L'indicazione
emersa nel discorso apparso sul numero precedente di questa Rassegna
richiamava, in buona sostanza, l'anomalia costitutiva della presenza
letteraria negli anni Ottanta nella provincia di Lecce. Le riviste presenti
in questo territorio in quegli anni non fanno emergere una pratica comune,
un agire intellettuale forte e ben delineato, bensì sono il luogo
dell'attraversamento di molteplici e, talvolta, assai distanti soggettività.
Questo carattere costitutivo di una presenza paradossalmente individuale
porta ad errori grossolani allorquando si tenta di accomunare queste
esperienze tremendamente differenziate in un progetto unitario, quanto
mai esteriore, fittizio e debole.
In questo senso non abbiamo un manifesto o una scuola nella nostra provincia,
ma la condizione dello scrivere conduce ad un discorso più profondamente
unificante, sostanziata nella pratica di l'una parola senza condivisione
e tuttavia necessariamente molteplice", come viene indicato da
Blanchot.
Vorrei approfondire ora alcuni temi del discorso poetico partendo dallo
specifico del testo, in un rapido panorama della scrittura in forma
di poesia nell'ambito che a noi interessa. La condizione esplosa di
scrittura che interroga già emerge dal primo brano di Emblema
e metafora di Bernardini (Piero Manni ed., Lecce, 1988, p. 17), dove
l'ipotetica ragione individua un segno scritto fluttuante, veicolo di
una memoria stanca e pronta alla sconfitta:
Ma se il fiato
implacabile del tempo
ti sospinge a un'acqua di palude,
il segno scritto resta l'ipotetica ragione
per rendere di te testimonianza al giorno.
L'oggi diviene
l'unico spazio allucinato, dove tutto si compie, l'orizzonte non travalica
che l'istante, l'attimo, la jetzeit, l'attuale in cui il segno si
inscrive.
Troviamo così in Bernardini l'incertezza dell'orizzonte limitato
che proietta la propria singola presenza indebolita, dove la poesia
civile lascia il posto ad tino strazio civile disilluso, privo di
vie di scampo evidenti:
E allora di
noi riemergerà disgregata notizia
quando esseri d'altre forme che le nostre
trasvolando lattiginosi ammassi stellari
approderanno [ ... ] (Se,.... p. 24)
o ancora l'esortazione
del Ridateci il dolore:
Ridateci il
dolore.
Ci colpisca pure da ignote galassie
dallo spazio illimitato
dalla fuga vertiginosa degli anni-luce.
Ma non condannateci all'estinzione.
(Ridateci il dolore, p. 25)
Tutto si rapprende
nell'istante infinito e allucinato di un'esistenza che guarda a se
stessa, con continua e sofferta difficoltà, con gli occhi feriti,
dove la biografia diviene simbolo. In questo tessuto la memoria si
dissolve così come la presenza della quotidianità, da
Il cofanetto a Il passo del tempo:
Ti è
compagno il silenzio
nella tua lunga solitudine
dove neanche lo squillo del telefono
più ti raggiunge ma solo il passo
veloce del tempo.
(Il passo del tempo, p. 44)
In questo paesaggio
desertificato dove il silenzio è la cifra della sofferenza,
Bernardini fa emergere la dicotomia essenziale:
Impossibile scrivere
la vita, nemmeno una parte,
di se stessi. Solo qualche frammento barlume
scaglie minute: apparire fugacissimo
d'immagini allo specchio o men che immagini,
tuttavia faville della nostra breve giornata.
(Dietro lo specchio, p. 31)
Anche la punteggiatura
salta, diviene rada, non rappresenta più un tempo che, ormai
lontano dall'essere rappresentato dalla scrittura, travalica l'esistente,
nel proprio inarrestabile movimento, in quel percorso che diviene
un "viaggio attraverso un buio sentiero" (Addio, amici,
p. 86), parole che chiudono Emblema e metafora di Bernardini.
Diverso, ma non distante, il discorso di Salvatore Toma, in cui sembra
divenire impossibile la presenza cogente di una memoria fatta di sofferenza:
Come potevamo
scordare
se non in un tuffo selvaggio
la crudele macelleria sul marciapiede
le parti squartate dei vitelli
appesi a un gancio
le teste scarnificate
con gli occhi insanguinati
le viscere gettate lì per terra
come volantini?
ci angosciava la polvere nel sangue
la cicca spenta nella gola
ancora accesa
di una vacca appena uccisa.
(Il mare si era spinto in collina, in Forse ci siamo, Pensionante
de' Saraceni, Caprarica di Lecce, 1983, p. 18)
La scrittura diviene
l'azione nell'istante, nell'ora e qui, non più storicizzata
e storicizzabile, dove la ferita dell'esistere fa esplodere qualsiasi
possibilità di progetto o di origine.
Nessun possibile collegamento alla storia letteraria, una continua
esplosione, una morte dilatata, una parabola verso la morte di cui
la scrittura è traccia e presagio:
Vivere in eterno
coi tuoi versi...
Passare alla storia
per rara genialità...
essere ricordati... ma
ne vale la pena?
ne ho visti di trucidati
in luridi convegni
indagati frugati e fustigati
menzognificati e sfruttati
imbavagliati di motivi inesistenti
storpiati reinventati...!
meglio una morte
sola per noi soli
quest'ultima emozione
questo scoppio di felicità
questo smembramento leggero.
(Vivere in eterno, p. 14)
In Toma la natura
assume la funzione di un eden irraggiungibile, di una condizione animale
inarrivabile; all'interno dì questa tensione vi è un
divieto ad agire ed una impossibilità di mutare:
Devo non vedere
devo non sentite
devo non capire
devo non pensare
non desiderare non fremere
se voglio vivere non devo!
ma farmi formica questo sì
catena di montaggio.
Di falchi di lontre di brughiere
parlarne è pericoloso.
(Devo non vedere, p. 27)
e in maniera ancora
più nitida:
Ma ecco che
a un certo punto
ti raggiunge a bruciapelo
l'immagine del tasso della volpe
della luna nella valle
del lombrico del falco
a punzecchiare
la tua rassegnazione di defunto.
(Andrai a giocare a bocce, p. 58)
Il suono rappresenta
la continua accelerazione dove l'allontamento si sostanzia ("la
luna nella valle" del brano sopra citato), dove per un attimo
il gioco della scrittura fa balenare l'ipotesi di rispondenza con
l'elemento naturale. Di contro abbiamo un ritmo ripetitivo, ossessivo
ed ossessionante:
Viviamo su
un mondo che gira
che gira e che ci sfugge
che ci contiene e ci raggira
e che gira rigirà
finirà per cozzare qualcosa
qualcosa che ci mozzerà il fiato
(Stato ed inversione, p. 45)
Fino ad arrivare
al ritmo quasi primitivo, alla ricerca del battito cardiaco materno:
Buttate foglie
sui morti
buttate foglie sui morti
sui morti che
sono eternamente nati
eternamente in noi
buttate foglie sui morti
foglie secche e lieve terra
perché i morti sono leggeri
buttate terra sui morti
perché sono essi i veri vivi
buttate terra sui morti
sui morti nati necessari
sui morti che ci fanno vivere
sui morti che importano
buttate foglie foglie leggere
e con le fogie aria.
(Buttate foglie sui morti, p. 30)
Tutto si annoda
verso un passato tremendo in quanto irrecuperabile:
E il passato
non è la morte
che mi fa paura
è il passato
che è più funebre e più funesto
del buio in una bara
è il passato che mi dilania
questo essere stati
senza possibilità di ripetersi
di dirgli una parola.
E' per esso
che noi senza saperlo
ci prepariamo a morire
e forse siamo nati
già morti.
(La mia è una donna favolosa, p. 44)
Dalla chiara,
inequivocabile, tragedia ridicola dell'uomo riemerge dopo Forse ci
siamo, in La verità (a Pagano e agli indiani d'America) - poesia
in cinque movimenti apparsa sul numero monografico della rivista Pensionante
de' Saraceni dedicata a Vittorio Pagano (anno II, n. 1, p. 131) -
L'elemento naturale dove esso diviene sede dell'utopia, luogo di futura
e certa liberazione:
4
Arriverà la vita
arriverà
palazzi città auto ferrovie
saranno dilaniati come antilopi.
Il leone che è in noi
ruggirà in maniera mai sentita
sbranando uomini donne
bambini invecchiati
e vecchi arroganti
malati di dominio.
o ancora:
5
Arriverà la pace
il silenzio mosso
da un canto divino.
Ci sentiremo lo stomaco
svuotato di carni
non avremo bisogno di mangiare
respireremo vento
aria neve gelsi
il selvatico che è in noi
prevarrà.
La verità
arriverà.
La condizione
è però nel presente tragico e ineludibile, nel destino
di morte come unica liberazione, reimmissione nell'elemento naturale.
n Antonio Verri, la scrittura poetica spazia, giunge e riparte anzitutto
dal proprio interrogarsi, il neologismo, come la parola colta, come
il materiale mitico della cultura orale si infrange e rifrange in
una pagina dilatata, dove la poesia non è più approdo
sicuro, ma bordo, confine del comunicare.
La discorsività del quotidiano si gonfia nell'inseguimento
continuo di una traccia più ampia, di una trama imperscrutabile
continuamente descritta. I nomi storici di una pratica d'avanguardia
respirano di un nuovo ritmo mitico.
Già ne Il pane sotto la neve (Pensionante de' Saraceni, Caprarica
di Lecce, 1983) s'affacciano modi e temi che in seguito verranno assumendo
una configurazione più netta, come ad esempio la figura di
Stefan, che dà il titolo alla prima sezione della raccolta,
figura che vaga incerta tra letteratura e biografia, tra Joyce e Caprarica,
tra un mondo fatto di azzardi, di voli impensabili e timidezze, pudori
della microscopica e arrogante provincia a sud di tutto, un tempo
contadina.
Il discorsivo entra come filo rosso che unisce questi due corni:
"Se ti accadesse,
Roberta, traversando via Ugo Bassi, all'altezza del self Service"
(Se ti accadesse.... p. 19)
E Bologna diviene
luogo mitico come Sciaffusa, Kostanz, Wintentur, opposto ad un Salento,
al quotidiano luogo dove la metropoli prorompe, dove la consolazione
letteraria non è mai sufficiente - anzi, ulteriormente agita
- e dove la memoria è nuovamente mitica, luogo del proprio
altrove, consistenza di un esserci, nuovo e antico nel medesimo tempo.
Roberta, come la Betissa, vive del soffio della parola scritta, del
suono rappreso dell'inchiostro, della pratica impossibile nella concretezza
dei corpi, altresì si gonfia nell'esplosione della polifonia
che man mano prende corpo.
Dapprima sotto la forma di un appello/complicità (e Verri,
non bisogna dimenticare, ha investito molti della necessità
di imparare oltre la provincia), dove troviamo:
Cominciate,
poeti, a spedire fogli di poesia
ai politici, gabellieri d'allegria,
a chi ha perso l'aria di studente spaesato
a chi ha svenduto lo stupore di un tempo
le ribalte del non previsto,
ai sindacalisti, ai capitani d'industria
ai capitani di qualcosa,
usate la loro stessa lingua
non pensate, promettete
..."disarmateli" se potete!
fino all'esortazione
finale:
Fate fogli
di poesia, poeti
vendeteli per poche lire!
(Cominciate poeti.... p. 24)
Piccolo manifesto
di una pratica, di una nuova militanza, dove la quotidianità
diviene il terreno delle operazioni di poesia, nella sua ineliminabile
invendibilità una azione creativa che prorompe nella distrazione
del senso comune, come nelle ipocrisie del mercato. Questa coralità,
questa ricerca di comunità diviene ben presto polifonica. La
scrittura poetica dilaga definitivamente nel dialogo, nella prosa,
nel fiume improbabile e melmoso di una discorsività che si
aggrappa ad una galleria di personaggi "rneravigliosi".
La Betissa vive nell'anafora questa implosione dello specifico poetico,
della scrittura, della letteratura, dello stesso Verri:
E grida l'uomo
e geme sotto il carro
e grida l'uomo e il curlo fita senza sosta
e grida e dice lava scende a cristalli
e grida e dice cenere rossa con improvvisi bagliori
e grida terra melograna a denti di cavallo
e grida e ringhia
e geme sotto il carro
e grida e morde la corda che al curlo ha dato vita
e grida e ringhia alla torre che geme
e alla ruota e al ventre e alle flebili corolle
e vibra l'uomo e rotea la mutante luce
e vibra e ringhia alla cazzuola forata
che dice rosola cristalli color croco
e grida l'uomo e parla di rigido rubino
e grida l'uomo e dice il fiume a caso scorre
e grida l'uomo c'è caos a bollicine
e grida l'uomo e parla e ringhia e parla
e dice del percorso di fulmine che dietro lascia
vita
e dice di un accordatore che corre tutta Castro
e dice del facilisco tenero serpente
e dice e dice e dice
e del suo stesso buffo dire perde stima
E grida l'uomo
mentre Castro curiosa si raffredda
e grida mentre proprio tutto ingigantisce
e grida mentre proprio tutto nel bagliore prende
forma
e dice la torre è un rosso gigante
e dice le sponde del carro sono mura
e grida e morde la corda che dà vita
e grida e ringhia e grida stupida betissa
e grida e grida e ringhia e morde e non s'approva
Son qua grida la grassa donna carezzandosi la gola
(La Betissa, Sudpuglia, Matino, Lecce, 1987)
La dimensione
anaforica spinge verso un ritmo di circolarità quasi magica,
e in quest'aura muovono i personaggi mitici di Verri, la Betissa,
la figura femminile, la terra madre, il Salento: Stiffan, il nuovo
uomo, il personaggio che si muove autonomamente e rilancia la sfida,
vive sino in fondo l'azzardo.
Il luogo dilaga nel proprio essere altro, Castro diviene la scena
della mutazione, la sede in cui tutto è possibile, dove la
magia rinserra i propri legami con le radici del luogo, il tempo non
esiste più neanche in Verri, sospeso com'è nella realtà
virtuale di un sogno veritiero.
Lautreamont, Cage, Joyce divengono a loro volta carte continuamente
mescolate e a volte utilizzate, fantasmi forse, burloni e tragici,
il `brusio monta" tra personaggi di varia natura:
UNO Sotto Parlo
un vuoto incredibile, e Parlo è un luogo felice
DUE Dentro c'è uno squalo per tutti, e sottoterra ci seguono
cento squali
UNO Non ha frutti l'arlo, e sterco e ombra e spuma e seme di giglio
sono solo buffe vostre storie
DUE Ha sguardo colmo e sguardo disperato, ha furore negli occhi e
pietà per il corpo assalito
UNO L'arlo ha radici devastate, per tutti però è il
luogo delle splendide occasioni
DUE Cento squali gli premono in gola, tutta Castro è oscurata,
allo stremo
UNO Cinquanta, sessanta, al trotto!
DUE Solo nei pressi del carro una flebile luce. Aderire allo squalo,
perché no
UNO Duecento, trecento, al galoppo!
DUE Castro è di nuovo deserta. Monta un rosso vivo, un rosso
iniziale. C'è un brusìo divoratore. Il curlo
UNO Cinquemila, diecimila... Imprendibile!
DUE Sera dopo sera, la baionetta. C'è uno squalo che, curvo,
scrive in fondo alla bivett del teatro
(La Betissa, p. 78)
In questo contesto
è possibile spingersi oltre, verso una scrittura ancora più
complessa, dove il segno pienamente si interroga; mi riferisco al
discorso di Carlo Alberto Augieri e, in misura meno consapevole e
matura, a quello di Walter Vergallo.
Quello di Augieri è un tentativo aperto di ricerca dove la
scrittura cerca di approdare a nuovi luoghi, forse verso l'oasi del
dirsi, dove la scrittura ripensa se stessa, diviene -come nel sottotitolo
della raccolta Folstizio (Pensionante de Saraceni, Caprarica di Lecce,
1984) - etnoscrittura come ricerca dell'altro.
In questa raccolta la necessità del dire, del senso di una
esistenza che nomina con nuovi suoni e stilemi il mondo, ridona voce
a storie relegate nel silenzio.
I personaggi sono uomini autentici, trasuda nel suono loro, nel combinare
piani differenti, dì gesto, suono e ambiente, la necessità
del dire, la possibilità di nominare per la prima volta il
mondo.
La scrittura diviene dono, creazione continua in un nuovo dire, alla
ricerca di un nuovo narrarsi:
Un cavallo
bianco
allucia in trotto
invisibilando la
luna,
conchiglia accasata
nell'intemporaneamente
(Oasi con vista, "Quotidiano dei poeti", Caprarica-Lecce,
n. 1, marzo 1988, p. 25)
Su un cavallo
bianco al
trotto
mi invisibilo la luna
pascolo muto di
luci accasate nelle
conchiglie
(Vista dall'oasi, ivi)
Augieri approfondisce
questa epifania sonora misurandosi su un tema da cui dipanare successive
e montanti immagini: l'oasi (forse l'oltre deserto?), la visione.
Sì mescolano qui sogni, proiezioni, miraggi, memorie, ed è
comunque l'altro ad essere continuamente cercato, acqua nel deserto
del comunicare.
Di Vergallo mi preme qui sottolineare come la sua scrittura, che ha
dato segni negli ultimissimi anni di avere una possibilità
di crescita assai consistente, viva nel suono più che in ogni
altro scrittore salentino di questi anni.
Il terreno impervio, forse troppo spesso appesantito da una scrittura
troppo teorizzata, rappresenta il senso della sfida forte e complessa
di cui si ha traccia nel recentissimo Clown per microriso (L'incantiere,
Lecce, 1991). In questa raccolta è possibile cogliere come
la parabola di una parola sperimentata possa giungere, dopo un lungo
e meticoloso lavoro, a nuovi sensi:
rac raccolg
raccolgo le ultime forze
ti scrivo dalle zolle pianeggianti
di Arnesano - aria sana rosacarne! -
ifinitimo punto dell'atlante
europa; ho un nome infausto, morus nigra,
da qualche anno giaccio in rianimazione.
Gli amici sono tutti ammorbati, taluni
in estinzione: il carrubo siliquo
dal fogliame verdescuro, il sommacco
dal picciolo vellutato e il fiorame
abilissimo, l'umile sorbo,
l'anacardiaceo lentisco dal forte
odore di pepe, la cedrina ormai
quasi in coma. Ero io il più nobile,
citato da Plinio Orazio e Galeno.
(Lettera di un Gelso a un Poeta, in "Quotidiano dei poeti",
Caprarica-Lecce, n. 1, marzo 1988, p. 62)
In questo panorama,
ancora parziale e suggestivo, mancano certamente altre voci, ma non
il legame forte da cui emerge una pratica carica di segnali nel nostro
territorio, non un corpo univoco nel discorso poetico, ma differenti
sentieri di ricerca, da cui è impossibile slegare le altre
forme espressive, gli altri discorsi che continuamente si intrecciano.
Teatro, arti figurative, dibattiti su riviste e in convegni, piccoli
e grandi scontri si intrecciano di volta in volta in questa ipotesi
di "comunità di chi non ha comunità".
(2 - continua)