ha fornito per un lungo periodo ai movimenti socialisti (oggi invece una. larga parte di essi si è distaccata dai principii marxisti, e per lo meno li ha sottoposti a profondi ripensamenti) nonchè l'assunzione di questa dottrina a pilastro della realtà sovietica e di quei Paesi che rientrano nell'orbita di questa.
L'originaria dottrina marxista ha subito e subisce pertanto molteplici interpretazioni, che sono in gran parte di critica e di consenso molto condizionato, tranne i casi di rozza adesione acritica suggerita da immaturità di valutazioni ed anche da ritardi negli adeguamenti alla mutata realtà rispetto a quella nella quale il pensiero di Marx potè nascere ed esprimersi.
In realtà, materialismo storico, teoria sul valore-lavoro, sul plusvalore, sul l'accumulazione e la concentrazione crescente, sulle crisi economiche e sullo sviluppo del proletariato, negazione delle facoltà di adattamento del capitalismo: nulla di quello che Marx ha detto su tutti questi punti è oggi intatto. Sopravvivono i fermenti, ma essi sono propri dei tempi che evolvono anche se si alimentano di queste, come di altre sollecitazioni. Così che da più parti si parla di parabola del marxismo, con la decantazione delle suggestioni intorno a questo nome: emblematico più ancora per quanto ha rappresentato e tuttora, pur in certi limiti, rappresenta, che non per quello che effettivamente ha dimostrato, oltre che annunciato, a fronte di una realtà storica che non gli ha dato e non gli dà ragione.
D'altra parte lo stesso Marx avrebbe detto un giorno "io non sono marxista" ed una battuta, d'origine polacca, è in circolazione, secondo cui sempre Marx, una volta redivivo, ambirebbe oggi di lanciare il seguente appello attraverso la televisione sovietica "Proletari di tutto il mondo, scusatemi". In realtà il "dopo Marx" sul piano dottrinario si è tradotto in una diffusa critica a tutta l'opera di Marx, in opposto da parte di altri in un'adesione al suo metodo ed alle sue principali conclusioni. Inoltre al forte e crescente rigetto di dette conclusioni (con riguardo, al destino del capitalismo ed alla pretesa ineluttabilità dell'avvento del comunismo) ed alla discordanza dall'analisi concernente la teoria del plusvalore o della sovraproduzione permanente, si è contrapposta da parte di altri la conferma della credibilità del metodo seguito da Marx, sia pure condizionandone l'applicazione in forza dei mutamenti derivanti dalle stesse mutazioni intervenute nel carattere del capitalismo odierno.
Una prima testimonianza di questo revisionismo è desumibile dal pensiero manifestato da un discepolo di Marx e cioè da E. Bernstein, che non condivide l'opinione del suo maestro secondo la quale il progresso sociale ed economico dovrebbe discendere dalla scomparsa del capitalismo, ma ritiene che anche nel quadro delle istituzioni capitaliste il mondo operaio deve e può mutare la sua sorte, togliendo al mondo dei datori di lavoro una parte sempre crescente del plusvalore. Notevole è anche l'affermazione in detto pensiero, secondo cui non èla proprietà che tende a concentrarsi in un ridotto numero di mani (la proprietà mobiliare si è capillarizzata) bensì l'autorità ed il potere economico. Guardando al fondo della composita schiera dei marxisti moderni, così differenziati gli uni dagli altri, una nota comune ad essi viene riconosciuta da vari storici ed è quella della loro identificazione nel determinismo e nella priorità dell'azione, questa tuttavia perseguibile sul piano pratico e politico in due forme essenziali, e cioè quella revisionista e l'altra rivoluzionaria. E queste sono le alternative che continuano a dominare anche la prospettiva odierna, con lo spartiacque che divide i socialismi dell'Occidente da quelli dell'Est o del terzo mondo. Sono sulla prima linea i pensatori che in Francia si collegano a Jean Jaurès, nel Belgio si ispirano a concezioni realistiche, nella Germania sono riconoscibili nella socialdemocrazia, in Gran Bretagna hanno dato vita al laburismo.
In pratica, Jaurès, rigettando ogni teoria marxista sul plusvalore e sul materialismo storico, ha fondato il suo credo sul riformismo, sulla rivendicazione di una legislazione adeguatamente protettiva dei lavoratori, sulla sollecitazione di un'azione sindacale sempre più rigorosa diretta a realizzare più alti salari e consistenti riduzioni dell'orario di lavoro. Con queste sue impostazioni egli ha ritenuto di conciliare i due termini di rivoluzione e riforma, l'una complementare all'altra, nella convinzione che più riforme organicamente e coerentemente messe a punto si traducono, di fatto, in una vera e propria rivoluzione, con il più del vantaggio della sua innocuità e di distruzioni compiute solo quando a prenderne il posto sono costruzioni sicuramente valide e durature. Dopo la prima guerra mondiale, l'azione politica che ha caratterizzato questa frangia del pensiero economico si è espressa per la riduzione dei privilegi delle famiglie detentrici del potere economico, per la nazionalizzazione delle industrie chiave, per lo sviluppo del sindacalismo operaio, per l'estensione del controllo operaio nelle gestioni e nella vita delle aziende e casi via. Tutti campi questi che sono vitali tuttora, anzi soggetti ad ulteriori passi innanzi, ma sono sulla via del ritorno per quanto concerne le nazionalizzazioni. la dottrina, oltre che la pratica, stanno infatti dimostrando che le leve delle quali lo Stato occidentale dispone nel campo della normativa, della fiscalità, del credito sono molto più incisive e funzionali di quelle derivanti dall'impiego delle nazionalizzazioni, che danno oggi la sensazione di essere il frutto del messianismo di altri tempi.
Nella stessa scia di realismo si pone il pensiero economico socialista belga con le opere di Emile Vandervelde e di la Brouchère, ispirate dal principio dello sviluppo delle imprese miste, con partecipazione di capitale pure operaio, delle cooperative, ecc... e con minori propensioni per le imprese di Stato. Agli inizi degli anni '30 il pensiero di Henri De Man, anche con un'opera dal titolo "Au delà du marxisme", pubblicata nel 1927, e fondata pure su motivi a carattere idealistico ("gioia del lavoro") doveva fornire spinte e sollecitazioni di pensiero più di carattere spirituale (mondo migliore) che non di principii riconducibili a leggi.
Mentre da questa parte il distacco dal pensiero marxista risulta netto, nella socialdemocrazia tedesca e nel nucleo degli economisti che in esso si riconoscono i fermenti del pensiero del maestro sono proseguiti, come ricordano le opere e le scelte di Karl Kautsky, di Rosa Luxemburg o di Hilferding. Tuttavia è da rilevare che il finalismo espresso dalla socialdemocrazia, soprattutto in questa seconda parte del secolo, si è polarizzata sulla ricerca di strade conciliative della sopravvivenza del capitalismo con il suo temperamento provocato da un'aperta politica sociale.
E veniamo al laburismo britannico, nel quale le tracce marxiste sono invero notevolmente limitate fino a scomparire del tutto nelle applicazioni pratiche e nel rivendicazionismo. Questo alle sue origini, pur denunciando le degenerazioni del capitalismo, ha puntato alla creazione di un socialismo perseguito con la tattica di temporeggiamento anzichè con quella della violenza. Nascono così i fabiani, che derivano la loro denominazione da Fabius Cunctator. Autori di rilievo sono Beatrice e Sidney Webb, John Hobson, G.D.H. Cole. In questa scuola c'è una denuncia del capitalismo, per quanto riguarda le rendite immeritate; c'è la richiesta di un ampliamento della sfera dell'intervento statale, c'è la proposta di costituzione di "gilde", gruppi di operai e di tecnici di un'industria chiamati ad organizzare imprese produttive; ci sono una serie di sbocchi che sono stati sperimentati successivamente, in materia di nazionalizzazioni e di Stato sociale, sbocchi che almeno in parte attraversano, dopo le sperimentazioni effettuate, un processo di sostanziale ridimensionamento, dopo le fasi avanzate registrate all'indomani della seconda guerra mondiale.
Per riportarci al tema dello sviluppo del marxismo - fin qui si è detto delle sue deviazioni da esso - complesso è il cammino che ci porta nella interpretazione del socialismo rivoluzionario a Lenin.
In Francia, c'è il sindacalismo rivoluzionario con l'ispirazione determinante di George Sorel. Questi (deceduto nel 1922), più che economista è stato sociologo, ed ha formulato critiche sul marxismo, pur avendo esercitato un'influenza su Lenin, e si èmanifestato campione e predicatore rivoluzionario fra l'altro con le sue opere "Riflessioni sulla violenza" e i suoi "Insegnamenti sociali dell'economia contemporanea".
Con il suo primo studio egli afferma che gli scioperi debbono mantenere lo spirito eroico dei sindacalisti, agguerrirli e perciò prepararli a quello sciopero generale da cui avrebbe dovuto derivare la fine del capitalismo.
Un altro pensatore che porta da Marx a Lenin è, per la Germania, Karl Kautsky, con le sue denunce del capitalismo rurale, che poi tuttavia si attenuarono emarginandolo dai comunisti.
Terzo nome di spicco, sempre su questa strada, è quello di Hilferding con il suo libro dal titolo "Il capitalismo finanziario" pubblicato nel 1910, con le sue accentuazioni della preponderanza dei sindacati finanziari e delle banche nella formazione delle imprese, dei cartelli, delle erosioni delle concorrenze per il conseguimento di maggiori profitti, ecc.
Quarto nome prima di giungere a Lenin è quello di Rosa Luxemburg, deceduta nel 1919, dirigente della frazione di sinistra del partito Socialdemocratico tedesco, fra i maggiori teorici del marxismo, che promosse anche con K. Liebknecht il movimento spartachiano. Essa fra l'altro affermò che il capitalismo, invecchiando, si muta in imperialismo (ma questa identificazione, come si sa, è propria di tutte le dittature, a prescindere dalla negazione o meno del capitalismo) e che il sottoconsumo è una delle caratteristiche principali del capitalismo, con effetti che tuttavia sono diminuiti dal fatto che il mondo in cui viviamo non è interamente capitalista e che molte regioni sfuggono tuttora ad esso,
Alla fine di questo rosario di nomi, vi è Lenin ritenuto il maggiore marxista. Egli integrò la sua identità di capo rivoluzionario e di artefice della rivoluzione sovietica a quella di teoreta, introducendo il concetto di dittatura del proletariato come forma di passaggio dal capitalismo al socialismo, e pubblicò una serie di saggi, fra cui fanno spicco quelli su "L'imperialismo, fase estrema del capitalismo", "Stato e rivoluzione", "Estremismo, malattia infantile del comunismo", che sono alla base dell'azione internazionale del comuniamo.
Come osserva Emile James nel sempre ricordato suo volume "Storia del pensiero economico", Lenin appunto con quest'ultima opera pubblicata nel 1920 - egli èmorto nel 1924 - "dovette allontanare i suoi compatrioti dal sinistrismo dottrinale e dalla ricerca di un'eguaglianza troppo rigorosa, mentre cercava di lottare contemporaneamente contro certi scoraggiamenti: il comunismo puro non poteva essere applicabile che dopo un considerevole sviluppo della produzione". Perciò imponeva molto lavoro, poco sviluppo del benessere, che è poi la realtà di un sistema casi ideologicamente fondato e con tutta la vanità delle promesse che annuncia e che in realtà lo smentiscono nei punti essenziali della realizzabilità del suo finalismo.

Il ruolo della moneta
Nella dottrina economica la moneta vede ampliato il suo spazio negli studi dell'inizio del secolo. Anteriormente l'accento veniva posto sugli altri fattori dell'equilibrio, fino ad emarginare la moneta stessa, al punto che Stuart Mill l'aveva ritenuta economicamente indifferente, mentre altri studiosi la consideravano neutrale, a parte le incidenze che la quantità della moneta veniva esercitando sulla dinamica e sui livelli dei prezzi.
A parte le fondamentali intuizioni avute al riguardo dal WaIras negli ultimi anni del secolo scorso, ed al riguardo si può ricordare la sua concezione della moneta come riserva di valore e quindi come mezzo di certificazione di disponibilità liquide, altre ne sono intervenute ad opera della corrente nominalista, che ha avuto vari esponenti in Francia (Marcel Mongin e Bertrand Nogaro), in America (Laughlin), in Germania (Knapp e Bendixen) anche in Italia con Achille Loria. La loro è stata una reazione all'idea di moneta-merce, alla concezione metallista della moneta, alla teoria quantitativa.
Il comune denominatore di tutte queste interpretazioni è costituito dalla attribuizione alla moneta di un possibile ruolo perturbatore, per cui viene smentita la sua pretesa neutralità di cui prima si diceva, e ciò anche nella considerazione del fatto che la moneta può essere oggetto di una domanda speciale, indipendentemente dall'ammontare dei beni che con essa si possono acquistare. Così che si giunge ad un definizione che approssimativamente può essere così riassunta, facendone discendere le relative implicazioni: la moneta è porte del reddito di ogni soggetto economico che prende forma di liquidità disponibile. Correlato a questa definizione è quella del tasso d'interesse, che in sostanza è il prezzo pagato per trasformare in averi liquidi dei beni che non lo sono.
Sul finire del secolo scorso ed agli albori di questo, emerge sugli altri il pensiero di Knut Wicksell con la formulazione della teoria dell'equilibrio generale. Dice Claudio Napoleoni ne "Il pensiero economico del 900" che il modello di Wieksell differisce da quello di WaIras per quanto riguarda, fra l'altro, il capitale: mentre Walras introduce il capitale come un insieme di beni durevoli, le cui quantità vengono assunte come date, Wicksell risolve invece i beni capitali nei fattori originari: lavoro e risorge naturali".
Passando alle specifiche valutazioni monetarie di WickselI, esse trovano in queste sue parole la loro sintesi rappresentativa: "Ogni teoria monetaria deve poter mostrare come e perchè la domanda monetaria e pecuniaria delle merci può eccedere l'offerta delle merci in determinate circostanze o inversamente essergli inferiore". Perchè vi sia equilibrio bisognerebbe che risparmio e investimento fossero uguali e che fra tassi effettivi e naturali dell'interesse vi fosse uguaglianza.
Sempre secondo Emile James i fermenti nuovi che dal pensiero di Wicksell sono derivati si riassumono in queste sequenze: anzitutto l'idea che l'investimento ed il risparmio non si eguagliano spontaneamente; quindi l'idea dei processi cumulativi di espansione o di recessione; infine l'idea che la politica monetaria ha un ruolo essenziale non soltanto nella formazione del livello dei prezzi, ma anche nella determinazione del livello di produzione.
Sono questi altrettanti germi che hanno trovato un seguito negli studiosi che si sono succeduti soprattutto per quanto attiene al problema delle variazioni dei prezzi.
Un altro filone dei perfezionamenti della teoria dell'equilibrio monetario lo si trova nella scuola svedese, che ha approfondito la tematica del ruolo del tasso d'interesse, con riferimento ai prezzi e pure al livello dell'attività.
Fra gli altri, Bertil Ohlin ha cercato di precisare il ruolo del tasso effettivo di interesse, attribuendo ad esso il compito di assicurare l'uguaglianza ex post tra risparmio ed investimento, qualora questa uguaglianza non sia assicurata ex onte.
In sostanza, tutto questo complesso dottrinario sfocia nel l'affermazione che il fattore monetario fa parte degli elementi che determinano l'equilibrio economico, che questo può essere turbato da fenomeni monetari e non può essere realizzato senza una politica monetaria adeguata.
Siamo oggi nel pieno di questa scia del monetarismo e del suo ruolo di equilibrio, conseguibile - si deve aggiungere - a patto che esso sia conseguito anche nella esplicazione delle politiche monetarie. Equilibrio, dunque, come preambolo dello sviluppo e quindi come armonizzazione dei rapporti intercorrenti fra i vari componenti e nello stesso ambito specifico di ciascuno di essi.

Radici e modo di essere della concorrenza
Un'altra angolazione dell'evoluzione dottrinaria dei primi anni del '900 è quella dell'analisi della concorrenza, con l'esame di questa e del monopolio.
La revisione critica della teoria della concorrenza trova un punto fermo in uno studio dell'economista italiano Piero Sraffa, pubblicato in Inghilterra ("The laws of returns under competitive conditions", in "Economic Journal", dicembre 1926) e ripubblicato in Italia nella "Nuova Collana degli Economisti". Secondo Sraffa l'esperienza mostra che il limite all'espansione della produzione in aziende che sono indubbiamente in una posizione di reciproca concorrenza non deriva dall'andamento dei costi, ma dalle condizioni della domanda. Ogni tentativo di espandere la produzione richiede una diminuzione del prezzo. Pertanto, per l'azienda che si trovi in condizioni di concorrenza, i prezzo non è un dato ma è una funzione decrescente del volume delle vendite e perciò l'azienda stessa si trova di fronte non un unico prezzo, ma un'intera curva di domanda.
Joan Robinson, Edward Chamberlin, H. von StackeIrg, Artur R. Burns, Fellner, sono altrettanti protagonisti di queste specifiche espressioni del pensiero impegnato nell'esame della concorrenza, con riguardo anche alle forme imperfette e alla concorrenza "monopolistica".
Gli autori che si sono distinti su questo terreno sono diversi; vanno da W. Fellner a R. Triffin, a A. R. Burns, ecc.... secondo i quali lo stato di concorrenza perfetta sarebbe un'ipotesi di scuola che implica la perfetta elasticità dell'offerta e della domando, ipotesi, però, che dovrebbe essere superata per studiare la formazione dei prezzi. Di fatto i mercati si troverebbero in situazioni intermedie fra la pura concorrenza ed il monopolio puro. Taluni dei suddetti autori hanno distinto concorrenza pura e concorrenza perfetto, intendendosi per non pura quella sui mercati che presentano tracce monopolistiche e rientrando nell'imperfetta i casi di mancanza di fluidità dell'offerta e della domanda.
Lo sbocco di questa tematica e del suo assetto è quello dell'equilibrio, con il superamento delle precedenti turbative da ricercare nelle alterazioni di mercato. In particolare secondo Rosenstein - Rodan un equilibrio generale costante viene a comportare che:
- tutte le reazioni si manifestino, almeno nel loro inizio, nel medesimo momento; abbiamo la stessa durata;
- si producano con la stessa velocità, in modo continuo o discontinuo che sia. Tuttavia si riconosce che l'equilibrio non può essere raggiunto che dopo numerosi adattamenti ed anche incertezze, da cui potrebbero anche derivare non miglioramenti nella correzione degli squilibri ma il loro aggravamento. Si parla così del cosiddetto teorema della ragnatela, che è il termine immaginifico al quale la dottrina economica, pur casi avara di fantasiosità, ricorre per esprimere questo principio.
Altri autori, in particolare J.M. Clark, hanno escluso che si possa conseguire un equilibrio automatico, che sarebbe conseguenza dell'adattamento del prezzo al costo o di questo a quello, in quanto l'impresa non conoscerebbe che squilibri, ora traducentisi a suo vantaggio ora a suo sfavore.
Per correggere le posizioni di squilibrio e quelle di equilibrio n~ compatibili con i principii della giustizia sociale, si fa largo negli approfondimenti dottrinari la strada della migliore ripartizione dei redditi, che seguendo i precedenti filoni diviene più tecnica che non strumentalizzata con motivazioni ideologiche, come si verifica nel pensiero socialista. Si pone pertanto al centro di questa dialettica la nozione di benessere; il cosiddetto "welfare": materia questa che impone anzitutto una sua non facile definizione. Per Alfred Marshall il concetto relativo si esprime con il collegamento del benessere con lo sviluppo della produzione. Tuttavia anche questa definizione è risultata insufficiente, perchè il benessere esige non solo-un accrescimento del volume complessivo del reddito, ma anche una riforma della suo ripartizione.
Altri studiosi, fra cui Pigou, hanno ulteriormente approfondito questi aspetti, giungendo alla conclusione che il fine dell'attività umana non deve essere la produzione pura e semplice di qualsiasi ricchezza, ma il conseguimento del benessere. l'economia deve in conseguenza compiere un salto di qualità, andando oltre le angolazioni più ricorrenti che riguardano la produzione e lo scambio delle ricchezze valutate in moneta.
Si passa così alle teorie in merito al cosidetto benessere collettivo, che trovano i loro primi fermenti oltre che in Pigou anche in Parete, e sono impersonate da una miriade di studiosi, che vanno da Hicks a Little, da T. Scitowskji a K. Boulding, da K. J. Arrow ad Abba Lerner. Per essi non ci si può fermare al benessere individuale, nè alla somma di tanti benesseri individuali, ma bisogna definire una scala di soddisfazioni valida per tutta la collettività. E questo è l'affanno non solo della scienza economica, ma anche della condotta politica, sempre alla ricerca di questa definizione e di una sua applicazione ed interpretazione che siano pegno di reale equilibrio e di effettiva giustizia sociale. In sostanza se molte delle concezioni fin qui richiamate hanno voluto costituire una critica del capitalismo e delle concezioni liberali che nei periodi precedenti ne hanno costituito salvaguardia, esse peraltro non sono giunte almeno in questa prima parte del secolo a conclusioni radicali e tali da chiudere una parentesi, per molti versi perciò invece tuttora aperta.

Gli sviluppi della tematica dominante
Se vogliamo tentare di trarre qualche conclusione da quanto fin qui esposto si può affermare che la scienza economica in questo inizio di secolo, più che superare in toto questa o quella scuola, e soprattutto crearne delle altre, ha inciso nel pro e nel contro ai loro margini.
Il mondo economico è divenuto più grande e si caratterizza con una dinamica sempre più intensa, ma la scienza economica sta cercando le sue basi di sviluppo più che altro nel l'approfondimento tecnico di aspetti e materie specifici, lasciando insoluti alcuni problemi di fondo, che si protraggono più o meno integri.
I grossi temi della concorrenza, della ripartizione dei redditi, del "welfare" sono sempre dominanti, si potrebbe dire sempre più dominanti, nelle società civili, dando luogo anche a contrapposizioni quali quelle che si registrano fra il mondo capitalistico e quello del cosiddetto socialismo reale.
Nell'uno e nell'altro sono in atto correzioni, che non hanno trovato ancora quella sistemazione dottrinaria che pure in altre fasi si è tentata, per la semplice ragione che la realtà è indefinita e forse, nell'attuale stadio di pensiero e di evoluzione socio-economica, ancora indefinibile.
Comunque, degli sforzi e dei passi innanzi compiuti in questa direzione, tanto impegnativa per studiosi e politici, diremo nelle prossime panoramiche, che avranno con la presente l'obiettivo di determinare condizioni e causali di quell'equilibrio, la cui identificazione è la vita stessa della ricerca economica.


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