§ La lezione di Pietro Marti

Fortezza Messapica




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta, Gianna Artese
Coll.: Enzo Margari, Lelio Conversano, Carla Di Maio, Rina Mariano



"Dopo il tragico crollo della Monarchia Normanna, la successione rapida e violenta delle Dinastie Sveva, Angioina, Durazzesca ed Aragonese - intente a reprimere, con l'aiuto delle tirannidi feudali, l'indomito spirito d'indipendenza ed a respingere della gente messapica, con la forza delle armi, le incessanti cupidigie delle case spodestate e le inesorabili scorrerie dei Corsari e dei Musulmani - dette inusitato impulso all'Architettura Militare. Ogni città, ogni collina, ogni seno del vasto litorale venne munito di possenti baluardi, che erano, nel tempo stesso, simboli di dominio e propugnacoli di difesa".
Così, Pietro Marti, nel capitolo sul Medio Evo del suo esemplare Ruderi e monumenti nella Penisola Salentina, che la Tipografia "La Modernissima" pubblicò nel 1932: un lungo itinerario, "prima che l'azione del tempo e l'abbandono degli uomini portino all'ultima rovina i monumenti e i ruderi delle città che ancora avanzano in questa immemore contrada della Penisola". Spirito di gran lunga anticipatore, storico attento, e intellettuale sensibile, oltre che acuto lettore di opere precedenti e contemporanee, Marti si riferiva all'area salentina che includeva, all'epoca, le attuali province di Brindisi e Taranto, e due strisce di terra, successivamente assorbite dalle province di Bari e di Matera: il Gran Salento, insomma, che aveva vissuto "la desolazione e l'incuria" fino al VI secolo, e che in seguito, mentre nel resto della penisola si andava consolidando la struttura ferrea del feudalesimo longobardo, grazie all'estensione del dominio di Bisanzio, veniva rinfrancato dalle tradizioni dell'arte e della cultura, che diffondevano i primi germi dell'Umanesimo. "La posizione geografica - scrive Marti - che fa del Salento quasi un ponte proteso incontro all'Epiro; la lontana ma comune etnografia delle popolazioni e le vicende politiche, militari e religiose avevano legato questa regione alla madre Grecia, quindi divenne, anche nel primo Medioevo, la linea di passaggio e di contatto fra la Iapigia e la Penisola Ellenica".
Nei secoli che seguirono al trasferimento della sede imperiale a Costantinopoli, vita e cultura della penisola salentina possono identificarsi in due fasi ben definite: la prima, caratterizzata dall'ardente propaganda evangelica e dalla conseguente distruzione di quanto ancora avanzava della civiltà e dell'arte pagana; e la seconda, improntata a un fervore ascetico, che consigliava l'abbandono dei centri abitati, "città già squallide", per votarsi alla solitudine contemplativa.
Ma nel VI secolo Otranto divenne sede del governo bizantino e centro della gerarchia ecclesiastica. Fu una svolta. Rifiorirono il lavoro e il commercio, tornò la fiducia, e gli antichi abitanti dell'area, liberati dall'incubo di nuove invasioni, riconquistarono la terra, strappandola all'abbandono e alle paludi, e riattivarono le consuetudini della vita civile. "Nel corso di poco più di un centennio, la lingua, i costumi e il rito greco si sovrapposero alla tradizione latina; e l'arte - che aveva dato i suoi ultimi bagliori con l'imitazione o con l'adattamento delle superstiti opere architettoniche e rappresentative della Romanità - cominciò a germogliare con un nuovo sentimento della forma e con un nuovo spirito d'ideazione".
Il Salento era appena riemerso dall'antica depressione economica e sociale, e le sue città e paesi avevano appena ripreso l'aspetto di fiorenti centri vitali agricoli e artigianali, quando d'improvviso a Costantinopoli esplose la guerra religiosa, voluta dall'imperatore Leone l'Isaurico e sostenuta con tenacia anche dai suoi successori. Allora, perseguitati fin nelle regioni più remote, i calogeri basiliani, per sottrarsi all'odio funesto degli imperiali, cercarono scampo in Salento e nella dirimpettaia Calabria, portandovi l'ideale puro della loro fede e il profondo culto dei loro santi. E tuttavia non vi fu pace per costoro. Le nuove contrade "non furono per loro più ospitali della madre patria, perché, ricercati dagli eresiarchi, incalzati dai Saraceni, invisi ai seguaci della Chiesa Romana", furono costretti ad evitare la luce del sole, a nascondersi, a cercare rifugio negli atri e nelle grotte più remote, aperte nei fianchi dei burroni, nelle cime delle colline boscose, lungo le coste dell'Adriatico e dello Jonio, o faticosamente scavate dentro le foreste che ammantavano i rilievi centrali della regione: e "di questi strani e selvaggi recessi fecero luoghi di ricovero e di preghiera". Le loro laure, sorte in luoghi non agevolmente accessibili, in particolare nei territori di Massafra, di Mottola, di Ostuni, di Castellaneta, di San Vito, davano l'immagine della Tebaide e della Palestina. Qui, o nei ricoveri interni e costieri della penisola salentina, i calogeri basiliani vivevano in solitudine contemplativa, "estranei alla seduzione del piacere", lontani dagli odii e dalle cupidigie mondane. Soltanto la domenica si radunavano nella cripta, che formava il cuore della comunità, e insieme assistevano alla celebrazione della messa e all'adorazione delle immagini, che essi stessi avevano tracciato sui muri con una tecnica rudimentale e con una iconografia quasi standardizzata, convenzionale, con gli accessori conformi ai minuziosi precetti enunciati poi dal primo Concilio di Nicea: "L'artista non crea nulla. E' l'antica tradizione che lo guida. La sua mano non fa che eseguire".
Quando infine, nel 784, il Concilio ecumenico rigettò come empia la dottrina degli Iconoclasti, nella regione salentina furono dedotte numerose colonie greche da Basilio I, da Leone IV e da Niceforo Foca. Quest'ultimo ricostruì Taranto e altre città devastate dagli incursori saraceni. Tornò di nuovo un clima di pace operosa. I calogeri basiliani emersero dall'ombra mistica delle laure, le trasformarono in decorosi ipogei, e sulle cripte costruirono chiese e cenobi.
A questo punto, precisa Marti, "ai fini della storia e dell'arte locale", è necessario fare una distinzione, della quale non è stato tenuto debito conto dagli autori, compresi quelli salentini. Fino all'VIII secolo la pittura parietale -lontana e spesso adulterata reminiscenza degli affreschi greci e orientali - fu la sola rappresentazione del sentimento religioso ed estetico degli anacoreti. "Gli stessi calogeri -tormentati dall'incubo della visione apocalittica di una prossima fine del mondo ed arsi dalla febbre ascetica di rendersi degni del perdono e della grazia celeste - tracciavano, sui muri delle grotte eremitiche, le immagini sacre, bandite dalla madre patria, e con esse vivevano in comunione spirituale". Di queste prime testimonianze di arte pittorica resiste ancora qualche rara traccia, specialmente nelle caverne aperte lungo i margini quasi inaccessibili dei burroni. Tutto il resto è andato distrutto senza rimedio.
Dall'VIII all'XI secolo, la pittura figurativa divenne più agile e più articolata, "accostandosi perfino alla composizione e alla drammaticità". Conquistata una più varia e sicura iconografia, abbandonò "il simbolismo convenzionale dei primitivi e cominciò a rappresentare gli episodi più umani del Nuovo Testamento". Ma non fu l'unica forma d'arte adoperata per la glorificazione della divinità e per rispondere alle esigenze del culto esterno: "Specialmente dopo il Mille - quando il terrore della morte imminente e tormentosa fu cancellato dal ritorno trionfale e benedicente del sole - molte cripte originarie vennero trasformate in basilichette a tre navate, con arcosoli, abside ed altari pel sacrifizio della messa, scavati nel seno stesso della roccia".
Sorsero in questo periodo, fra le altre, numerose, quelle di Santa Cristina a Carpignano, di Santa Lucia e di San Basilio a Brindisi, di San Cataldo a Taranto, di San Barsanofrio a Oria, di San Mauro a Gallipoli, di San Pietro a Manduria, di San Giovanni a San Vito dei Normanni, del Salvatore a Giurdignano, dei Santi Stefani a Vaste, ecc.: "Tutte queste opere di fede incontaminata dipendevano dai vari Cenobi Basiliani, che, istituiti sotto l'alto patronato del Metropolitano Otrantino, si svolsero in seguito quali attivissimi centri d'irradiazione religiosa, culturale ed estetica, deducendo dall'Oriente - in special modo da Costantinopoli - non solo i libri della sapienza antica, ma i motivi della fiorente ornamentazione e gli elementi di tutte le arti minori, fra cui quelli del mosaico, dello smalto, della miniatura e dell'oreficeria".
Terza fase, dall'XI al XIII secolo. In questo lungo periodo gli elementi dell'arte bizantina si fusero con quelli dell'arte romanica apportati dai religiosi di San Benedetto, e cominciò ad espandersi l'attività di una scuola artistica, pittorica e musiva d'impronta salentina, che ebbe per centro Otranto e che dette maestri insuperati: Eustazio e Teofilato (secolo XI), i quali affrescarono la chiesa-cripta di Santa Cristina a Carpignano; il presbitero Pantaleone (secolo XII) che eseguì il grandioso mosaico della Cattedrale otrantina; il monaco Bailardo (1249), che decorò la Cattedrale di Nardò e del quale è superstite un affresco firmato; Donato e Angelo Bizamano (secolo XIII), che lasciarono all'ammirazione degli uomini due tavole a tempera, "Noli me tangere" nel Museo Cristiano di Roma, e "Visitazione della Vergine a Santa Elisabetta" nel Museo Nazionale di Napoli. Appartennero anche alla scuola salentina, ma di un periodo posteriore, Giovanni Maria Scupola, di Otranto, autore di due trittici, conservati nel Museo di Bologna, e di una tela, conservata al Louvre; e Rinaldo da Taranto, che eseguì, fra gli altri affreschi scomparsi, un "Giudizio Universale" per la chiesa di Santa Maria del Casale, nell'agro di Brindisi: la chiesa accoglieva i crociati in partenza per la conquista della Terra Santa. Nel 1072 la penisola salentina cadde sotto il dominio normanno. Questo popolo navigatore ed esploratore, di iniziale civiltà grossolana, ma anche assimilatore immediato di usi, costumi, lingue e religioni, abbracciò quasi subito la religione cristiana, ma non sottovalutò la spiritualità calogeriana. Gli Altavilla restituirono ai vescovi della Chiesa di Roma la giurisdizione in Terra d'Otranto e contribuirono alla diffusione della religione di San Benedetto, ma fondarono anche importanti chiese e abbazie di basiliani. E in questo periodo si verificò un fenomeno rilevante: mentre le opere pittoriche e quelle musive continuarono ad ispirarsi sostanzialmente all'iconografia e alla tecnica tradizionali, l'architettura sacra si sviluppò con una grandiosità e con una originalità sorprendenti. Più che la ricchezza del popolo, che anzi nel periodo normanno toccò livelli di povertà quasi assoluta, la fede dei dominatori e la rapida diffusione del rito benedettino furono all'origine di una affascinante riforma architettonica, imposta dall'adozione della volta: "Gli artisti e gli artefici del Salento - precorrendo di circa mezzo secolo le innovazioni di molte contrade d'Italia -ebbero la genialità di fondere, in una caratteristica visione architettonica, gli elementi più disparati. La severa costruzione romanica -che altrove conservò per lungo tempo ancora l'impronta tetra e conventuale del tipo lombardo - in Terra d'Otranto divenne più aerea, con lo slancio verticale delle navate, permesso dal materiale di costruzione, e con l'elevazione dei tiburi e dei lucernari sull'incrocio dei due bracci della chiesa, mentre i coronamenti delle cuspidi, le edicole votive, i profondi portali e gli occhioni del prospetto abbandonavano la semplicità ieratica delle primitive basiliche e si arricchivano di fiorenti decorazioni".
Durante la dominazione normanna, dunque, Bisanzio e Roma sembrarono fondersi come simbolo di una fraternità dei due riti. Le due Chiese convissero e prosperarono, in serena contiguità sorsero cappelle e monasteri basiliani e benedettini, che furono, insieme, centri di irradiazione religiosa, fari di cultura latina e greca, fonti dell'umanesimo. Boemondo, figlio di Roberto il Guiscardo, e suo fratello Ruggiero, promossero la costruzione delle splendide Cattedrali di Taranto, di Orla, di Otranto e di Nardò, e contribuirono alla realizzazione delle chiese basiliane di San Nicola e di Sant'Angelo in Casulis, i cui ruderi campeggiano in colpevole abbandono nell'agro otrantino, a testimoniare il dramma funesto dell'odio religioso e della ferocia devastatrice. Casole è un'epopea magnifica e rimossa, è la terra del rimorso dei salentini. Fu un magnifico centro culturale. Fu, com'è stato scritto, la prima casa dello studente, la più grande università, un centro linguistico, esegetico, estetico di prim'ordine, in tempi in cui guerre, soggezioni e scorrerie impoverivano la vita spirituale e intellettuale della penisola.
Divenne una splendida preda. Aveva una grandiosa, preziosissima biblioteca. Il Galateo scrisse che "una non piccola parte di essa fu trasferita a Roma presso il cardinal Bessarione, e di là a Venezia". Nella città lagunare i manoscritti formarono il nucleo della "Biblioteca Marciana", la prima biblioteca pubblica d'Italia. Ma altri testi presero le vie del mondo. Ci informa Diehl: "La Biblioteca Nazionale di Parigi possiede parecchi manoscritti provenienti da San Nicola". Altri finirono all'Escurial di Madrid, alla "Laurenziana" di Firenze, alla "Nazionale" di Roma, alla "Vaticana", alle biblioteche di Torino e di Grottaferrata, alla "Corsiniana" e alla "Vallicelliana" di Roma, alla "Nazionale" di Napoli, al Seminario di Molfetta, al "British Museum" di Londra, alla biblioteca di Karlsruhe, alla "Sinodale" di Mosca, alla "Nazionale" di Vienna...
Ma torniamo ai normanni. Goffredo I e la sua consorte, Sighelgaita, eressero la Cattedrale di Copertino e il Monastero e il Tempio di San Benedetto a Brindisi, ma consentirono anche la libertà di culto più ampia per il rito greco, incoraggiando la realizzazione delle chiese di Santa Lucia e di San Basilio nella stessa città. Goffredo II, più ossequiente alle pressioni curiali romane, tollerò il rito greco, ma protesse in modo particolare quello benedettino, edificando il Duomo, il Monastero e la chiesa di San Giovanni a Lecce, "opere ammirande, di cui sarebbero scomparsi tutti i ruderi, se il ritrovamento fortuito di alcuni frammenti di archivolto a decorazione floreale non fossero stati custoditi nel Museo Civico, insieme a due superstiti leoni simbolici". Tancredi e la sua consorte elevarono la Chiesa dei Santi Niccolò e Cataldo, il monastero dei Benedettini Neri, le chiese-cenobi basiliani di Santa Niceta presso Melendugno e di Santa Maria a Cerrate, nel territorio di Squinzano, con l'annesso cenobio dove il Galateo si recava a trovare l'abate Niceta "ed a cercar tregua per le immeritate amarezze del suo spirito".
Poi la tregua religiosa finì. Senza rumore di armi, che non fossero quelle della politica di conquista, sul terreno, delle anime. L'area etnografico-religiosa bizantina andò sempre più restringendosi, e il rito greco rivelò più tenace resistenza nell'area della Grecìa, prima di estinguersi nel tempo. Galatina lo conservò fino al 1507; Soleto, fino alla morte dell'arciprete Arcudi, avvenuta nel 1598; Sternatia fino al 1615; Martignano fino al 1662; Calimera fino al 1663; Zollino, da ultimo, fino al 1668. La pianura messapica divorò una civiltà, una cultura, una religione. Sopravvive, il rito greco, in alcune isole etniche della Capitanata, e in modo particolare in parecchie aree di etnia greco-albanese della Calabria, dove tramanda culti, tradizioni, costumi e persino lingua delle origini.
La guerra da corsa non fu un fenomeno soltanto saraceno e islamico. Fu anche europeo e cristiano. Devastazioni, saccheggi, assalti di città costiere, tratta di schiavi, pagamenti di riscatti, scambi di prigionieri furono atti di reciprocità, comportamenti bilaterali per una lunghissima età, fino a quando - ed eravamo già nella seconda metà del XIX secolo - la pirateria venne sconfitta dall'opinione pubblica, dalla macchina a vapore che sconfisse le vele, e dal telegrafo. Quando Fernand Braudel narra dei viaggiatori del XIII secolo che potevano raggiungere regolarmente la Cina, via terra, "per strade interminabili quanto sorprendentemente sicure", descrive un mondo in cui, in quasi ogni parte, era ancora presente il timor di Dio. Quando gli arabi cominciarono a combattere, soprattutto sui mari, anche in nome e con l'alibi del loro Dio, i cristiani risposero con l'alibi delle rappresaglie. Mille vicende oscure, mille vite vendute, mille e mille storie individuali e collettive, per tanta parte rimaste inesplorate, riguardarono tutte indistintamente le sponde del Mediterraneo. Forse era italiana Roxalena, la Sultana che sposò Suleyman, il Magnifico Solimano, in tempi in cui il matrimonio non aveva precedenti nella storia della dinastia ottomana: il potente Signore del Bosforo la chiamava Hürrem, Colei che ride. Roxalena dominò per trentadue anni, dopo avere inaugurato l'epoca del Grande Harem, o del Regno delle Donne. E nella terza delle sette colline di Costantinopoli, imponente profilo sul promontorio, ancora oggi si erge la Moschea con le tombe dei due coniugi. A Roxalena, venduta al Sultano da un mercante di schiavi, succedette la veneziana Baffa, anch'essa fatta prigioniera dai pirati mentre si recava a Corfù, dove il padre, della nobile famiglia dei Baffo, era governatore. Per contro, navi europee salpavano dai porti delle coste francesi, italiane, catalane, illiriche, per scorrerie nel Mediterraneo centro-orientale, predando città costiere e traendo schiavi. Una doppia scia di lutti segnava il mare interno a tre continenti. E la penisola salentina, al centro del mare, insieme con la Calabria e con le coste meridionali della Sicilia, era nell'occhio del ciclone.
Sorsero a più riprese, lungo tutto questo periodo, le torri costiere, in tutte le fasce costiere mediterranee. E in Terra d'Otranto, dopo il drammatico crollo della monarchia normanna, si ebbero successioni rapide e violente delle dinastie sveva, angioina, durazzesca e aragonese: ciascuna intenta "a reprimere, con l'aiuto delle tirannidi feudali, l'indomito spirito d'indipendenza [ ... ] della gente messapica". Questa ininterrotta stratificazione di dominazioni diede origine all'architettura militare. La selva di chiese e cenobi si trasformò in una munita, ma non per questo imperforabile, fortezza: "Ogni città, ogni collina, ogni seno del vasto litorale venne munito di possenti baluardi, che erano, nel tempo stesso, simboli di dominio e propugnacoli di difesa".
Così, durante la dominazione sveva sorsero i castelli di Oria, di Brindisi, di Ginosa, di Fulcignano, di San Vito, e la Torre Quadrata di Leverano, con i suoi splendidi caratteri architettonici del gotico ghibellino. All'età angioina e durazzesca appartengono invece i castelli di Avetrana, di Carovigno, di Ceglie, di Massafra, di Pulsano, di Grottaglie, di Roca, di Ugento, di Copertino, quello degli Enghien, le Torri di Belloluogo e del Parco di Lecce, di austera impronta guelfa, con "coronamento di piombatoi e di saettiere". Durante la dominazione aragonese, infine, sorsero i castelli e le fortificazioni di Taranto, di Otranto, di Gallipoli, di Ostuni, di Salve, di Corigliano, di Nardò, il formidabile Maschio dell'Isola di Sant'Andrea, a Brindisi. Ovviamente, poche di queste realizzazioni rimasero integre secondo il progetto iniziale. Dal XIII al XVIII secolo vennero apportate modifiche e completamenti o sviluppi imposti dalle necessità statiche o dalle esigenze dell'arte militare. In particolare, nel corso del XVI secolo "furono muniti di più potenti baluardi e antemurali" parecchi castelli angioini e aragonesi, fra cui quelli di Brindisi, Lecce, Gallipoli, Carovigno e Copertino; e vennero edificate le rocche di Acaya, Alessano, Arnesano, Barbarano, Cavallino, Castro, Castrignano, Galatone, Giuliano, Leporano, Lizzano, Lucugnano, Melendugno, Martano, Matino, Monteroni, Montesardo, Morciano, Parabita, Patù, Poggiardo, Racale, Salignano, Sanarica, Seclì, Specchia, Tricase, Taurisano e centri minori. Queste ed altre, opere di fortificazione "eseguite nel primo periodo della dominazione spagnola, e cioè sotto i regni di Carlo V e Filippo II, allorché s'intese il bisogno di consolidare le basi dell'impero con una fitta rete di piccoli feudi devoti alla corona, e di fronteggiare le rinascenti scorrerie musulmane e barbaresche". Ed erano, queste, scorrerie di pirati algerini e tunisini, ma anche ciprioti e turchi, e in misura minore greci e illirici, tollerati dai Sultani ottomani che ormai avevano spinto le loro armate fino alla Bosnia e al Montenegro ed il cui dominio era saldamente attestato sull'intera costa africana, grazie a un severo sistema di vassallaggi.
La Puglia, dopo la pace di Cambrai seguita alla guerra tra Francia e Spagna, divenne il baluardo avanzato dell'impero castigliano contro le insidie turche. Tagliata fuori da prospettive economico-commerciali, "murata viva", cioè cinta da una formidabile maglia militare, stagnò per oltre un secolo e mezzo. Si ebbe una forte recessione demografica, fame e carestie diedero un tragico nome all'arretratezza. La decadenza dell'agricoltura e l'espansione del pascolo resero la regione una terra desolata. Si sarebbe dovuto aspettare la battaglia di Bitonto, del maggio 1734, per assicurare questa regione e l'intero Regno di Napoli a Carlo di Borbone: e l'opera di rinascita ebbe in Giannone e nei martiri della Repubblica Partenopea un'eco che trascese i confini regionali e penetrò nelle coscienze europee.
Per molti versi, l'architettura militare condizionò le strutture urbanistiche, ma diede anche forte identità alle città e ai paesi che l'accolsero. Così, il castello di Oria: "Si eleva minaccioso e severo sul culmine della collina, con la sagoma di un enorme vascello, volto incontro all'Oriente vagheggiato". Fu eretto dal 1227 al 1233 da Federico Il di Svevia, e sebbene porti evidenti i segni del tempo, è un modello di architettura militare della Puglia. "Le finestre e le volte, che ancora resistono, sono fra i pochi avanzi di stile gotico, sfuggiti alla foia ammodernatrice dei posteri". Sperone orientato in direzione del mare Adriatico; doppio bastione; ben quarantacinque torri, in gran parte cilindriche: tre torri altissime segnano i vertici di un triangolo isoscele. "Stolti rifacimenti" del XVII e del XVIII secolo. Studi e ricerche hanno confermato che questa superba opera degli Hohenstaufen fu eretta, non soltanto nel recinto, ma anche sulle mura dell'acropoli messapica, di cui sono stati messi a nudo enormi blocchi isodomi di sabbione tufaceo.
Fu testimone di importanti eventi storici. Nel 1433 si oppose alle armi di Giacomo Caldora, capitano di Giovanna II, sceso a domare il principe Giovanni Antonio Del Balzo Orsini che si era dichiarato per la successione di Alfonso d'Aragona. Nella lunga guerra fra Spagnoli e Francesi, sviluppatasi con alterne vicende dal 1503 al 1529, cadde alternativamente nelle mani dei contendenti, fino al giorno in cui i generali di Carlo V lo presero definitivamente. Nel 1463, incorporato al dominio regio da Ferrante I d'Aragona, divenne sede di podestà marchesale, dapprima con i Bonifacio, in seguito con i Borromeo, e infine con gli Imperiali. Nei rapporti feudali, passò di volta in volta ai Principi di Taranto, a Manfredi di Svevia, a Filippo d'Angiò, a Raimondello e a Giovanni Antonio Del Balzo Orsini.
Anche il Castello di Brindisi appartiene al formidabile reticolo di fortificazioni sveve che fronteggiavano nello stesso tempo le mire del partito guelfo e le insidie dei nemici esterni. Edificato per volontà di Federico II intorno al 1223, quando l'imperatore dimorava a Brindisi per organizzarvi la spedizione in Terra Santa, ebbe la stessa architettura semplice e austera delle rocche di Bari e di Trani: un alto e possente maschio a base quadrata, quattro torri cilindriche agli angoli, con cortine merlate fra una torre e l'altra. Verso la fine del XV secolo, e probabilmente nel 1488, dopo la feroce e fortunata spedizione di Agomat (Achmet) Pasha, Ferrante d'Aragona volle adattarlo alle nuove esigenze strategiche reclamate dall'uso dell'artiglieria, e lo cinse nuovamente di antemurali e di nuovi baluardi, dotandolo di casematte e di camminamenti sotterranei. Altre modifiche vennero apportate dagli architetti e sorse il Torrione di Porta Mesagne. Nel 1225, Federico vi celebrò le sue seconde nozze con la figlia di Giovanni di Brienne, re di Gerusalemme. Nel 1254 Luigi IX di Francia vi trovò asilo, reduce da un'infelice crociata, dopo essere stato raccolto - sfinito, per il mare in tempesta -sulla costa a Torre Cavallo. Nel 1225 le milizie cittadine si rivoltarono in nome di Papa Alessandro IV e contro gli assalti di Manfredi e delle sue fidate truppe di saraceni assoldati da Federico in Sicilia e stanziati nel nord della regione. Nel 1284 vi presero stanza i presidii di Carlo d'Angiò, in attesa che una fortissima flotta, raccolta a Brindisi, salpasse alla riconquista della Sicilia. Nel 1503 la regina Isabella, moglie del tradito Federico d'Aragona, vi si rinchiuse e poté lungamente resistere agli assalti di Luigi XII. E, per venire a tempi a noi più vicini, nel 1804 Gioacchino Murat lo convertì in penitenziario, ponendo mano a notevoli modificazioni delle strutture, soprattutto interne.
La Torre di Leverano si eleva ad un'altezza di circa 30 metri. Dall'alto del suo coronamento si tiene d'occhio Porto Cesareo, l'antica Sasinae, dove all'epoca fiorivano i traffici, ma era possibile anche lo sbarco di corsari barbareschi. Fu costruita da Federico II, e per lunghi secoli, oltre che sentinella sull'ampia costa fino a San Pietro in Bevagna, fu valido baluardo contro gli assalti nemici. Le vicende militari e civili "hanno tolto qualcosa al suo disegno originario, apportando anche qua e là sensibili lesioni e perfino uno squarcio sul piano superiore; ma la mano del tempo le ha impresso una fisionomia di meschina fierezza, che risveglia nell'anima immagini e pensieri di lontane e sconosciute epopee". Ha base quadrata; si eleva su tre piani, con volte a botte; è alleggerita, in alto, da bifore ogivali. Fossato e ponte levatoio sono scomparsi, ma se ne conservano i disegni, a testimonianza dei tradimenti perpetrati dall'uomo. Nel 1373 accolse i profughi del Casale Albaro, distrutto dal Duca d'Andria, Francesco Del Balzo, che guerreggiava contro le armi di Giovanna I. Nel 1435 fu assalita e presa dal Principe di Taranto e Conte di Lecce Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, inesorabile partigiano di Alfonso d'Aragona. Nel 1484 cadde in potere dei Veneziani, che avevano già espugnato, dopo durissime battaglie, Gallipoli e Nardò. Nel 1528 fu presa dai francesi di Lautrech, che tentavano di ritogliere agli spagnoli le province napoletane.
Altra Torre, quella del Parco, di Lecce. Realizzata nel 1419 da Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, (figlio ed erede di Raimondello, Principe di Taranto, e di Maria d'Enghien, Contessa di Lecce), fu posta a guardia del vicino Adriatico, dove nel 1296 era apparsa, minacciosa, la flotta di Ruggero di Loria; da qui, fra l'altro, poteva muovere l'esercito mercenario di Renato d'Angiò, che contrastava la successione della corona di Napoli all'aragonese Alfonso. Fu munita di saldi baluardi, ora scomparsi, di un profondo e largo fossato e di una cospicua merlatura, con piombatoi e fromboliere.
Nel secolo XVI Ferrante Loffredo la adattò all'uso dell'artiglieria. Forma cilindrica, alta trenta metri, con scala a chiocciola praticata all'interno della muraglia, dominava l'Adriatico del romano Molo Adriano e del mare in cui fiorivano gli scambi commerciali, ma dal quale potevano giungere minacciose invasioni. Il suo profilo ricorda quello di un'altra torre, alzata a nord della città nel XIV secolo.
"Oggi, anche il ponte levatolo è sparito, e dell'impalcatura in legno - che separava il piano inferiore dalle tetre prigioni e quindi dai sotterranei insidiosi e micidiali - non rimane più traccia. Solo qua e là, negli strombi delle saettiere, si veggono incisi stemmi ed iscrizioni di mercenari, venuti dalle varie provincie dell'esteso dominio per la difesa del baluardo; e sui muri del carcere si scorgono corrosioni di ruote tormentatrici e si leggono graffite frasi di dolore e di disperazione che gittano una sinistra luce sul periodo del servaggio feudale e sugl'istinti filini dell'ultimo Conte di Lecce". Per accedere all'interno, nel XVIII secolo fu gettato un arco in muratura. In stile gotico-angioino, questa Torre ricorda la "Tourgue" descritta con viva eloquenza da Victor Hugo.
Il Castello di Copertino, infine, tra i monumenti meglio conservati d'architettura militare. Realizzato nel 1540 dall'architetto copertinese Evangelista Menga per volere del Marchese Alfonso Castriota, generale di Carlo V e feudatario della vasta Contea, istituita da Carlo I d'Angiò nel 1266. Di pianta quadrata, ha angoli robusti con baluardi poligonali; circondato da un ampio fossato. Unica la porta d'ingresso, opera marmorea di notevole bellezza, che ricorda l'Arco Alfonsino di Napoli, con nicchie, panoplie e bassorilievi commemorativi, e con i medaglioni in rilievo di Goffredo d'Altavilla, di Manfredi d'Hohenstaufen, di Carlo d'Angiò, di Gualtiero di Brienne, di Maria d'Enghien, di Raimondello Orsini Del Balzo, di Ladislao d'Ungheria, di Tristano e Cristina Chiaramonte, di Isabella d'Aragona, di Carlo V d'Absburgo e di alcuni Castriota. All'interno, il maschio dell'antica rocca, motivi architettonici e ornamentali che risentono dell'influenza del rinascimento toscano, una Cappella votiva già ornata di affreschi dello Stradella, due mausolei barocchi di Umberto e lacopo Squarciafico, succeduti ai Castriota nel possesso del feudo.
Vi dimorarono Maria d'Enghien, Contessa di Lecce, Principessa di Taranto e infine infelice moglie di re Ladislao di Durazzo; Tristano Chiaramonte, gentiluomo francese al seguito di Giacomo della Marcia, e sua moglie Caterina Del Balzo Orsini; e poi le loro figlie, Sancia che andò sposa al Duca d'Andria, Margherita che fu Principessa d'Altamura, e Isabella che cinse la corona di Napoli, scongiurando le tempeste addensate "sul capo dell'indegno marito Ferrante I d'Aragona". Il castello copertinese venne completato quando si fecero più insistenti e micidiali le incursioni dei pirati e le mire dei Sultani di Costantinopoli sull'Europa meridionale.
Da ultimo, (inesorabile come il suo monarca, Filippo II, nello stroncare i germi della Riforma Luterana, ma vigile ed esperto nell'esercizio del potere), il Viceré Parafan de Ribera, nella seconda metà del XVI secolo, realizzò su tutto il litorale salentino una selva di torri, che erano nella stesso tempo luoghi di vedetta per spiare le mosse del nemico e punti di riferimento per impedire ogni specie di contrabbando. Dalla prima metà del secolo XVII ai primi anni del XVIII, allontanatasi la minaccia delle incursioni, alcuni feudatari trasformarono i castelli in lussuose dimore, liberandole d'ogni impronta militare. In questo modo vennero trasformati i castelli di Alessano, Botrugno, Corigliano, Scorrano, Francavilla, Monteroni, Montesardo, Poggiardo, Specchia, Taurisano, Tricase, e via di seguito; e sorsero i grandiosi palazzi ducali o marchesali di Maglie, Martina Franca, Melpignano, Manduria, Montemesola, Ruffano, San Cesario, Sternatia, eccetera. Fra gli altri, diedero un valido contributo all'architettura artisti salentini come Evangelista Menga da Copertino, Gian Giacomo dell'Acaya da Lecce, Antonio Renna da Tricase, Angelo Cornianeo da Corigliano. Del pari, nelle campagne dell'intera regione, in varie epoche vennero fortificate, o sorsero già fortificate, le masserie, centri vitali della produzione agricola e dell'allevamento di bestiame. Che tuttavia non sfuggirono ad atti di pirateria, né, in seguito, ai ricatti e agli assalti del brigantaggio. E anche questa è storia, in buona parte già percorsa dagli studi, e proprio su questa rivista esplorata per primo, o tra i primissimi, dall'indimenticabile Enzo Panareo. Sull'esempio, sicuramente, dei "viaggi" all'interno della civiltà e della cultura di Terra d'Otranto che Pietro Marti ci lasciò, splendida eredità di uno spirito colto, rigoroso, sensibile, e soprattutto innamorato della sua terra, della quale esaltò le bellezze, descrisse i ruderi, compianse le rovine totali e, già allora, l'incuria e l'abbandono da parte di tutti: e quel "tutti" volle sottolineare, anche se per occasione contingente parlava di Santa Maria a Cerrate, simbolo del disinteresse "ostinato e inesplicabile". Ci voleva un grande amore, e ci voleva una nobile ira per scrivere parole di tanta franchezza e lealtà. E anche questa è una lezione di comportamento che giunge fino a noi, nella sua rara limpidezza e determinazione: A agitare, nella nostra zona del rimorso, il dubbio che dovremmo essere degni di quello che furono gli antichi padri.

FIGLI DI UN DIO MINORE
La dimora-castello di Tricase è ancora lì, all'ingresso della cittadina, in una strada periferica: pietra su pietra, argenteo nelle sere chiare; in parte diroccato: ma ancora visibile nelle strutture essenziali, ben delineate, leggermente rastremate verso l'alto. Un dio maggiore, così amiamo ricordarlo, ripensando alla parte interna del territorio, quella che si increspa nelle serre ruvide e sassose che si addolciscono con le chiome degli ulivi: le terre di Vincenzo Ciardo e delle sue tele spatolate corpose. L'interno, appunto. Dove le casupole di pietre vive testimoniano che l'opus incertum fu mestiere diffuso; e dove crebbe una civiltà contadina che intendeva radicarsi sulla terra per riaffermare il possesso e il dominio, alla maniera del mondo sassone.
Non c'è un itinerario di queste piccole costruzioni. Esse irretiscono l'intera penisola salentina, la caratterizzano e nello stesso tempo identificano un'architettura fantasiosa, essenziale e vitale. Furono microscopiche dimore e rifugio, deposito di attrezzi e magazzini per i prodotti: baricentri dell'agricoltura sui minifundi. Spesso articolate (raramente a cono; più di frequente a tronco di cono, a tronco di piramide, con scaletta circolare esterna, con vestibolo), a volte contigue, e in alcuni casi con vicinanza di forno, in altri con vicinanza di cisterna o di pozzo con orlo appena segnato da corona quadrata o rettangolare. All'ombra di un albero (il fico, che regnò sovrano in Salento, e diede per lungo tempo la materia prima per evitare il sopravvento della fame; a volte il noce, ma soltanto negli appezzamenti più estesi; o il gelso); a ridosso di un costone, oppure, se dominava la pianura a perdita d'occhio, in pieno sole. Con forte muratura a secco, al punto che è possibile ricavare, in quelle superstiti, nicchie e piccoli sgabuzzini interni. Ora ricercate, se a gruppi, negli entroterra marini, ristrutturate, abitate d'estate, circondate da giardini e muri a secco di delimitazione della proprietà. Un giorno, oltre che punti di riferimento del lavoro agricolo, anche luoghi di scampo dalle minacce che venivano dal mare. Difendibili facilmente proprio per la loro nuda debolezza e visibile precarietà. Che tuttavia fino a noi sono arrivate, perché ne facessimo scempio con fredda indifferenza e con alacre determinazione. Vanno infatti in rovina, simboli della nostra volontà di rimozione; e finiscono sottoterra, strato archeologico di fondamenta e di pavimenti, di "riempimenti", come si dice. Cioè, di distruzione di un patrimonio minore finché si vuole, ma pur sempre fermo nella memoria di quanti hanno vissuto il clima (il sapore, l'odore, il contatto diretto o contiguo) della civiltà contadina, e cancellato da chi vive l'inciviltà del consumismo. E' stato scritto che il progresso comporta molte perfidie e altrettanti tradimenti. Ed è vero. Come è vero che è assurdo impedire il progresso. Ma questa è una storia diversa: chi distrugge le testimonianze della propria storia è in regresso, perché corre il rischio di doverla rivivere, quella storia. E contro che cosa si eserciterà il vandalismo, allora? Contro le "splendide" periferie dei nostri paesi e città, tombe della case a secco che ci siamo vergognati di conservare, come se ci fossero state estranee o nemiche?

MA FURONO ANCHE TANE DI BRIGANTI
Case di campagna provviste di punti di vedetta, masserie fortificate, case a secco mimetizzate da folta vegetazione, vissero più tardi, dopo il 1860, una loro storia drammatica, quella del brigantaggio. Non del livello di ferocia e di determinazione di quello delle "province settentrionali" del Sud, né di quello della Basilicata e della Capitanata, che coniugavano ideali politici e grassazioni; ma quasi esclusivamente di carattere estorsivo, e dunque banditesco più che brigantesco nell'accezione storica di questo termine: e pertanto ritenuto per la maggior parte delle vicende "secondario", al punto che Terra d'Otranto, esclusa l'area tarantina, non venne inglobata fra quelle che furono dichiarate "invase dal brigantaggio" col regio decreto del 20 maggio 1863. In ogni caso, il banditismo otrantino ebbe conseguenze funeste, culminate con la repressione che mise fine a una serie costante di lutti e di rapine.
A nord della provincia tarantina agivano le bande di Francesco Ranallo, Francesco Paolo Valerio, Antonio Locaso, Francesco Perrone, Rocco Chirichigno e dei "nominati Egidione e Cappuccio"; Ginosa fu luogo d'elezione delle bande suddette, mentre nei dintorni operavano le bande di Giuseppe Valente, Francesco Salvatore Laveneziana, Cosimo Mazzeo, Pasquale Scialpi, Pasquale Trisolini e Arcangelo Cristella. A Ceglie Messapica dominava la feroce banda di Vitantonio Cinieri. Altre organizzazioni criminali, minori, agivano in proprio o confluivano periodicamente nelle file della banda di Tommaso Romano, il "Sergente di Gioia" e in quelle dello "Statico" di Melissano. Alcune di queste bande si coalizzarono nel territorio di Laterza, fra le masserie "Purgatorio" e "Monaci" in territorio, quest'ultima, di Noci. Intorno a Ginosa, intanto, era attiva la banda di Agostino Serravalle.
Nell'alto brindisino operavano le bande Valente, Mazzeo, Trisolini, e quella del gallipolino Giorgio Solidoro. Giuseppe Valente era un trainiere di Carovigno e taglieggiava le popolazioni dei territori di Ostuni, San Vito, Mesagne, San Pietro Vernotico, fino ad Orla e a Ceglie Messapica. In soli quattro mesi, da settembre a dicembre del 1862, riuscì a collezionare "ottantatre reati, fra omicidi, rapine, grassazioni, estorsioni, sequestri di persona, incendi, furti di bestiame, resistenza e tentati omicidi a componenti la forza pubblica". Riconosciuto da un vetturale, fu catturato a Lecce, vicino Porta Napoli, e condannato all'ergastolo con altri sedici banditi.
Dalle costole della sua banda nacque Pasquale Trisolini, contadino di Palagianello, attivo nei territori di Laterza, Mottola e Castellaneta, alleato con Francesco Vizzillo, Giovanni Cuscito di Gioia, e Arcangelo Cristella di Laterza. Il gallipolino Solidoro, detto "Scardaffa", preso fra Oria e Mesagne, fu passato per le armi dai carabinieri a Francavilla Fontana, il 9 luglio 1863. Cosimo Mazzeo fu catturato nelle campagne di Martina Franca e fucilato su condanna del Tribunale militare di Potenza. Pasquale Scialpi, contadino di Manduria, e il feroce Oronzo De Pasquale, contadino di Fragagnano, furono condannati all'ergastolo, mentre Francesco Nico, Angelo Lucarelli e Lorenzo Carrieri scontarono vent'anni di galera, mentre le bande di Giuseppe Coco, Antonio Anastasia e Michele Altavilla scorrazzavano nelle campagne fra Grottaglie e Fragagnano. Francesco Perrone di Laterza fu ucciso, insieme con Francesco Paolo Laricchiuta di Conversano, dopo un conflitto a fuoco con i carabinieri fra le masserie di Laterza. Verso Manduria agivano le bande di Gregorio Sirsi, Francesco Perrucci, e organizzazioni minori.
Infestata dai fuorbanditi la campagna di Ostuni. Un tal Trinchera fu fucilato dai carabinieri, dopo un conflitto intorno alla masseria "Belmonte". Dici anni di lavoro forzati ebbero i malviventi Pietro Lodeserto, Francesco De Simone, Giuseppe Patisso e Nicola Carbone, che avevano vessato persone e campagne del territorio di Oria. I territori dell'Arneo, Nardò, Leverano, Veglie, San Pancrazio, Avetrana e Manduria erano stati punti di riferimento della grande banda di Ciro Annicchiarico, che poi, incalzato dalle truppe di Church, lasciò il campo libero e si trasferì nel materano. Nell'Arneo confluirono briganti del tarantino: i più noti, Donato Curione, Francesco Cazzella, Giuseppe Matarrese e Carmine Buia, taglieggiatori delle masserie "Boncore", "Santa Chiara", "Casarze", "Donna Menga" e "Curtiveteri", le più ricche dell'arca. Il gallipolino Luigi Occhilupo, della banda Annicchiarico, catturato dopo un conflitto a fuoco, fu pubblicamente decapitato nella piazza di Lizzanello.
Nel Capo di Leuca operarono, oltre al gallipolino Solidoro, anche i capibanda Ippazio Gianfreda, sbandato di Alezio, che spesso si unì a Quintino Venneri di Alliste e a Barsonofrio Cantoro di Melissano, e Rosario Parata di Parabita, detto "Sturno", che terrorizzò Poggiardo, Nociglia, Gagliano. Caduto in mano alla giustizia con i complici Vito Manso, Elia Mastrandrea e Vincenzo De Blasi, Parata fu condannato a sette anni di reclusione e a due anni di lavori forzati.
Coeva l'attività di Quintino Venneri, di Angelo Ippazio Ferrari di Casarano, il Cantoro, Giuseppe Piccinno di Supersano, Vincenzo Barbaro di Alliste. Vennero catturati tutti, e incarcerati, dopo un lungo rosario di rapine, sequestri e omicidi. Ma il basso Salento non trovò ancora pace. Sei o sette briganti, capitanati da Salvatore Coi, agirono tra Racale, Ugento, Alliste e i territori circostanti. Coi e gli altri furono catturati presso la masseria ugentina "Campolusio", ed ebbero i lavori forzati a vita. Correva l'anno 1866. E la vicenda Coi fu l'ultimo bagliore dell'inglorioso brigantaggio nella Puglia centro-meridionale, fra le sue campagne, le masserie, i rifugi di pietra a secco, i trulli. Drammatiche storie locali, sulle quali riflettere anche per capire i tempi che viviamo.


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