§ N. G. De Donno - E. G. Caputo - P. Gatti

Poeti dialettali nel Salento




Albarosa Macrí Tronci



1. Il dibattito lingua-dialetto nel 1900
Il dibattito lingua-dialetto (1) è oggi più che mai vivo e alimenta incontri, convegni, saggi critici spesso di notevole valore (2). Potrebbe sembrare strano, nel momento in cui il dialetto come strumento di comunicazione scompare, sopraffatto dalla lingua nazionale, esiste tutta una fioritura di letteratura dialettale in ogni regione d'Italia. Come si spiega che in una società dinamica e in continua trasformazione la lingua continui a fare i conti col dialetto? Occorre considerare la nostra storia nazionale, che è molto recente, eccentrica rispetto agli altri Stati europei, per accorgersi che la lingua nazionale come strumento di comunicazione è stata imposta dopo l'Unità, con un'operazione dall'alto, quanto mai brusca e autoritaria, mentre le masse rimanevano escluse da questo processo, almeno come coscienza, se non addirittura in atteggiamento polemico verso uno Stato che si presentava estraneo e ostile (3). Perché la lingua italiana è nata come lingua letteraria e tale è rimasta fino all'Unità, quando si è assunta come Koiné parlata. L'unificazione linguistica coincideva con l'accentramento politico e culturale a scapito delle culture regionali. Ma tale spinta centripeta determinò in direzione opposta altrettante spinte centrifughe, di presa di coscienza della regionalità, del diverso, del periferico.
La seconda metà dell'Ottocento e poi il Novecento hanno visto l'affermarsi e il diffondersi di studi sul folclore, sulle culture popolari, sui costumi e sulle storie locali. Anche nella letteratura si manifestavano forti tendenze regionalistiche, prima nel filone rusticale dei post-manzoniani (Percoto, Dall'Ongaro) e poi col verismo. E' stato proprio allora che il dialetto si è presentato come custode della cultura indigena, arcaica e rurale, depositaria di un tesoro millenario di tradizioni, ma anche di sopraffazioni e di miserie. Si assisteva a un travaso di dialettalità nella letteratura in lingua con una doppia operazione orientata a fini diversi. L'uso di inserti dialettali era rivolto da una parte in direzione verista e documentaria culminando nella produzione irripetibile del Verga, da un'altra parte (è la più fertile di esiti novecenteschi) in funzione espressionista e diciamo così anticonformista approdando al pastiche dei tardoscapigliati (Faldella e soprattutto Dossi). Ma la presenza di scrittori eccentrici non è nuova nella letteratura italiana, come ha definitivamente chiarito il Contini, che ha evidenziato un filone plurilinguistico con scambi linguadialetto a partire dalle origini.
Nel secondo Ottocento la poesia dialettale dava le prove migliori con Di Giacomo in napoletano, e con Pascarella e Trilussa in romanesco, ma si attestava, pur con risultati notevoli, su un colorito folclorico e consolatorio, comunque realistico che sarà superato dalla grande poesia dialettale novecentesca.
I primi decenni del '900 segnano un incremento della letteratura dialettale mentre progressivamente l'unità linguistica fagocita l'uso dei dialetti. Nel '27 il famoso saggio di Benedetto Croce sulla Letteratura dialettale riflessa (4), poi ripreso e variato nel 140 col titolo Scrittori in dialetto (5), fu letto e accolto come fortemente limitativo della produzione dialettale, sicché vi stese un giudizio negativo, che pesò fino al secondo conflitto, e venne a incontrarsi, anche strumentalizzato, con la politica culturale del fascismo tesa a una pianificazione antidialettale in funzione di una koiné idealistico-nazionale.
Vero è che il poeta dialettale rappresenta una voce di protesta, interpreta e si cala nel povero diavolo (contadino, artigiano, bracciante, operaio, ecc.) sfruttato in un'esistenza di rinuncia e di asservimento prima al feudatario e poi all'agrario-borghese. E' una denuncia civile la sua e politica, ma soprattutto umana e esistenziale, che nei casi migliori si eleva e si allarga dall'ambito polemico a quello universale, com'era già stato nella grande poesia del Porta e del Belli.
Se quindi nella prima metà del 1900 la produzione letteraria in vernacolo rimane un fenomeno limitato rispetto alla grande poesia in lingua, nel dopoguerra il fenomeno esplode. E' Pasolini a aprire il dibattito novecentesco sulla poesia dialettale, prima con la composizione delle sue Poesie a Casarsa (1942) in un friulano letterario e composito, poi con la stesura della prima antologia della Poesia dialettale del Novecento (1952), ordinata per regioni e preceduta da un ampio saggio introduttivo, ancor oggi fondamentale, in cui egli fonda il concetto critico di letteratura dialettale d'arte (6).
Il dialetto è assunto come fattore di disintegrazione e di rottura di un modello linguistico che l'uso ha mercificato, appiattito, banalizzato. La letteratura sembra che non possa farne a meno nella ricerca di nuovi strumenti espressivi, che si vogliono tanto più lontani da quelli della comunicazione in quanto recuperino radici di autenticità e di verità. Il dialetto caduto come lingua della realtà è assunto a lingua della poesia perché idioma naturale e arcaico.
Sul versante della produzione in lingua penetra a dosi massicce nel filone realista cui aggiunge un colorito regionale nel recupero delle origini contadine (Vittorini, Pavese, Brancati, ecc.); innerva l'impasto espressivo nella grande narrativa di Gadda e Fenoglio e nella poesia della Neoavanguardia (Zanzotto, Porta, Balestrini, ecc.), dove mescolandosi a termini di registri diversissimi si fa espressione di profondo disagio esistenziale.
E' proprio in questa direzione antirealista, espressionista e quindi colta che il dialetto si è presentato come strumento di elezione a tanti poeti dialettali in ogni regione d'Italia, i quali in definitiva operano a un livello diverso, ma con la stessa vocazione di richiamare le cose al loro nome originario e assoluto, di "nominalizzare", che fu proprio di Ungaretti e di tutta l'arca ermetica. Comune alle due operazioni è una lingua arcana e difficile nell'intento di uscire dal consueto. Così si spiega anche la natura tutta colta e astrattizzante, la tendenza all'analogia e al simbolo, la forte marca fonosimbolica di serie ritmiche e assonanzate, la plurivocità di senso, che è propria della poesia assoluta, qualunque sia lo strumento linguistico in cui si esprima.

2. Alcuni caratteri dell'area salentina
L'arca salentina comprende non solo la provincia di Lecce, ma l'estremità del tacco a partire da una linea immaginaria che congiunge Brindisi e Taranto fino al mare. Essendo geograficamente periferica l'area salentina si connota per una sua arcaicità che la fa depositaria quasi indenne di tradizioni folcloriche e di cultura contadina, di tutto quel patrimonio di storia e di lingua che la civiltà massificata delle macchine e delle tecnologie tende oggi a soffocare. Il dialetto salentino è quindi un l'idioma arcaico, nutrito di latinismi"(7), molto modulato tra serie timbriche chiuse e profonde (le frequenti terminazioni in -u) e di toni alti e accesi, che conferiscono capacità di vocazione fonica e di risonanza universale.
Dell'area salentina fanno parte il dialetto magliese di N. G. De Donno, quello leccese di G. E. Caputo, e in una certa misura quello cegliese di P. Gatti, in quanto Ceglie Messapico appartiene a un'area dialettofona autonoma, molto chiusa e arcaica, ma contaminata con alcune caratteristiche delle aree limitrofe, cioè della salentina. Ho assunto la loro opera come esemplari della sperimentazione poetica della nostra terra e nello stesso tempo delle soluzioni più ardue e raffinate cui è giunta la produzione novecentesca in vernacolo. Pur nella specificità di ognuno analogo è il rapporto del poeta con la propria terra, un misto di attaccamento e di presa di distanza, di immersione nell'Eden originario e di ripulsa e denuncia di una realtà amara che inchioda e fa soffrire: un odioamore simile a quello di Bodini, altro nostro grande poeta conterraneo, col quale molte affinità si possono trovare, prima fra tutte la partecipazione alla categoria ispanico-salentina del barocco novecentesco, tra tormento della mente e del sangue e ansia d'infinito.
Per esprimere situazioni nuove e complesse il dialetto si è dovuto modellare passando dalla limitatezza originaria del vernacolo ereditato, scarso di lessico e di strutture, all'acquisizione di numerosi neologismi, di movenze metriche e soluzioni dotte, di orchestrazioni analogico-simboliste. Ne risulta una lingua colta, dinamica e aperta, tutt'altra cosa dal dialetto locale parlato, che d'altronde non esiste più. Operazione ardua hanno affrontato i Nostri, specie in assenza di una robusta tradizione letteraria in vernacolo contrariamente a quella presente in altre regioni.
Non che non ci siano alcuni precedenti di poesia dialettale anche remoti, fra Cinque e Seicento, culminanti nella produzione di D'Amelio nell'Ottocento e in quella ben più vigorosa di De Dominicis ai primi del Novecento. Una esaustiva ricognizione è stata fatta da Marti (8), ma si tratta di "rimatori che del dialetto si sono sempre serviti e si servono come strumento per tentare di esprimere magari soltanto i loro umori e risentimenti personali, nel modo più vario e nei toni più diversi" (9). C'è insomma una distanza remota fatta nei Nostri di coscienza letteraria, soprattutto di lucido travaglio interiore e espressivo, oltreché di profondi convincimenti umani e democratici. D'altronde già Pasolini nel saggio introduttivo alla sua antologia segnalava l'inconsistenza di una tradizione dialettale pugliese (10) limitata a un mero carattere municipalistico e nella sezione dedicata alla regione ospitava solo alcuni brevi testi del barese A. Nitti, ignorando completamente i salentini pur citati precedentemente (De Dominicis, Oberdan, Bozzi, Torro). Ancora nella recente Poesia dialettale dal Rinascimento a oggi, anch'essa ordinata per regioni, Spagnoletti ribadisce la debolezza della tradizione dialettale pugliese, riprendendo la posizione di Pasolini (11). Nondimeno la povertà dei modelli, lungi dal costituire per i Nostri ragione di debolezza, ha rappresentato paradossalmente una garanzia di soluzioni espressive originali e vigorose (12).

3. Tra satira e meditazione esistenziale: N. G. De Donno
Chi affronti l'opera di De Donno sa di trovarsi di fronte a una figura complessa sia sul piano umano, dove una personalità risentita e fiera, all'apparenza scontrosa, a volte cinica lascia spazio a un dignitoso e delicatissimo pudore del proprio mondo interiore che lo fa protagonista di antiche e radicate amicizie come di scontri violenti e viscerali; sia sul piano intellettuale, sedimento di una vita di studi e letture ostinate sui grandi classici della cultura antica e romanza, compresa la Patristica, lui pur ateo. Per dare le coordinate di tale formazione umana e culturale giova guardare a due esperienze biografiche fondamentali, capaci da sole di orientare e dare senso a una vita: da una parte l'avventura sanguinosa e lacerante del secondo conflitto, che lo colse appena ventenne, ancora impreparato eli fronte agli allettamenti della propaganda bellicista (13), per cui partecipo da volontario alla disastrosa campagna di Russia, da dove riuscì a aver salva la vita a pena di una grave compromissione fisica, esperienza devastante che Io ha radicato in un odio profondo per qualsiasi forma di violenza e di ingiustizia, sociale o individuale, conclamata o sotterranea (14); dall'altra parte, caposaldo della sua formazione intellettuale, gli studi universitari in filosofia presso la Scuola Normale di Pisa, allievo eletto di Luigi Russo, da cui trasse una visione razionalistico-illuministica corroborata da una passione viva per la storia, che dà alla sua poesia Lino spessore meditativo-sapienziale. Da questa doppia componente eli ,in vigoroso neoilluminismo storicistico e di un profondo impegno umano e civile nasce l'opera di De Donno, che si è appuntata esclusivamente alla sua terra sia attraverso un'ampia serie di contributi sulla storia locale e sul folclore, culminati nella preziosa raccolta di proverbi salentini (15) feconda di apporti all'opera poetica, sia attraverso la produzione poetica in vernacolo magliese, che viene svolgendosi da oltre un ventennio, articolata in tre tappe fondamentali: la prima raccoglie i versi fino al '71 dal titolo Cronache e paràbbule, Edizioni del Centro librario, 1972; la seconda, Paese, è del 1979, Lorenzo Capone Editore; la terza, Mumenti e ttrumenti, edita da Manni di Lecce del 1986, alle quali vanno aggiunti numerosi componimenti pubblicati in riviste e alcune plaquettes come La guerra guerra, cit. e La guerra de Utràntu, ediz. Scheiwiller, 1988. Sono tappe puramente cronologiche di una scrittura poetica che si svolge per proliferazione da un universo saturo, essendo compiuto nella mens dell'autore fin dai primi componimenti, come il poeta stesso ha ribadito in alcune nostre conversazioni. Anche l'adozione del sonetto, schema metrico unico, salvo rare eccezioni, dell'intera produzione, conferma tale preordinata compattezza dell'ispirazione. Negli ultimi anni però sembra essersi delineata una nuova stagione di ripiegamento e approfondimento della materia esistenziale, da cui il titolo e la sostanza di una nuova raccolta di liriche, Lu sensu de la vita, ora fresca di stampa, Scheiwiller, 1992.
Il dibattito critico che si è sviluppato sull'opera di De Donno, vivace e ricco di interventi autorevoli(16), ha evidenziato soprattutto due filoni tematici fondamentali: quello polemico-civile e quello lirico-paesistico, che rispecchiano due modi opposti ma sostanzialmente complementari di eleggere il proprio "paese" a dimora vitale assoluta, da un lato responsabile di un destino immeschinito e frustrante (personale e salentino in genere), che provoca la rivolta violenta, impietosa, a volte caustica per una consuetudine di vita assopita e fiacca, dall'altro preziosa cassa di risonanza capace di stemperare la voce combattiva e razionale del poeta in una sinfonia di echi profondissimi fatti di mare-cielo-vento-canto, ma anche di storia, sia la storia millenaria di miserie e ingiustizie, sia quella datata delle grandi sconfitte, l'invasione dei Turchi e il fascismo, Otranto e Maglie, due anime di un'unica patria.
E' naturale che in una mente analitica e lucida come il Nostro l'elemento polemico e riflessivo dovesse predominare e controllare quello lirico di intima fusione alla propria terra, per cui i componimenti del primo tipo superano di numero (non di intensità) i secondi. L'attenzione critica di De Donno si concentra innanzitutto sulle due istituzioni storicamente responsabili del degrado e del conformismo sociale: la gerarchia politica - pur mimetizzata sotto vari colori e interessi - e quella religiosa, che hanno continuato a darsi sempre una mano, dividendo mezzi e strategie per ottenere il consenso con la promessa di un falso progresso (17):

Nc'è ccose ca lu Sìndicu de Maje, / ci meju de iddu è bbonu cu Ile fazza? / Presempiu cu ssaluta chiazza chiazza, / presempiu cu sse mpenne le maraje (Ci sono cose che il sindaco di Maglie, chi meglio di lui è capace di farle? / Per esempio, salutare per tutta la piazza, per esempio, appendersi le medaglie), Lu sìndicu de Maje, CP, 59; Pettinfuori marciava li curtèi / quannu era Podestà, a Ili tiempi nosci [ ... ] Mo nvece a ppurgissioni e ggiubbilèi / li síndici li viti piettifrosci (Nei cortei marciava petto in fuori quando era Podestà, ai tempi nostri [ ... ] Ora invece nelle processioni e giubilei i sindaci li vedi col petto floscio), Lu panzin-fuori, P, 38; Stu surge de prefettu vae currennu / a ddu nc'è ccasu casu e rrusicannu. / E ccurre, Iluciscennu pruidennu, / a cquai nu santu, a ddai nu compleannu (Questo sorcio di prefetto va correndo dove c'è molto cacio, e rosicchiando. E corre, nuovo giorno nuova provvidenza, qui per un santo, li per un compleanno), Lu prefettu, P, 39.

Ne viene fuori una galleria di tipi umani grotteschi e surreali, in cui la vena satirica dedonniana conosce le note più sferzanti, penetra nei costumi minimi della società paesana, coglie la povertà spirituale e i vizi grossolani e ripugnanti, deforma con riso amaro e beffardo i profili esasperandoli in caricature, eppure evita risentimenti e personalismi grazie alla superiore visuale razionalistica che consente al poeta di superare l'angusto ambito della cronaca minuta.
La stessa beffa dissacrante è rivolta alle varie manifestazioni della religione formale e "de facciata", consistente in rituali sviliti, feste popolari, statue malamente dipinte, consuetudini superstiziose, tutto assai lontano dall'autentico folclore popolare spontaneo e devoto:

Lacrime a ggoccia de lucida cira, / la facce chiusa a Ila veletta nera / e ssette spade a Ilu core raggera, / vave chiangennu morte e mmorte tira [ ... ] cacciata de lu nicchiu a pprima sira / Ndolurata Maria (Lacrime a goccia di lucida cera, la faccia chiusa nella veletta nera e sette spade a raggera sul cuore, va piangendo morte e tira morte [ ... ] tirata fuori dalla nicchia sul far della sera Maria Addolorata), La fera de la Ndolurata, P, 92; Ggente tirata a ccira, ncravattata, / e ttreppizzi de prèiti a simmetria, / nu dicu no, fannu tappezzeria / mortuaria a stu luttu de facciata. (Gente tirata a cera, incravattata, e berrette di preti in simmetria, non dico no, fanno tappezzeria mortuaria a questo lutto di facciata), La purgissione de li misteri, P, 93,

e ancora di seguito Le taulate de San Giuseppe, La divota de Santu Nicola, Santa Dumínica a Scurranu, Santi Medici, Lu sciuvidìa santu, Matonna Bbunnanzia, P 94-99. La vis polemica dedonniana tocca i momenti migliori laddove, bruciata al fuoco della satira più sferzante, la vita minima del paese, si eleva a universale proiettandosi in una dimensione storica di soprusi, ingiustizie, rinunce:

Sta terra canisciata ca se spricula / tuccànnula, è Ilu sangu de li tati [ ... ] Terra è Ila schiavitù, razza furesa, / terra ca v'à mpastati la natura [ ... ] Ausate tisa de la sibburtura, / mmèrticala la storia ca t'à lesa, / fòrgiate cu Ili mani la vintura (Questa terra bruciata che si sbriciola / al toccarla è il sangue dei padri [ ... ]Terra è la schiavitù, o razza contadina, / terra di cui vi ha impastati la natura [ ... ] Levati in piedi dalla sepoltura, / ribalta la storia che ti ha offesa, / forgiati la sorte con le tue mani) Razza furesa, MT, 76.

La protesta civile vuoi lucida e disincantata vuoi violenta e appassionata s'invera placandosi nella natura, la grande Mater odiamata, che s'impone al poeta colla forza della sua presenza quasi corporea, come in Bodini:

Spanni paesi de bbiacca, vinture / d'ermetiche casípule bbistorte, / ossi de vita risvorti de morte, / traggicamente fatte criature (Sciorini paesi di biacca, sorti di ermetiche casupole sbilenche, ossame di vita, risvolti di morte, tragicamente divenuti creature), Salentu, P, 73; Notte de grilli, celu musicale / costruvitu su ll'arcu de ddo' note, / e nn'ujicare de stelle rimote / rretu la frangia scurente ca sale // cu cquanti ndori mai la terra pote, / cu cquanti senzi mai la terra vale (Notte di grilli, cielo musicale costruito sull'arco di due note, e un brulicare di stelle remote dietro la frangia di oscurità che sale con quanti odori mai la terra può, con quanti sensi mai la terra vale), Notte di grilli, P, 86; Na mandra de casípule mmusate / lana cu Ilana su nna terracata / de luntane paure ncumulate, / intra na sbava de luna malata (Una mandria di casipole ammusate lana contro lana su una radice di lontane paure accumulate, in una bava di luna malata), Paese meu, P, 90.

E' una natura barocca rivissuta in una sintesi di toni e linee forti e contrastanti, comune a tutta l'area artistica salentina, non solo ai poeti Bodini, Corni, Pagano, ma anche ai pittori Ciardo, Suppressa, Della Notte e soprattutto all'amico Mandorino. Sicché si inseguono colori violenti e smaglianti luminosità ("Fiumi de luce cècane ogne umentu / ca bbagnàa duce l'occhi", P, 89; "e Ila terra [ ... ] crèmisi e ggialla", MT, 115; luju mbrusciatu / nnírvica", P, 74; "la luna russa", P, 81) insieme a improvvise e cupe macchie di nero pece ("Stu celu [ ... ] su nn'oltremare bblu... stu celu bblu... vanu vanu, de luce... se stringe li pariti / sutta suppinne níure de mpiciata", P, 84); suoni vibranti e repentini ("terra ribbombante", P, 73; "nè uce soa... se nu nnu grillu ca mbriacu dilira", MT, 113) e ritmi monotoni e ossessivi ("notte de grilli, celu musicale", P, 86; "l'infinita tiritera de le cicale e Ilu scampanamentu", P, 75), moti lontani di voli inarrivabili ("rondoni / alipizzuti fannu ulu fannu ulu, / tàjane senza senzu nu lanzulu / de celu a ll'aria a ll'aria", P, 76) e su tutto la forza ostinata del vento di mare, quello sciroccale che inaridisce e consuma perfino la memoria ("Mare de sale, jentu senza cantu: a Utràntu cinque sèculi de jentu, / [ ... ] e allu Salentu / li cràmmani ricordi, e cchiami chiantu", CP, 219). Luminosità, sonorità, movimenti si proiettano a contrasto in una dimensione di fissità desertica, che èpropria della terra salentina arida e assolata e della sua gente muta e bloccata in un destino inalterato di pena:

Intra, ggente nu ddorme. Stàune muti, / cu ll'occhi perti, guardànnuse rretu / e smemurati de ddu su' bbinuti. // A ddu la notte viaggia è nnu sicretu / quantu nu munte. Li pinzieri sulu / ale de pelle sbàttene senz'ulu (Dentro, gente non dorme. Stanno muti con gli occhi aperti, guardandosi dietro e senza memoria donde son venuti. Verso dove viaggi la notte è un segreto quanto una montagna. Solo i pensieri sbattono ali di pelle senza volare), Paese meu, P, 90.

La natura in De Donno è sempre nutrita di profondo spessore umano e storico, considerata la storia sia come continuum millenario e in questo senso statica, sia come scansione di grandi eventi, terribili per la sorte umana e destinati a risolversi nella Guerra, il Male assoluto dell'uomo sociale. Storia antica e storia recente trovano nell'opera dedonniana intima corrispondenza e complicandosi con la storia minima e eterna di sopraffazioni e di ingiustizie s'inverano nella propria terra, assunta come emblema del corso indifferente e ostile degli eventi. Maglie e Otranto, le due radici della propria esistenza (Maglie si stende nella piana di Otranto con cui forma un'unità geografica e culturale), diventano la specola di osservazione della storia di sempre: la dittatura fascista a Maglie e l'occupazione turca di Otranto; la boria del magliese asservito al potere (di qualsiasi colore) come quella dei notabili idruntini salvati nella vita e nei beni con la protezione della monarchia, e all'opposto la "genticedda" sfruttata fino alle ossa e lanciata a difendere lacera e inerme la propria patria; il martirio di quegli Ottocento infelici come il martirio eterno di tutta la gente meridionale; il Il conflitto come l'assedio turco di Otranto, generati dalla stessa assurda e perversa volontà di potere contro la legittima convivenza pacifica; La guerra guerra e La guerra de Utràntu, il dramma privato e l'epos di un popolo fusi in violenti e sdegnati accenti di bruciante verità, rinvigoriti da un controllato humour:

A Árbusov na palla de fucile, / o forse de mitraja, me passàu / de fore an fore n'anca e scunucchiàu / su Ila nie sporca [ ... ] A Ccercovu, metà de ritirata, / sfasciài la fascia, e ss'era mpitucchiata (Ad Arbusov una palla di fucile, / o fu di mitraglia, mi perforò / da parte a parte un'anca; e si fiaccò / sulla neve sporca [ ... ] A Cercovo, metà della ritirata, / sfasciai la fascia, e s'era impidocchiata), Feritu an guerra, GG, 43-1 Li morti picca tufu e ccu Ili sicca / o quattru petre, ca agostu ristacca / le rètine a Ilu sule pe rripicca / de vita [ ... ] le tempie li spacca / rèputu mutu a Ile cristiane [ ... ] e a Ili mariti, a Ili fiji, a ll'Utràntu, / viscere loru, dulore dulore, / dulore uffrire e gnúttere lu chiantu (Per i morti poco tufo che li dissecchi o quattro pietre, perché agosto scioglie le redini al sole per ripicca di vita [ ... ] alle donne cristiane il muto lamento funebre spacca le tempie [ ... ] ed ai mariti, ai figli, ad Otranto, loro viscere, offrire dolore, dolore, dolore, ed inghiottire il pianto), XJ, GU, 21.

Il robusto razionalismo che sta dietro la concezione della storia determina l'atteggiamento verso il trascendente, che va dall'esplicito e conclamato rifiuto delle forme fideistiche e gerarchizzate all'affermarsi di un'etica religiosa fatta di lavoro quotidiano pensoso del destino degli umili:

E' Ccristu percè à ditte mmisurate / palore ggiuste, e ppercè nu Illà scritte / cu mmòrene de carta, ma Pà ditte / cu Ila vita cumpleta [ ... ] fatte uguale / a ttuttu Ccristu, torna a Ili principi (E' Cristo perché ha detto misurate / parole giuste, e perché non le ha scritte / che morissero sulla carta, ma le ha dette / con l'intera vita 1 fatti uguale / a Cristo intero, torna ai princìpi), Cristu operaju, MT, 42,

dove l'appello a un cristianesimo povero e evangelico si lega a aspri accenti polemici verso una Chiesa che ha deviato dalla sua natura e dal suo insegnamento originario:

Scancellate // l'ànnu però li scribbi; e stannu citte / su Ile pàggine loru le sciurnate / a Ila puteca operaja sudate / trent'anni d'ommu. Stenne cazzafitte / la Ggerarchía mitriata e dde piviale: / ncuccia stu scornu. de nu capustípite / spurcatu de lavoro manuvale (Cancellate le hanno però gli scribi; e non hanno voce / nelle pagine loro le giornate sudate nella bottega d'operaio / trent'anni di vita. Vi stende un velo d'intonaco // la Gerarchia delle mitrie e dei piviali: / copre questo scorno di un capostipite sporco di lavoro manuale), ibid.

Quel razionalismo s'incrina e si fa perplesso dinanzi al pensiero della morte, che si articola sia come mistero di un quid indeterminato e incombente sia come memoria testimoniale dei morti familiari, veri e propri lari tutelari di un'etica maturata nel sacrificio degli avi:

Parlu senza parole. E iddi sèntene. [ ... ] Jeu no, nu mme difendu se me porta / a rretu acqua passata, e mme scancella // durmennu amparu cu Ila ggente morta (Parlo senza parole. Ed essi sentono... lo no, non mi difendo se mi porta / indietro acqua passata, e mi cancella // dormendo insieme con i morti), Nu mme difendu, MT, 49.

Quei morti ridestati nella memoria di De Donno vivono come voci di protesta, alla Vallejo, di un profondo pathos popolare risentito sulla radice familiare; così il ricordo del padre lavoratore si lega al sacrificio che ha sopportato e che come lui sopportano tutti i poveri cristi martirizzati dalla fatica quotidiana:

Sìrama struttu squatratu a mmannara / me porta [ ... ] li morti nosci stannu ncatastati, / stipiti senza nume a mmannucchiara, / e gg'ete comusìa nu ssu'mmai nati (Mio padre magro squadrato con la mannaia / mi guida i morti nostri stanno accatastati, / stipiti senza nome a cumuli di mannelli, ed è come se non fossero mai nati), Li morti nosci, CP 28-1 Sire meu, / sire senza licèu [ ... ] palore trou luntane, / e Ccristu, ca li eri cirenèu (Padre mio, / padre senza liceo [ ... ] trovo parole lontane, / e Cristo, a cui eri cireneo), Ricordu de Patrima, MT, 95.

L'ultima produzione vede l'approfondirsi di quell'incrinatura nel saldo universo materialista del Nostro che, anche sotto la spinta di laceranti episodi biografici, va ripiegando dagli acri e veementi accenti polemico-civili verso una poesia riflessiva e sapienzale caratterizzata da profonda sensibilità religiosa (niente di confessionale, sia chiaro), di tremore esistenziale di fronte a un x misterico invalicabile: lu gnenti", "l'eternità", ''Iu sensu de la vita", la "morte" soprattutto, molto ricorrente sia nelle forme del puro astratto:

L'eternità, se nc'è, se nu è Ilu gnenti, / punta è dde spillu, ca a nnu puntu tocca / lu palluncinu cunfiatu / de lu tiempu campatu, / e lu schiocca, / e Ila chiàmane morte (L'eternità, se c'è, se non è il nulla, / è punta di spillo che tocca in un punto / il palloncino gonfiato / del tempo vissuto / e lo fa scoppiare, / e chiamano ciò morte), L'eternità, MT, 127,

sia in vari investimenti metaforici, come la "Chiamata":

E cquannu prestu rria ca se cumpisce, / me ne speru ca vene la Chiamata / comu papagna ca latra ndurmisce (E quando, presto, arriverà che si compia, / spero che la Chiamata giunga / simile a un papavero che furtivo addormenta), La paràbbula mea, MT, 48;

o "Mamma Sirena":

Tuttu dipende de Mamma Sirena, / ca sì o no de l'acque e dde le sponde / e Ila tira e Ila Ilenta la catena (Tutto dipende da Mamma Sirena, / che sì o no dalle acque e dalle sponde / tira e allenta la catena), Caminamu a nnu taju, MT, 80-1

e ancora "la fauce de la Mietitora" (Sordatu mortu a Ila Russia, GG, 59); "la Signora ca la chiamamu Morte" (La nie, P, 80), ecc. E sono i momenti migliori in quanto l'elemento riflessivo e dotto si risolve in immagini (il sogno nirvanico di un'isola di arance e di pandispagna; il camminare di un carro lungo un dislivello) coerenti col mondo arcaico e reale della poesia dedonniana. Esemplare di una meditazione filosofica sofferta è A puntu scusu, una recente composizione, recitata a Salentopoesia, Otranto '90, pubblicata sull'Incantiere, n. 15-16, dic. 90 e ora confluita nella raccolta scheiwilleriana Lu sensu de la vita.

Se ddu gnenti ca suntu (e cca caminu / sempre cchiúi sprufunnannu) era certezza, / la mente allora me 'mpuggiàa a Ilu chinu, / e a Ilu gnenti era fàusa la gnentezza. // Quiddu ca me strattuna pe capezza, / nvece, nu è ppenzamentu de taulinu / ca te lu oti e sboti a ssicurezza, / ma èccomu a ppuntu scusu lu pallinu // cu nc'eggia, e fforsi no, cu ss'eggia persu, / e ttie lu sciocu ll'eggi ffare uguale, / senza ssai se è ccomu ète, o se è ddiversu (Se quel niente che sono - e in cui cammino sempre più sprofondando - fosse certezza, allora la mente mi poggerebbe sul pieno, / e la nientezza del niente sarebbe falsa. Quello, invece, che mi strattona per cavezza non è pensamento da tavolino che te lo giri e rigiri in sicurezza, ma è come il boccino a punto nascosto che ci sia e forse no, che si sia perso, e tu debba ugualmente fare il tuo giuoco, senza sapere se è com'è, o se è diverso), 35.

La tensione logico-deduttiva evidenziata dalla fitta disseminazione di suoni aspri e dissonanti, anche in rima, dalle insistite figure allitterative, da cumuli metaforici si scioglie nella terzina finale con un'invocazione sgomenta di qualche certezza:

Oo! se lu gnenti m'era sarcinale / trave, e ccu mme scancella li trumenti! il Quale è, è nu gnenti ca nu spieca gnenti (Oh! se il niente mi fosse trave maestra, e mi cancellasse tutti i tormenti / Quale è, è un niente che non spiega niente), ibid.

Superata la vena satirico-civile che nelle forme più violente correva sul filo della quotidianità, qui la poesia di De Donno approda a uno spessore di pensosità umana lontana da ogni immediato autobiografismo e nel contempo fedele alla matrice originaria di arcaica salentinità. Il rischio di un tale tipo di poesia sta nel persistere dell'elemento logico-riflessivo e sul piano linguistico nella presenza di termini filosofici e astratti estranei alla materia dialettale. Di questo il poeta è consapevole, come attesta la ricorrenza del motivo metapoetico, dove il tema del travaglio espressivo si lega a quello del destino personale affidato tutto alla parola, che scavata e sofferta è il solo strumento di salvezza che rimanga possibile:

E ddunque stu dialettu ca me zzicca, / sta palora majesa ca me fiocca / senza chiamata, se an canna me tocca / o cosa de ricordu o de rripicca (E dunque questo dialetto che mi afferra, questa parola magliese che mi fiocca senza essere chiamata, se in gola mi tocca o cosa di ricordo o di ripicca), Stu dialettu, P, 30; Aggiu mpastate parole. Lu coriu / mIaggiu tiratu mpastannu parole / [ ... ] Mpennu a ccastelli d'aria zzacarole / ca le ula ogne jentu a stu pruisoriu / ca me sacciu ca stau, stu purgatoriu / tra ccelu fintu e munnu de tajole (Ho impastato parole. La pelle mi sono consunta impastando parole [ ... ] Appendo a castelli d'aria fettucce di carta colorata / che ogni vento fa volare in questa precarietà / in cui so di stare, in questo purgatorio / fra cielo finto e mondo di trappole), Ttaccu castelli, MT, 57.

Un ultimo aspetto va segnalato, non il meno importante, ed è quello dell'elaborazione tecnica. La profonda e ricca cultura del Nostro plasma un impasto linguistico arcaico e elaboratissimo, pur intatto nella sostanza ctonia della civiltà salentina (dove non ceda a voci dotte o a procedimenti speculativi(18). Anche la scelta del sonetto come misura metrica di elezione dell'intera produzione (salvo qualche caso) è segno di intima classicità, richiamandosi oltre che alla poesia romantica del Belli a quella giocosa di Cecco Angiolieri, risentita anche nell'uso di rime ardue e difficili di lontana memoria provenzale (19).

4. L'ansia religiosa di E. G, Caputo
E. G. Caputo proviene da una carriera professionale lontanissima dalla letteratura, avendo svolto servizio quale esperto di pubblica amministrazione - ormai in pensione -, presso la ragioneria comunale di Lecce. Una vita spesa nella burocrazia, tra appalti, bilanci e conti da quadrare, in una routine prosaica e spesso amara, che non poteva certo appagare uno spirito inquieto e appassionato qual è quello del Nostro. La poesia si è presentata come valvola di scarico, come strumento di salvezza, capace di far quadrare i conti e positivizzare il bilancio di un'esistenza altrimenti destinata allo scacco(20).
Nel 1953 apparvero i primi versi in una raccoltina stampata presso la tipografia Scorrano di Lecce, in cui già il titolo, La focara, misura l'adesione troppo stretta al folclore locale(21). Ritmi facili, rime tradizionali, lingua immediata, temi vagamente moralistici non esorbitano da tanta produzione in vernacolo ancorata a un bonario municipalismo. Tuttavia s'individua un conato lirico sincero, subito bruciato o nel tono troppo basso di una ingenua semplicità o in quello alto e reboante di bolsa retorica:

Russìscenu lu cielu ste fascidhe... te piacenu, la focara sta spampa, / te sta lùcenu l'uecchi comu stidhe, / tieni la facce russa comu n'ampa (Stanno incendiando il cielo le faville... ti piacciono, "la focara" divampa, ti luccicano gli occhi come stelle, il tuo viso s'arrossa come fiamma), 4 (22).

Dopo oltre un ventennio di silenzio esce nel '76 la seconda raccolta, Marisci senza sole (Meriggi senza sole), editrice Salentina, Galatina, in cui la vena poetica appare irrobustita, per dilatazione di quel grumo lirico che ora organizza l'intero libro. Vigorosi si aprono alcuni squarci d'apertura in cui la natura ha respiro umano e storico:

Quandu la luna mer'a Leveranu / surge russigna comu na brascèra / [ ... ] Ndora lu mare e cunta a menza uce / storie de turchi enùti de l'uriente / ca quai scendìanu a branchi comu lupi (Quando la luna verso Leverano / sorge rossastra come un gran braciere [ ... ] / Odora il mare, racconta sottovoce / storie di turchi venuti dall'oriente / che qui scendèano a branchi come lupi), Notturno a Torre Lapillo, 79; Sutta punente / lu sule strazza zìnzuli de 'mmace / ssuppànduli de russu e lentamente / se stèmpira intra mare / mbriacandulu de luce (Verso ponente / sfilaccia il sole fiocchi di bambagia, / li inzuppa di rosso e lentamente / si stempera nel mare / ubriacandolo di luce), Misa de sule, 93.

Anche l'elaborazione formale ha superato le facili movenze dei ritmi folclorici e si struttura intorno a arcate strofiche più ampie e dinamiche, che si vanno liberando dalle strettoie della metrica di scuola. La rima, pur rispettata in larga misura, si spezza a tratti così anche l'endecasillabo, preludendo alle soluzioni libere delle raccolte successive:

Nui simu pentagrammi senza note, / arsisciàti marìsci senza sule, / altari scunsacrati. / Ruimmàmu bile / mmienzu a pasculi e scuerpi ngialinùti, / ne mbiràmu a funtane ca Ilimìccarm / nzidhi de odiu e sangu spulisciàtu... (Noi siamo pentagrammi senza note, / aridi meriggi senza sole, / altari sconsacrati. / Ruminiamo bile / fra pascoli e rovi ingialliti, / ci abbeveriamo a fontane donde scolano / gocce di odio e sangue marcio), Nui simu.... 59;

qui dopo il primo distico disteso in un ritmo classicamente pausato stride l'andamento dei versi successivi tendenti a un espressivismo dissonante, ma risolti in forme prosastiche. C'è insomma la ricchezza di un pathos lirico profondo e sincero che sta per esplodere, ma intanto è alla ricerca di proprie forme e strumenti non ancora posseduti. Così accade che un'autentica tensione etico-civile si esaurisca in ambiti troppo legati alla cronaca (Requiem per un bandito tredicenne, Tel-el-Zatar, Brindisi a Capodanno) o approdi a un tono di astratto moralismo (Lettera di un embrione alla mamma, Viva lu sessu!). Sul piano linguistico l'itinerario compositivo si svolge nella direzione novecentesca che va dai moduli vernacolari della tradizione parlata verso la sperimentazione di soluzioni più complesse, consapevoli dei modelli dotti e letterari. Se quindi s'incontrano luoghi già vigorosi e ricchi di vibrazioni foniche, quasi sempre negli attacchi, che nella poesia del Caputo sono i momenti più alti (i già citati Notturno a Torre Lapillo e Misa de sule), pure si evidenziano spesso incertezze e cadute, come nell'uso del dialetto gravato da inserti in lingua (meno abbondanti che nella Focara), che creano attrito fra i due codici. Altre volte si avverte una suggestione diretta dei modelli letterari, per esempio in Quandu, dove è scoperta la frantumazione del verso alla maniera ungarettiana.
Vero è che la poesia di Caputo nasce da una naturale vocazione al canto, ma si elabora attraverso un itinerario lungo e faticoso sia di approfondimento e scavo interiore sia di affinamento di tecniche e moduli musicalverbali, di pari passo alla formazione letteraria dell'autore che si viene svolgendo nei generi e nelle aree più varie, ma soprattutto nella poesia, la grande poesia classica e novecentesca europea, romantico-simbolista dei maestri Baudelaire, Rimbaud, Verlaine, Machado, Neruda, Lorca, Bodini.... e il più amato Ungaretti. L'assunzione della matrice salentina in un primo momento naturale e immediata si fa piena adesione a un retaggio linguistico sentito come radice culturale e categoria dello spirito risolvendosi in vigorosa tensione morale e intellettuale, in profonda ansia di giustizia consapevole del male del mondo, in appassionata denuncia di un'esistenza di sopraffazioni e di rinunce, che è dell'uomo poeta e di tutto un popolo.
Nasce così nel 1980 la terza raccolta, La Chesùra, di fatto la prima stagione di una maturità poetica, che bruciato ogni vincolo provinciale partecipa a pieno titolo degli orientamenti sperimentali e dotti della versificazione dialettale novecentesca. Già De Donno in un'acuta prefazione al volume evidenzia l'approfondirsi e il problematizzarsi dell'universo poetico caputiano, cresciuto intorno al nucleo etico-civile, che coagula sia la vena lirico-elegiaca originaria sia una nascente pensosità religiosa. Lo stesso titolo della raccolta, il campo chiuso, allude a una condizione di chiusura al progresso e alla storia, a una sorta di condanna, di fronte alla quale si leva la protesta del poeta, la sua speranza di riscatto, l'accorato amore per la sua gente. Non è un caso che tematica privilegiata nella Chesùra sia l'emigrazione, dramma sofferto ambivalente fra il desiderio di una prossima conquistata emancipazione e il lamento nostalgico del salentino sradicato:

Terra arsisciàta, chiatta, de tustìna, / richiamu de tiempi luntani / scarci de pane, strutti de fatìa, / terra odiata e bramata, presciàta e jastimàta, / terra de l'anima mia [ ... ] T'àggiu lassata / e mò me sentu sulu, spalisciàtu [ ... ] T'àggiu lassata... (Terra arida, piatta, rocciosa, richiamo di tempi lontani scarsi di pane, consunti di fatica, terra odiata e bramata, vezzeggiata e bestemmiata, terra dell'anima mia [ ... ] T'ho abbandonata ed ora mi sento solo, smarrito [ ... ] T'ho abbandonata ... ), Nostalgia d'emigrante, 35; àggiu turnare, àggiu turnare a casa / m'àggiu straccàtu de zzingarisciàre / cu stendu manu e bau ccugghièndu jèntu (Ritornerò, ritornerò a casa, sono stanco di vagabondare, di stendere la mano e raccogliere vento), Spettame, 36;

e ancora in Lu state nesciu, Ritornu allu paìse, Le fière, ritornano gli accenti laceranti di un'esperienza storica risentita e sofferta sulla propria vicenda biografica (il Caputo visse per un decennio lontano dal Salento per ragioni di lavoro) e pertanto assunta come paradigmatica dell'intero dramma del contadino-poeta-lavoratore salentino e meridionale tout-court. La protesta civile caputiana, fuori da ogni pericolo prosastico o neorealistico, viene a ricongiungersi alla linea resistenziale dei poeti meridionali Quasimodo, Bodini, Scotellaro, dei dialettali Pierro, De Donno, Gatti i quali si sono fatti interpreti, vittime essi stessi, dell'anonimo ma non meno sublime martirio cristiano-popolare, consumato nel silenzio di una storia ostile. Il dramma storico e privato di pena e resistenza, di croce e redenzione, di muta sofferenza e violenta protesta si proietta nella passione contrastata per la propria terra, radice archetipica del lare domestico e della ribellioneallontanamento del nuovo-antico figliol prodigo:

Sta terra de stracchi silenzi / de suènni prufùnni / ca nu còniuga verbi allu futuru [ ... ] sta terra mazza, avara de spiranze [ ... ] sta terra scarfisciàta ddu nfannìscia / lu faùgnu lippùsu [ ... ] sta terra ddu le fabbriche se chiùdenu [ ... ] sta terra ca nu rusce e ca nu musce [ ... ] sta terra toa e mia, / stu ìzziu ca ne strùsce de la nascita (Questa terra di stanchi silenzi di sonni profondi che non coniuga verbi al futuro [ ... ] questa terra magra, avara di speranze [ ... ] questa terra calda dove affanna il favonio viscido questa terra dove le fabbriche chiudono [ ... ] questa terra che non sa protestare questa terra tua e mia, questo vizio che ci strugge dalla nascita), Sta terra, 42-3.

Appare chiaro come il tema polemico-civile si leghi a quello lirico-paesistico e a ogni altro in una unità inscindibile, come già rilevato in De Donno, in quanto si tratta dello stesso rapporto intenso e "maledetto" tra il poeta e la sua terra, che è insieme storia politica e civile, natura, comunanza di affetti, spazio larico-materno di vita minima, canto d'amore, meditazione religiosa. Il Il cuore" del poeta attraversa ogni investimento facendosi palpito commosso, intima pietà nella rappresentazione della natura salentina:

e li zampilli suntu curteddate / ca squàrtanu lu core a branu a branu (ed i zampilli sono coltellate che lacerano il cuore a brano a brano), 55; Tintu de luna / scula lu remu làcreme d'argentu (Tinto di luna il remo scola lacrime d'argento), 56; scorsa de core ntartarùta d'anni (guscio di cuore intartarito d'anni), 65; ingenui endecasillabi d'amore [ ... ] Lu sule [ ... ] se svena, 67-8.

Sentimento privilegiato è, com'è ovvio, anche in accordo alla natura elegiaca della- vena caputiana, la "tristizia" (tristezza), quale si compone dall'urlo agonico preverbale modulandosi sui ritmi ampi e lenti scanditi dal silenzio-solitudine. E' insito in questo tipo di poesia il pericolo di un eccesso di "amore":

Lu lamièntu sulàgnu / [ ... ] parole [ ... ] scàje de tulore [ ... ] stu mundu acànte, curmu de tristizia (il lamento solitario... parole... scaglie di dolore... questo mondo vuoto, colmo di cattiveria), 54; Na macina sprantùma la spiranza [ ... ] malesciàna / cerne (Una macina frantuma la speranza... tristezza cerne), 59; stu scuru ca me nfoca de silenziu (questo buio che mi soffoca di silenzio), 60; sta ncùdine de core [ ... ] è malesciàna o pàrpitu d'amore (incudine del cuore amarezza o palpito d'amore), 61-2; Stu silenziu venàtu de mascìa (Questo silenzio venato di magia), 73.

La dimora vitale caputiana è in larga misura quella elegiaca di ampi spazi marini, di aride scogliere, di "mattutine biancate senza jèntu", di bodiniani "cieli incatramati", lune "cu nu sciallu de nùule velate", ma èanche quella umana e cordiale di un orizzonte consueto di case, orti, chiese, presenze umili della realtà domestica, voci familiari di "amici, iecìni (vicini), parienti, mamma, abitudini arcaiche di "tuaja jànca (tovaglia bianca) de la festa, piatti de pizzarieddi / culla recòtta scante e le purpètte" (23). "curmi de mièru russu", "fresèdda d'uèrgiu 'ncapunàta" (frisa d'orzo col pomodoro), sapori e echi di una civiltà sepolta grave di stenti e di sofferenze, eppure risonante di rapide "risate". Il tutto è demonicamente rivissuto e riscattato dalla forza salvifica della parola poetica che affiorando da ''lu dialettu de li nanni mei", da "le parole mare" ha trovato quel "ritu de raggia o de tulore... malesciàna o parpitu d'amore" (grido di rabbia o di dolore... amarezza o palpito d'amore) capace di redimere coll'avventura privata del poeta quella corale e storica di tutto il suo popolo:

Stu jèrsu me pareggia lu passivu / e quàdru lu bilanciu / e vivu. / Vivu? (Questo verso mi pareggia il passivo e quadro il bilancio e vivo. Vivo?), Lu bilanciu, 62.

Il grido a forza di tendersi e di intensificarsi sulla radice di amore-dolore si fa interrogativo perplesso, sete di giustizia-verità, preghiera di salvezza trepidante d'attesa, parola-sangue che speri~ menta su "stu zìnzulu de carne" il conto aperto con l'assoluto:

Stu zìnzulu de carne / ca ncoste a Tie se torce sulla cruce / mpastisciàtu de dubbi, / jerminùsu de izzi (Questo brandello di carne che accanto a Te si torce sulla croce impastato di dubbi, verminoso di vizi), Bolladrone, 64; Aprime Signore na fenèscia [ ... ] Tintu de sule stièndime nu ponte / subbra st'abissu de sulitudine / ddu l'onestà se paga culle làcreme / e nun c'ete pietà pe cinca cade (Aprimi Signore una finestra... Tinto di sole stendimi un ponte su quest'abisso di solitudine dove l'onestà si paga con le lacrime e non c'è pietà per chi cade), Aprime, Signore, 82.

Il sentimento religioso permea l'opera del Caputo fin dalle prime prove, ora identificato nella parola-pathos e quindi implicito e sotterraneo ora fattosi canto autonomo di umana pietà. Già nella raccolta Marisci il Pater Noster coagulava nel rifacimento della popolare preghiera liturgica la parola orante del poeta testimone-interprete della dannazione e miserie minime quotidiane. Passando alla Chesùra l'itinerario religioso del Caputo si è approfondito e problematizzato di pari passo a quello lirico-formale, come ha rilevato De Donno nella citata introduzione. Il componimento Aprime, Signore, che è preghiera tutta intimizzata eli profonda pietà francescana, chiude La Chesùra e dà titolo (ivi confluendo) alla successiva raccolta interamente consumata nell'interrogativo religioso (Aprime, Signore, Lacaita, Manduria, '91, dove i componimenti senza titolo sono indicati in successione numerica) a testimonianza di una continuità fedele al proprio pathos originario, senza salti o diversioni. Al fondo sta la sostanza umana popolare di intima pietà cristiana di una meditazione religiosa che si fa carico delle piaghe del mondo. il poeta chiuso nel suo "dolore arso deserto" riascolta e sperimenta sanguinosamente il dramma dell'uomo in bilico tra la "cupa fatia" di una condizione ingrata e una "scarda de speranza", un desiderio d'innocenza liberatoria:

Sbatti lu màgghiu susu sta verzella, / chìcala a ppunta, tuèrcila, scrafàzzala [ ... ] na fascìdda d'amore, / na scarda de spiranza, / nu filu de lamièntu ca me manchi. / Mpùzzame fermu, / nu me lassare 'nbìlicu / subbra sta ncùdine (Sbattilo il maglio su questa vergella, piegala in punta, torcila, schiacciala [ ... ] una scintilla d'amore, / una scheggia di speranza, / un filo di lamento che mi manchi. / Stringimi forte, non lasciarmi in bilico sii questa incudine), XVIII, 51.

Qui veramente Caputo bruciando ogni rischio di una religiosità quietisticamente appagata, come poteva leggersi nei Marisci, partecipa a pieno titolo nella linea dei poeti mistici del Novecento italiano Rebora, Onofri, Corni, Fallacara, Pierri, Ungaretti degli Inni e europeo, soprattutto ispanico Unamuno, D. Alonso, Blas de Otero (24), tutti entrati nelle più intime fibre del Nostro, il quale viene a recuperare la tradizione mistica dei grandi scrittori dell'antichità, da Pascal a S. Teresa, da Giovanni della Croce a Jacopone e S. Agostino, maestro quest'ultimo di ogni esperienza umana e letteraria dell'anima fragile e nuda di fronte all'Assoluto. illuminante a questo riguardo il saggio prefatorio di D. Valli.
Rispetto alla raccolta precedente i dati della realtà esterna spariscono o meglio si riassorbono interiorizzati nell'esperienza solitaria del poeta che si dibatte nel buio del peccato, nello spasimo della "carne", nel dubbio dell'assenza ma non smette di tendere alla luce, di credere nella salvezza dell'anima fattasi Verbo:

Ave parola ca cu l'ala janca / n'àngilu te fiatàu suàli-suàli [ ... ] ntra st'ura mara ca me Ilonga l'umbra / parole de nnucenza / e la pietà m'ha persu; / inta è la carne e acànte de peccatu [ ... ] e sull'anima 'nbìlicu rumàne / la spiranza (Ave parola che con l'ala bianca / un angelo ti soffiò soavemente [ ... ] in quest'ora amara che m'allunga l'ombra / parole d'innocenza / e la pietà m'ha perso; / vinta è la carne e vuota di peccato [ ... ] e sull'anima in bilico rimane / la speranza), XLVII, 91.

L'avventura sanguinante del peccato trasforma l'urlo in "parola", il pathos in canto biblico-dantesco, capace di farsi voce straziata della carne sofferente, modulandosi sul tono alto del barocco intorno a forti masse sonore e scultoree, a gruppi fonico-timbrici aspri (XIV, XVIII, XXXIV ... ), oppure dove il vuoto si riempie di Dio la parola vive nel circuito della pietà-amore-speranza, disponendosi sul piano ritmico-sintagmatico nella misura lenta e pausata di tempi lunghissimi, scanditi dal "silenzio" parola chiave di meditata concentrazione e di dolente attesa:

Silenziu, me parli 'n silenziu, / te sentu 'n silenziu. Babbàtu [ ... ] Silenziu, sentèndute preu, / priandu me mparu cu preu: / - Amore - fiatatu 'n silenziu, / ce àutru, ce pozzu cchiù dire? / Silenziu (Silenzio, mi parli in silenzio, / ti sento in silenzio. Incantato [ ... ] Silenzio, ascoltandoti prego, / pregando imparo a pregare: - Amore - fiatato in silenzio / che altro, che posso più dire? Silenzio), 11, 34.

L'espressione si fa densa e profondissima, coagulandosi intorno a nuclei semici scavati negli archetipi della cultura contadina nostrana e restituiti al giusto ruolo di "a priori" dell'umanità:

Diu, tata, omu, fiatu, pane, core, nnucenza, cruce....

perché l'esperienza religiosa dei Caputo se per un-verso si innesta nella tradizione mistica dell'uomo-poeta alla ricerca solitaria di Dio, per un altro verso ha una radice umana-popolare, un carattere corale e cordiale, che ricorda gli Inni Sacri. Il Dio di Caputo è anche quello manzoniano degli umili che condanna e salva, che ha destinato l'uomo al sacrificio del lavoro, alla miseria del pane quotidiano, alla "croce" della "carne", a "nu chiantu lengu", ma che salva e fa sperare, "Diu de perdunu", presenza confidenziale che accoglie il grido del poeta come quello del bambino al padre:

Te chiamu tata, / parola ca sape / de pane scanatu de mane de mama [ ... ] Te chiamu tata [ ... ] Te chiamu tata, / sì vita vivente / ca inci la morte ca more cu Tie (Ti chiamo tata, parola che sa / di pane impastato da mani di mamma [ ... ] Ti chiamo tata [ ... ] Ti chiamo tata, / sei vita vivente / che vinci la morte che muore con Te), 111, 35.

Accanto al poeta in questa sua meditazione interiore non è rimasta che la natura, tutta risolta in accordi di voci, echi, sensazioni, anch'essa interiorizzata e fusa con l'anima del poeta, donde una fitta presenza di sinestesie, anafore, allitterazioni e serie fonosimboliche:

Citta era l'aria, fridda la muttùra / ncipriàva le stidde ncafurchiàte / intr'alla conca niura de la notte (Zitta era l'aria, fredda la brina / incipriava le stelle incastrate / nella conca fredda della notte), I, 33; ... fallu na vela janca / ca 'll'ura nona / quandu la notte niura niura scinde / salpa cu Tie su nu mare de luce (fallo una vela bianca / che all'ora nona / quando la notte nera nera scende salpi con Te verso un mare di luce), XXXIV, 73;

e l'esemplificazione può andare ben oltre. Il simbolismo di Caputo è di tipo orfico e ungarettiano, molto diverso da quello di De Donno, dove la plurivocità di senso affiora attraverso uno scandaglio in verticale, perseguito in un attaccamento ostinato e a volte scontroso all'oggetto, scarnificato fino alle minime scaglie del reale. In Caputo, come anche in Gatti, il simbolo nasce per dilatazione e dissoluzione del dato reale, che attraverso la lente della memoria si alleggerisce dal peso della cronaca e vive eterno. Ciò certamente nei momenti di elezione laddove il poeta riesca a superare il doppio pericolo consistente da una parte in una foga traboccante della sostanza umana non risolta in parola e dall'altra in una stilizzazione compiaciuta di modelli letterari troppo diretti, come la suggestione ungarettiana risentita in certe movenze e immagini, fino alla stessa struttura-frammento di alcuni pezzi, esemplata sull'Allegria. Dove invece è piena la sintesi parola-cosa, il respiro poetico vigoroso e vibrante si distende su uno spessore linguistico di interna complessità letteraria, mentre il dialetto, duttilissimo impasto arcaico-musicale, ha acquistato un tale vigore evocativo che pare dotato di propria energia tellurica.
Consumata l'esperienza mistica il discorso lirico del Caputo ha guadagnato in fecondità e vigore (numerosi sono gli inediti, anche notevoli, tra i quali segnalo 1990, apparso sull'Incantiere, N. 19, sett. '91), svolgendosi dalle premesse della Chesùra in un dilatarsi del canto; mi riferisco non tanto all'ampiezza dei componimenti bensì al respiro poetico che rafforzato dal bagno di sangue compiuto sulla croce può ora recuperare sfere più ampie, da quelle legate all'impegno civile a quelle private dell'elegia, dell'amore, del ripiegamento interiore, ma con un di più di risonanza lirico-umana, mentre la dimora vitale perduto qualsiasi residuo di cronaca è divenuta ormai paese dell'anima. Ne vengono tali caratteri di compattezza e organicità da ipotizzare una terza stagione, ancora in fieri, con tratti propri, che la distinguono in maniera inequivocabile dalle precedenti. Il significante lirico si organizza su ampie arcate ritmico-melodiche in intima adesione a quella lingua arcaico-letteraria che è il dialetto, cui il poeta come alla propria terra ha affidato la sua avventura di salvezza e perdizione.

5. La memoria orfica di P. Gatti
Figura singolare quella eli Pietro Gatti, quasi egli stesso un esemplare del suo mondo poetico, per intima adesione alla sua terra, Ceglie Messapico, dove vive in assorta concentrazione interiore, lontano dai rumori e dibattiti letterari, da dove appare raramente in poche e preziose occasioni, a portare la sua voce umana, bassa e pausata, vibrante e profondissima, remota e fraterna, proprio come la stia poesia, scavata fin alle radici della civiltà protoromanica, eppure densa di echi e suggestioni novecentesche.
Gatti è arrivato tardi alla poesia, già sessantenne, allo sbocco di una carriera accidentata negli studi e nel lavoro. Ha ricoperto un incarico amministrativo nel comune di Ceglie e solo quando era ormai prossimo alla pensione si è deciso a sciogliere quel nodo densissimo di affetti, quella carica di lirismo che si era portato dentro per tutta una vita, soffocati e acuiti da una attività burocratica frustrante. Una situazione molto simile a Caputo, col quale condivide il conato lirico naturale e cordiale.
La lingua scelta da Gatti è il dialetto cegliese, idioma irto e arcaico, chiuso in un'enclave (25), o meglio al discrimine tra diverse aree linguistiche, individuabili la salentina, l'apula e la sannitico-lucana, sicché ha goduto nel tempo di una propria insularità che l'ha preservato da contaminazioni massificanti e imbastardimenti consumistici. Il dialetto cegliese si presentava a Gatti come una scelta naturale o esigenza interiore in quanto voce autentica di una terra umile e diseroica, idioma mitico e corale di lontane CUItUre sommerse, recuperate per una forza di evocazione endogena, che quasi sovrasta il poeta fattosi nuovo antico aedo, com'egli si definisce (26).
Nel '76 usciva una prima raccolta di versi in edizione privata e a numero di copie molto limitato, Nu vecchie diarie d'amore, in occasione delle nozze della figlia e dedicata alla moglie. Sembrava un episodio legato a un evento familiare e in esso risolto. Ma non era così. Da quelle esperienze ancora provvisorie sarebbero sorti di lì a poco, a soli tre anni di distanza, i risultati ben altrimenti vigorosi del volume A terra meje, nelle edizioni Schena di Fasano, rapida conquista di una maturità poetica Subito raggiunta e posseduta poi in una fedeltà sostanzialmente intatta, compiuta d'un fiato, quasi per magia la creazione di un universo poetico personale e assoluto. Nel quale vivono le opere successive, nate in un breve arco di tempo, per proliferazione da un nucleo poematico coerente e immoto: nel 1982 Memorie d'ajere i dde josce, Capone editore e nel 1984 'Nguna vite presso Schena.
La raccolta A terra meje può quindi essere assunta come esemplare e paradigmatica dell'intera produzione gattiana. Già il titolo coagula il mito centrale, archetipico della Madre-Terra nel suo legame sanguigno con il proprio figlio, da cui è irradiato il circuito di affettività e tenerezza sugli investimenti fantastici creaturali densi di innocenza e bontà. A apertura di volume è un'ampia prefazione dell'autore(27), vera e propria dichiarazione di poetica sia sul versante della scelta linguistica che del proprio mondo interiore, presentandosi il poeta nelle vesti del cantore primitivo, voce anonima e popolare. Il che èvero solo nel conato lirico potenziale per adesione intima alle ragioni storiche e spirituali del suo popolo, non però sul piano della realizzazione poetica, che è letteratissima. Il dialetto di Gatti è pur esso il riflesso di una sperimentazione linguistica colta che immette sul tessuto vernacolare neologismi e voci dotte in funzione espressiva e poetica, operazione comune alla migliore poesia dialettale contemporanea, come ho già chiarito(28).
La singolarità di A terra meje s'impose subito all'attenzione della critica, già al momento della pubblicazione, e nel 1980 un poderoso saggio di M. Marti ne fissava l'acquisizione alla grande poesia dialettale e novecentesca tout-court (29)..
La sostanza della poesia gattiana è orfica, di un orfismo primitivo e autogeno ma anche letterario secondo la linea Pascoli-Onofri-Campana-Gatto per risentimento sul filo della memoria delle antiche origini contadine fino all'attingimento di un'ancestrale civiltà terragna, preromanica, pregreca, forse messapica o sannitica, indefinita, perciò magica e densamente misteriosa, la grande Madre-Terra, "buona" e pietosa, ma anche avara con i propri figli, "toste i sdeggnose sole de cuere" (dura e sgradevole solo nella spessa pelle), sedimentata nel pianto e nel lavoro ingrato di millenaria miseria. 1 riscontri nel testo sono fruibilissimi, basta la lirica A terra meje, programmatica in apertura, lo stesso titolo della raccolta:

A terra mea bbone, / come se disce a Ile muerte de case, / c'angore vìvene atturne [ ... ] A terra meje, / cu ttanda recuerde d'u tiembe lundane assé [ ... ]. A terra meje, asccuate cu rragge dô sole, / cu ll'arsure andiche, [ ... ] A terra meje, totte nu culore de sanghe seccate da sembe [ ... ] A terra mea bbone [ ... ] A terra mea bbone [ ... ] A terra meje, toste i sdeggnose sole de cuere, / ggelose de chjange [ ... ] A terra mea vere, a terra jaspra meje (La terra mia buona, come si dice ai morti di casa, che ancora vivono attorno [ ... ] La terra mia con tanti ricordi del tempo molto lontano [ ... ] La terra mia, bruciata con rabbia dal sole, con l'arsura antica [ ... ] La terra mia, tutta un colore del sangue rappreso / da sempre [ ... ] La terra mia buona [ ... ] La terra mia buona... La terra mia, dura e sgradevole solo nella spessa pelle, schiva di piangere [ ... ] La terra mia vera, la terra aspra mia), 19-23.

L'accorata, assorta invocazione alla propria terra è assunta subito come ricerca delle "radici" di un universo umiliato da una storia plurisecolare di sopraffazioni e di stenti. "Rape" (radice) è parola chiave fittamente ricorrente potenziata o variata nell'affine "ambunne" (profondo):

le rape forte i ambunne (le radici tenaci e profonde) TM, 19; rape / ca vone ambunne (radici che vanno profonde) TM, 29; a 'm bunne (nel profondo) TM, 64; come a Ile rape sottaterre (come le radici sotterra) TM, 89-1 ind'a Ile rape, / jind'a ll'esche cchjù ambunne, jind'ô scure [ ... ] addò na rape (nelle radici, nell'esca più profonda, nel buio... dove una radice) M, 16.

La denuncia di Gatti è tanto più vigorosa e potente in quanto lontana da ogni polemica gridata, sedimentata nella muta pena di un popolo fattosi unica voce nella parola sommessa della poesia. Il legame del poeta alla sua terra è lo stesso rapporto viscerale di odio-amore di De Donno, di Caputo, dei poeti meridionali `maledetti" Bodini, Pagano, Corni, Sinisgalli, Pierri.... che è quello di ogni figlio a una Madre generosa e tiranna. Così nel finale di A terra meje:

a terra c'u corti mije agghjuse, / udiate cu ttuttu u bbene de totta l'aneme, / u sangu mije amunne. / Ca riumésce amarore de fele, / ca nange jave forze manghe jasce cu ccange, / angandate jind'a morte de ggne ggiurne [ ... ] (la terra del cuore mio rinchiuso, odiata con tutto l'amore di tutta l'anima, il sangue mio profondo. Che rumina amarezza di fiele, che non ha forza neppure per mutar giacitura, attonita nella morte di ogni giorno);

e ancora nella Nota introduttiva:

Oppure un cantastorie d'altro tempo, se altri creda o voglia concedere, traboccante del mio amore/odio di lei, 9.

Sicché l'archetipo Terra-Madre è sempre ambivalente tra positivo e negativo, legandosi da una parte a vita-pane-cuore-poesia, dall'altra divenuto fantasma minaccioso di notte-croce-sangue-morte. Dove viva nel circuito di bontà e innocenza la parola si modula nei toni ovattati e lentissimi de "nu fatte d'u tiembe lundane" (una favola del tempo lontano) sussurrata dall'infante-poeta rispettoso del "sulenzie d'a terre i dde l'arie". Il dialetto cegliese fornisce i modi di una musicalità piana e cantilenata:

a terre apparate dòscia dosce / com'a nna mandescedde sobbe a nache (la terra appianata dolcemente come una copertella sulla culla), TM, 64; U sulenzie d'a terre i dde l'arie / resperésce ind'a pasce, surene: suspire / de peccinne addurmessciute (Il silenzio della terra e dell'aria respira nella pace, sereno: sospiro di bambino che dorma), TM, 68-71; sarà u penzieru bbuene d'a stanghezze / de n'atu cré, nu stennecchjà surene / de tott'a terre sotte a sta steddate (forse il pensiero buono della stanchezza d'un altro domani, un distendersi sereno di tutta la terra sotto questo stellato), M, 62-65.

L'universo poetico di Gatti respira in un'aura magica sospesa tra un tono cordiale di lontani rapporti amicali e l'improvviso balenare di un'ombra incombente e lacerante. E' la presenza minacciosa del Male incarnato nel destino avverso di fame e di morte, archetipo maschile dell'assoluto negativo, comune d'altronde a tutta la cultura primordiale e arcaica, fino alle lontane origini animiche, cui la poesia gattiana partecipa nel pathos di fondo. Elementarizzato allo stato psichico puro il Male-Morte si scandisce sulle variazioni del pianto/silenzio:

a maledizzione [ ... ] na pavure de fame [ ... ] affanne i ssuspire i jasteme [ ... ] Me rezzechésce u sanghe [ ... ] na pavura de morte dòscia dosce [ ... ] mi ssegghjutte [ ... ] nnu suennu ocupuse [ ... ] u sulenzie me pigghje [ ... ] Nu bbrìvete me rezzechesce l'àneme [ ... ] chjande / senza grame i ssegghjutte, tuttu làcreme (la maledizione [ ... ] una paura di fame [ ... ] affanni e sospiri e bestemmie [ ... ] Mi brividisce il sangue [ ... ] uno sgomento di morte dolcissimo [ ... ] un singhiozzo [ ... ] un sonno d'incubo [ ... ] il silenzio mi prende [ ... ] Un brivido mi raggriccia l'anima [ ... ] pianto senza strilli e singhiozzi, tutto lacrime)...;

più spesso ricorre variamente investito in valenze metaforiche o prefigurato in rappresentazioni oggettive, comunque iscritto in uno spessore visionario e allucinatorio che qualifica tutto il mondo poetico del Nostro, volto a materializzare lo psichico, il misterico, l'indicibile come in ogni cultura orfico-escatologica primitiva e novecentesca:

Nu, demònie d'a strate (Noi demoni della strada) TM, 34; Ma po a ll'andrasatte da sobbe u specchjone, / u jùcchele a rragge / de na cuccuvasce (Ma poi all'improvviso dallo specchione lo strido di rabbia di una civetta) TM, 70; ô scure ambunne [ ... ] cudu sangu vivu vive ca scole (Nel buio profondo... quel sangue vivo vivo che cola) M, 83; cudu tapunaronu velenuse [ ... ] dô funne d'ti 'mbierne (quel talpone velenoso... dal fondo dell'inferno) M, 84 ...

oltre i vari "demoni" o accidenti funesti responsabili della morte violenta in ogni componimento di 'Nguna vite, di cui si parlerà avanti. 1 nuclei affettivi originari sono quindi oggettivati in un mondo affollatissimo di infinite presenze minime (pur evitato ogni pericolo di descrittivismo), che s'iscrivono in uno spazio larico-animico trepidante e delicatissimo:

caseddozza (trullo), pane, pegnatte de fafe (pignatta di fave), a luscemedde (la lucciola), cagnule (cagnolino), a fonde (la conchetta), zappe (zappa), cungime (concime), rasole (raschietto), nache (culla), ffrafalle (farfalle)...

sono piccoli oggetti quotidiani, rudimentali strumenti da lavoro, umili prodotti della terra, piante, animali, tutti vibranti di un'anima, come le stesse figure umane, poveri cristi ischeletriti nella fatica, vivi e morti, ugualmente crucifissi, vecchi e giovanetti, tanti, infanti-fanciulli in cui il poeta proietta se stesso e le molteplici possibilità di vita attingibile. Ne risulta un quadro magico-espressionista, dove i parametri di prospettiva reale sono stravolti dalla memoria allucinata che dilata nel suo obiettivo deformante eventi e figure, spesso minime o irrilevanti, recuperate nel loro valore archetipico e assoluto e perciò caricate di una valenza simbolica plurisemica, su rimandi di echi e voci profondissime. Il campo semantico di "mascìe" (magia) è denso e affollatissimo in tutta l'opera:

I ji m'angande (E io m'incanto) ... angandate (trasognato) ... suenne (sogno) ... mascìe ... me rezzechésce u sanghe (mi brividisce il sangue)... na pavure de morte dòscia dosce (uno sgomento di morte dolcissimo)... a ccussu 'ngande, / a qquessa paccìa nove (a questo incantesimo, a questa follia nuova) ... ll'àneme angandate (l'anima incantata) ... nu 'nganne (un inganno)... fandasìje (fantasticherie)...

E' evidente in Gatti la grande lezione del Pascoli sia nel tessuto psichico profondo di immersione-regressione nel fondo buono della sostanza materna, sia nella predilezione di un livello fonico della materia verbale pura, semantizzato il significante come nella grande poesia novecentesca. Le suggestioni pascoliane sono innestate sugli echi delle grandi correnti contemporanee, dall'orfismo già evidenziato a un profondo panismo sensuale di tipo pasoliniano, dal demonismo della linea Palazzeschi-Campana-Montale al surrealismo e versante onirico-visionario come in Vittorio Bodini e Alfonso Gatto, risentiti attraverso la categoria del barocco ispanico-salentino comune ai nostri poeti conterranei, compresi i dialettali.
E' una poesia ricca di cultura, robusta di dottrina, anche classica e romanza, come appare anche sul versante metrico, ancora non del tutto esplorato, in cui affiorano movenze provenzali e trecentesche. Cultura e dottrina sono peraltro tutte interne, per risentimento nelle vene più intime, saturate e risolte in un canto primitivo, in una "cadenza di nenia" per usare la parola del poeta, sulla cui esemplarità ha giustamente insistito il Marti.
La seconda raccolta Memorie d'ajere i ddej osce (Memorie di ieri e di oggi) conferma la coerente unità della poesia gattiana fedele alla qualità orfica della memoria - programmatica nel titolo - che regola anzi determina ogni rapporto con le cose, essendo il tempo assoluto tra passato e presente, lo spazio ambiguo tra realtà e "magia", la consistenza animica stessa comune a esseri animati e inanimati, la vita sfuggente sul discrimine con la morte. Il discorso lirico si svolge sommesso, teso alle vibrazioni più segrete e profonde che affiorino dal silenzio della terra, intimamente fuso ai valori formali, siano fonosimbolici su cantilenanti accordi di rimandi allusivi, siano morfosintattici in un periodare franto da favola primitiva, siano metrico-ritmici liberamente variati su lasse versali e strofiche di interiore misura. Perciò i componimenti - tutti senza titolo in una continuità ideale da diario intimo - si misurano sul respiro della memoria sicché si concentrano in un'immagine, in un movimento dell'anima, e sono liriche brevi, oppure si distendono nella misura ampia, che talvolta si risolve in canto talaltra ripiega su movenze narrate, tra poesia e frammento, come ha indicato D. Valli (30).
E' nell'ultima raccolta del 1982, 'Nguna vite, che la poesia di Gatti attinge uno spessore di invenzione fantastica e di espressione lirica, risolta quella tendenza a narrare in sintesi di vibrante pathos, in cui si oggettiva il magma psichico e larico. Si tratta di una corona di trentacinque microstorie, com'ha giustamente detto Chiappini (31) che colgono il momento lacerante del trapasso dalla vita alla morte di altrettanti bambini strappati con prematura violenza alla terra buona e al loro sano desiderio di una vita gioiosa. Il titolo della raccolta 'Nguna vite (Qualche vita) allude alla rappresentazione, coagulatasi quasi per forza endogena tramite il poeta-medium, di alcune labilissime figure di infanti che raccontano dall'aldilà il proprio dramma. Il racconto tenero e drammatico si svolge per passaggi ellittici e analogici, rapidissimo, in un'aura magica e minacciosa, concentrandosi sull'evento minimo responsabile della sciagura: lo sfortunato incontro con un caprone, il volo nella cisterna dell'ancora-non-nato nel grembo della propria madre, la caduta a precipizio su un pruno:

Ma doppe na sumane, manghe, murive a Ila vere: / u magghjatu cchjù ggranne quand'a nnu demònie / me pegghjò ô stritte a 'n guerpe ô parete d'a corte (Ma dopo una settimana, nemmeno, morii veramente: il caprone più grosso quanto un demonio mi prese allo stretto contro il muro dell'ovile), 25; Uéh, ma'! tu, l'ata sere, te scettaste / jind'â cesterne, jind'â acquare ambunne / i ggnure com'â morte [ ... ] Nu vole ô'mbièrne [ ... ] riti jùcchele [ ... ] I ll'acque t'acciaffò cu mmila sanne (Ah, mamma! tu, l'altra sera, ti buttasti nella cisterna, nell'acquaro profondo e nero come la morte [ ... ] Un volo all'inferno [ ... ] un urlo [ ... ] E l'acqua ti afferrò con mille zanne), 44; I josce fasce uette... / queda fùrie de sole! a 'n gime â specchje, / a vrettìscene. Nange me sendive / niende (E oggi fa otto... Quella furia di sole! sulla cima della specchia, la vertigine. Non mi sentii niente), 87.

Quell'evento appare casuale e necessario insieme, in quanto da una parte interrompe bruscamente il circuito di tenerezza-innocenza propria dello spazio creaturale-materno, dall'altra si presenta come segno inequivocabile del Male, di quella forza demoniaca che provoca la morte del fanciullo innocente (tutte le storie compendiano la stessa vicenda in quanto emblematica del fanciullo-poeta). Esemplare incarnazione del demoniaco è il caprone del componimento citato "u magghiatu... nu demonie", dove il suono chiuso e profondo della u, terminazione rara nel dialetto cegliese e l'insistenza di nessi consonantici cupi e dissonanti creano un senso fisico di soffocamento a materializzare l'imminenza della morte:

u magghjatu [ ... ] quide corne c'a fforze vulé ttrasèvene a 'm biette / me vulé scavurtàvene me vulé sgrafaggnàvene l'àneme (il caprone [ ... ] quelle corna che a forza volevano entrare nel petto mi volevano vuotare dentro volevano schiacciarmi l'anima), 25.

Ma quella morte violenta rappresenta il bagno di sangue liberatorio che consente la rinascita, saldati positivo e negativo, bene e male, vita e morte. Compiuto il sacrificio si ripristina lo spazio larico-materno di tenerezza e cordialità, rinvigorita la tensione panico-sensuale fin nei recessi della non-vita:

Uéh ma', ma', ma'! / statte secure, nange m'a pegghjeve cu tte, i mmanghe cû tate. / Cu nnessciune. Cu cci?!... Pure ca tu, ma', nang'ire parrate (Oh madre, madre, madre! sta sicura, non me la presi con te, e neppure con tata. Con nessuno. Con chi?!... Anche se tu, ma, non avevi parlato), ivi.

Non a caso il fanciullo defunto si comporta nell'aldilà come in vita, parla e sente come da vivo perché la morte èrecuperata alla vita e così riscattata. Spazio simbolico sul limite tra vita e morte è il pozzo d'acqua, o cisterna, o acquaio, o altro di simile, immagine ricorrente sotto varie specie, come nel poemetto Uéh, ma'!..., in cui il volo a precipizio della madre col nascituro in grembo nell'acqua buia è esemplare dell'itinerario salvifico di morte e rigenerazione nelle fibre della terra. Attraverso la poesia quindi la morte è vinta e riscattata, così come il destino di dannazione di un popolo o meglio di tutti i popoli contadini sommersi che rivivono nel poeta di Ceglie e nelle sue "criature core bbuene" (32). E in questo senso Gatti è veramente poeta primitivo e antico aedo. D'altra parte la materia orfica sostanzia la poesia del Nostro nelle varie forme e contenuti magico-religiosi di diversa ascendenza (ben al di là di facili echi spoonriveriani), recuperate e fuse le componenti misterico-pitagoriche e biblico-cristiane, rivissute fin nella prova catartica del rituale iniziatico, come appare nel finale di un componimento programmatico di A terra meje, U ddie andic'andiche, che coglie in fieri l'esperienza iniziatica d'identificazione del poeta-dio, con terribile tensione visionaria psichico-espressiva e densa carica simbologica:

Me pare a ssende nu furtoru criuse / de refiate. Me rezzechésce u sanghe, / me 'nghjane a 'n ganne l'aneme, na morse / na pavure de morte dòscia dosce / me strenge u core. Sò nnu puggnusciedde / de niende // I mme iénghje na vrettìscene de vite, / come a nna vole mila mene d'acque. U rùscete anzurdéssce tutt'u munne; / pare ca me strascine i mme travòte / stanghe stunate, com'a ccosa morte. / Ji me lasse me lasse a ccussu 'ngande, / a qquessa paccìa nove. Andic'andiche. (Mi par di sentire un lezzo strano di respiro. Mi brividisce il sangue, mi sale in gola l'anima, una morsa, uno sgomento di morte dolcissimo mi serra il cuore. Sono un pugnello di niente. / E mi empie una vertigine di vita, come una voragine mille torrenti d'acqua. Il rugghio assorda tutto il mondo; pare che mi trascini e mi travolga stanco stordito, come cosa morta. lo m'abbandono m'abbandono a questo incantesimo, a questa follia nuova. Antichissima), 47.

Un Commiato al lettore in fondo a 'Nguna vite, pUr "ultimo" (33) e perentorio, è stato fortunatamente superato dalla forza creatrice della parola poetica (Gatti in questi ultimi tempi ha composto un consistente numero di liriche, anche notevoli, di cui ha fatto omaggio a vari amici), nella quale si identifica il destino di miseria e salvezza del poeta


NOTE
1) Questo intervento è nato come presentazione ai poeti N. G. De Donne, E. G. Caputo, P. Gatti in occasione di tre incontri sulla poesia dialettale salentina tenuti nell'Aula Magna del Liceo scientifico "Banzi Bazoli" di Lecce, aprile-maggio '91.
2) Gli interventi critici sulla letteratura dialettale del '900 sono numerosi, fondamentale tra i tanti il recente poderoso studio di F. BREVINI, Le parole perdute. Dialetti e poesia nel nostro secolo, Einaudi, Torino, '90, cui vanno aggiunti i due volumi degli Atti del Convegno palermitano del 1984, La letteratura dialettale in Italia, a c. di P. MAZZAMUTO, Palermo, '84.
3) L'idea che una radice della letteratura dialettale sia nella rivendicazione delle regionalità di fronte all'accentramento nazionale è già in G. FERRARI, 1852. Contro tale tesi prende posizione B. CROCE, La letteratura dialettale riflessa, la sua origine nel Seicento e il suo ufficio storico, in Uomini e cose della vecchia Italia, Laterza, Bari, '27, serie I, pp. 222-235, per il quale essa è solo un aspetto della letteratura nazionale, ne presuppone l'esistenza e concorre al suo rafforzamento.
4) B. CROCE, Op. cit.
5) B. CROCE, in La letteratura della nuova Italia, vol, VI, Laterza, Bari, '56, pp. 123-130.
6) Poesia dialettale del Novecento, a e, di P. P. PASOLINI e M. DELL'ARCO, Guanda, Parma, '52. L'introduzione è poi confluita in P. P. PASOLINI, Passione e ideologia, Garzanti, Milano, '60. Tra le antologie successive sono da segnalare Le parole di legno. Poesia in dialetto del '900 italiano, a c. di M. CHIESA e G. TESIO, Mondadori, Milano, '84, voll. 2; Poeti dialettali del Novecento, a c. di F. BREVINI, Einaudi, Torino, '87 e la recente Poesia dialettale dal Rinascimento a oggi, a e. di G. SPAGNOLETTI e C. VIVALDI, voll. 2, Garzanti, Milano, '91.
7) M. Corti nell'introduzione a N.G.DONNO, Mumenti e ttrumenti, Lecce, '86,p.6.
8) M. MARTI, Per una linea della lirica dialettale salentina, in Dalla Regione per la Nazione. Analisi di reperti letterari salentini, Morano, Napoli, '87, pp. 383-411.
9) M. MARTI, op. cit., p. 383.
10) P. P. PASOLINI, Poesia dialettale... cit., p. XLVI.
11) G. SPAGNOLETTI, nell'introduzione alla sezione Puglia della Poesia dialettale, cit., vol. II, pp. 1001-1014.
12) "E non si dimentichi quanto sia necessario, perché tali suggestioni possano essere operanti, che la poesia in dialetto si congedi dai dialetti metropolitani, che avevano dominato la prima metà del Novecento, per accostarsi appunto a rustiche parlate periferiche, prive di tradizione letteraria", F. BREVINI, Le parole perdute, cit. p. 202.
13) Del terribile equivoco alimentato dalla propaganda fascista sui giovani ho parlato, a proposito degli intellettuali fiorentini della terza generazione, in La narrativa di Romano Bilenchi, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, Firenze, '77, pp. 11-18.
14) Di questa esperienza resta la raccolta di versi La guerra guerra, in elegante foggia tipografica, con Presentazione di M. MARTI e disegni di N. Sisinni (presentati da D. VALLI), edizioni Schena di Fasano, '87.
15) N. G. DE DONNO, Oppressione e resistenza nei proverbi di lavoro salentini, Messapica editrice, Lecce, '78; Indovinelli erotici salentini, Congedo, Galatina, 1990; Prontuario salentino di proverbi amari aspri maliziosi ironici sarcastici, Congedo, Galatina, 1991. L'attività sulla storia locale è vivace e continua a tutt'oggi a svolgersi parallela a quella poetica. Sulle personali ragioni ideali e ideologiche della scelta del dialetto interessanti note di poetica sono state fornite dal Nostro in Dialetto e Poesia nella Chesùra di E. G. Caputo, studio introduttivo a E. G. CAPUTO, La chesùra, Capone editore, Lecce, '80.
Nelle citazioni dei testi dialettali sono omessi, per ragioni tipografiche, i segni diacritici dei suoni cacuminali.
16) Si ricordino gli interventi più ampi e rilevanti (in ordine cronologico): O. MACRI', N. G. De Donno cantore dei martiri di Otranto, in "L'Albero", XXXI, 63-64, 1980, pp. 233-253; M. MARTI, Un parere sulla poesia in dialetto di N. De Donno, in Dalla regione... op. cit., pp. 373-382; D. VALLI, N. G. De Donno, e la contaminazione dei miti, prefazione a Paese, poi confluita in uno studio più ampio, Introduzione a N. De Donno, in Dialoghetti appulo-lucani, Milella, Lecce, 1986, pp. 133-156; M. CORTI, introduzione a Mumenti e ttrumenti, pp. 9-18; W. DE NUNZIO SCHILARDI, il dialetto, la lingua di N. De Donno, in "Critica letteraria", Napoli 1990, N. 69; infine il recente ampio saggio di A. MANGIONE su Il terzo libro poetico di N. G. De Donno, in Note di storia e cultura salentina, Congedo editore, Galatina, '91, pp. 155-188, che ha il merito di aver dato rilievo alla matrice esistenziale di molta poesia dedonniana.
17) Le citazioni sono sempre accompagnate dalla traduzione come trovasi in calce ai testi.
Le raccolte sono indicate come di seguito, con allato il numero della pagina:
Cronache e Paràbbule CP; Paese P; Mumenti e ttrumenti MT; La guerra guerra GG; La guerra de Utràntu GU.
18) Cfr. M.CORTI, nell'introduzione Mumenti e ttrumenti, p. 17.
19) Cfr. M. Marti, Dalla regione…, cit., pp.376-379.
20) Resta esemplare il componimento La bilancia , in cui si gioca sulla bivocità del termine tra lavoro di contabilità e consuntivo biografico: "Tant'anni de bilanci [ ... ] me fazzu nu bilanciu tuttu miti [ ... ]" in La chesùra, pp. 61-2.
21) La "focara" nel folclore è un enorme falò acceso col concorso di tutto il popolo nella notte del 16 gennaio come propiziazione per l'inverno, poi entrato anche nel rituale cattolico.
22) Nella raccolta i testi mancano di traduzione. Una scelta della Focara, con alcune varianti, è in appendice a Marisci senza sale, da dove riporto la traduzione.
23) La "purpetta" rappresenta nell'immaginario del popolo salentino - abituato a convivere con la fame - l'assoluto, la suprema felicità. Così in De Dominicis il profumo delle "purpette" si rivela da lontano a Pietro Lau vagante nell'aldilà in cerca di sistemazione: "Na ndore te purpette se sentia / ca veramente a nterra te menaa! ...",Canti de l'autra vita, in Poesie, a c. di A. CHIRIZZI, soc. an. Tipografia di Matino, s.d., p. 81.
24) Sugli elementi ispanici del misticismo caputiano acute notazioni sono nella presentazione, ancora inedita, dei prof. G. CHIAPPINI al volume Aprime, Signore, tenutasi a Lecce nella "sala Dante" dell'Istituto tecnico "Costa" il 12 novembre 1990.
25) "la gente cegliese... più che costituire un anello di congiunzione-transizione, anche territoriale, delle due civiltà latamente pugliese e salentina, sia invece un'enclave, una colonia superstite eli taluno dei rudi rustici ceppi delle popolazioni sannitiche, irpine, dell'alta Daunia o lucane", P. Gatti, Note per una grafia del dialetto di Ceglie Messapico, in A terra me p. 6. Le raccolte sono indicate dalle abbreviazioni, come segue: A terra meje TM; Memorie d'ajere i dde josce M; 'Nguna vite, NV
26) "Io non mi considero e non sono e non voglio essere altro che un amanuense, consapevole peraltro della insufficienza interiore d'arte. Oppure un cantastorie d'altro tempo ivi, p. 9. Nell'incontro avuto nel Liceo il poeta ha chiarito che il dialetto coincide con la lingua (lei tempo dell'infanzia, precedente il seminario, in cui si identifica la "parola".
27) Si articola in uno scritto, Note per una grafia.... cit., comprensivo di Note di fonetica e Note di grafia, pp. 5-11, cui fa seguito Al lettore, pp. 13-15.
28) Sull'aspetto linguistico della poesia di Gatti vedi M. D'ELIA, La poesia dialettale di P. Gatti, Galatina, 1973, che è anche il primo studio sul Nostro; e I. TEMPESTA, Sull'uso del dialetto nella produzione poetica di P. Gatti, in "L'Albero", N. 71-72, 1984, pp. 126-155.
29) Al momento della pubblicazione del volume una lettera critica di O. MACRI' in "L'Albero", N. 57, 1977; poi M. MARTI, La poesia di P. Gatti, lettera a Raffaele Spongano per i suoi settantacinque anni,, ora in Dalla regione.. cit., dove è il primo dei tre studi sulla poesia gattiana, cui seguono Conferma di P. Gatti e L'ultimo Gatti: 'Nguna vite, pp. 323-357.
30) D. VALLI, Trittico per P. Gatti: Un poeta e la sua terra; Civiltà antica e sentimento moderno; La morte che vive, in Dialoghetti... op. cit., pp. 95-131.
31) G. CHIAPPINI, "Poesie et charité", la tentazione e il dono del poeta (intorno a 'Nguna vite di P. Gatti), in "L'Albero", N. 71-72, 1984, pp. 79-109,, che si segnala per aver messo in luce la componente del demonismo comune alla poesia europea contemporanea.
32) "A lle, criature core bbuene de tutte le strace de l'annuciende d'u munne" (Alle creature cuori buoni di tutte le stragi degli innocenti del mondo). Così suona l'epigrafe a Nguna vite, in cui si chiarisce il recupero di una dimensione biblica innestata sull'orfismo, comune alla linea dei poeti "maledetti" o "di morte" cui Gatti dedica le Memorie d'ajere i dde josce.
33) "Alle storie del '75-'79.... non seguita alcun'altra... il commiato ultimo dai miei lettori", NV, 107
.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000