Premessa storica
Con l'arrivo del razionalismo e dell'empirismo forse si andavano delineando
già anche gli stessi limiti contro i quali tale visione precisa
del mondo doveva per forza imbattersi. In questa ottica si trovano
pure gli spunti per un eventuale superamento. L'idealismo kantiano
gettava le basi per una radicale indagine non soltanto sui limiti
della facoltà intellettiva ma anche sulle altre aspirazioni
umane che nessun sistema razionale era mai riuscito ad appagare. Con
Kant moriva definitivamente la metafisica tradizionale, anzi la metafisica
cessava di essere uno dei campi più importanti della filosofia.
Ma con Kant rinasce anche la visione di un mondo infinito al di sopra
della facoltà intellettiva. E' lui che distingue nettamente
tra la conoscenza intellettuale e la conoscenza razionale. Dio, l'infinito,
l'ansia per la sopravvivenza, lo spirito non potevano più fare
parte del programma filosofico, ma la coscienza umana non poteva allo
stesso tempo liberarsi del tutto dei sospetti, delle suggestioni che
tali concetti continuavano a presentarle.
Da Kant, Hume, Locke, Berkeley e altri, abbiamo ereditato il complesso
di una facoltà razionale in grave crisi; abbiamo imparato che
soltanto l'esperienza empirica è in grado di garantirci qualsiasi
tipo di conoscenza scientifica e, dunque, certa. Le basi della conoscenza
sono ora psicologiche; ci accorgiamo che ci sono modelli di causa
ed effetto, ma le nostre conclusioni si spiegano soltanto alla luce
della consuetudine. Ci sono leggi, secondo Newton, che operano al
di fuori della nostra volontà e senza nessun legame con questa.
Ecco perché Kant, intuendo la distinzione tra il mondo dei
fenomeni e il mondo dei noumeni, ha parlato anche di una netta rottura
dentro lo stesso sistema della nostra conoscenza. D'ora in poi o si
ricorre alla sensibilità morale, naturale e autentica in sé,
ma priva purtroppo di ogni sostegno scientifico, o si naufraga miseramente
nel grande mare della solitudine totale e della inevitabile disperazione.
Come si spiega altrimenti l'insistenza, stilisticamente inspiegabile,
di un Leopardi su parole apparentemente banali come questo/questa
e quello/quella che in tutto in una breve lirica di quindici versi
- L'infinito - si ripetono ben otto volte? I limiti del razionalismo
sono già superati da un romantico che oscilla continuamente
tra i due poli opposti della conoscenza intellettuale e le suggestioni
dell'intuizione.
Pirandello, crede sotto alcuni profili di Capuana e di Verga, coglie
mirabilmente la lezione positivistica, ma con cautela e anche con
sospetto, come si può subito concludere dalla lettura delle
sue prime opere, già segno di una forza d'osservazione che
va oltre l'apparenza delle cose. Si sente già che il quadro
presumibilmente fotografico entro cui la vita viene delineata è
assai stretto, troppo scomodo per lo spirito. De Waelhens sembra sintetizzare
la posizione pirandelliana quando afferma che la contingenza è
qualcosa che l'uomo non può mai accettare. Le proposte di Comte
funzionano soltanto fino ad un certo punto; il nuovo mondo delle certezze
ha anche esso bisogno di una sua logica. La finitezza è insopportabile
e deve essere in qualche modo superata e oltrepassata. L'alternativa
del materialismo scientifico è deludente anche per chi ci crede.
Il monismo neutrale di un Russell, ad esempio, chiude l'uomo nella
gabbia della sua solitudine, anche se l'uomo, nel frattempo, cerca
di uscirne.
Da questo punto di arrivo della nuova cultura "laica" sembra
partire Pirandello con una nuova serie di interrogativi. Se l'essere
e l'apparire, tradizionalmente distinti, sono stati per qualche tempo
identificati, ora sembrano assumere la funzione di due opposti irriconciliabili.
Conoscere l'essere ora significherebbe anche oltrepassare l'apparire.
Il nuovo soggettivismo non è in alcun modo una conclusione
finale.
Alternativa
alla certezza negativa
Spetta ad un grande spirito politico come Pirandello offrirci la vera
e propria alternativa a questa disperata e certa solitudine in cui
tanti filosofi e letterati dell'era moderna hanno posto l'uomo, contraddittorio
a sé perché mai rassegnato, mai contento della definizione
che gli viene data. E' l'alternativa del dubbio continuo, del relativismo
che non si traduce mai in assolutismo, come accade spesso in tanti
altri spiriti moderni. L'universalità di Pirandello va vista,
dunque, non soltanto in termini storico-culturali, cioè come
espressione dell'esperienza di un'epoca particolare, ma anche e ancor
di più in termini esistenziali, siccome la sua esposizione
elimina ogni considerazione in sé politica o sociale, e arriva
al limite in cui l'uomo si trova a confronto con se stesso, abitante
del cosmo, coscienza turbata da millenni da quesiti ai quali non è
mai riuscita a dare una risposta.
E' ovvio che l'umanesimo di Pirandello è l'aspetto più
valido e determinante. Come una vasta schiera di scrittori (Joyce,
Svevo, Kafka, Proust, Barbusse, Hesse), l'autore cerca di valorizzare
il concetto dell'uomo come centro dell'universo, mettendo in rilievo
la verità che soltanto l'uomo è in grado di pensare
l'esistenza, cioè di tradurla in consapevolezza. Ciò
che è distintivo è che questo grande spirito nasce in
una piccola città di una piccola isola, e che è del
tutto mediterraneo. Alla sua profonda mediterraneità sono legate
le sue sensazioni e le sue proposte. Il senso religioso con cui vengono
dimensionate le idee e le esperienze di vario tipo, l'incubo della
solitudine derivante non soltanto da condizioni private ma addirittura
dalla sua identità di isolano, la consapevolezza della ricca
antichità storica di cui si vanta la sua Sicilia a cui egli
rimane fedele fino all'ultimo, la vicinanza della sua terra all'Africa
dove vige ancora un sistema teocratico, l'ambiguità della sua
situazione come siciliano vicino e partecipe alle suggestioni più
profonde della cultura dell'epoca ma anche destinato a vivere in lontananza
dai cosiddetti grande centri della cultura: questi ed altri aspetti
sono, naturalmente, condizioni destinate ad incombere gravemente sulla
sua sensibilità e paradossalmente anche ad aiutarlo a scoprire
in sé la propria maschia e scarna originalità.
L'originalità consiste soprattutto nella sua capacità
di universalizzare la rilevanza di una condizione particolare e di
tradurla in parabola dell'intera condizione umana. La mediterraneità
siciliana, dunque, non è un aspetto da sottovalutare o da eliminare,
come ha spesso fatto tanta critica pirandelliana. L'insularità
cosmica ha le sue origini nella strettezza di una esperienza vissuta
in prima persona. La mediterraneità pirandelliana, dunque,
è già una forma di condizione religiosa, almeno nel
senso storicoculturale del termine.
Pirandello è stato associato a vari altri maestri del nostro
secolo, ma una attenta lettura di tutta la sua opera rivela subito
che egli mantiene rigorosamente le distanze dalle posizioni certe
e categoriche che sembrano arrivare a nuove rivelazioni sulla coscienza
umana. In verità, la sua ambiguità non è mai
un punto di arrivo, ma un continuo stato d'animo sempre aperto alle
più svariate "soluzioni". Ma si tratta continuamente
di soluzioni temporanee, anch'esse ambigue e relative. Alla base di
tutta la sua profonda visione c'è l'angoscia di chi non è
contento della propria condizione umana, e non la accetta come fatto
in sé spiegabile. La sua scontentezza è già una
condizione religiosa (una eredità, questa, che va vista anche
alla luce dell'ottica ottocentesca che l'autore coglie con mirabile
duttilità).
Considerata in termini agostiniani e pascaliani, per non parlare anche
di Kierkegaard, la sua interpretazione dell'essere lascia sempre uno
spiraglio di stranissima e altrettanto potente ed efficace speranza,
appunto perché non si chiude in chiave nuovamente dogmatica.
Pirandello è un nervoso ricercatore, mai un calmo trovatore;
non scopre ma indaga, non conclude ma suggerisce. Il suo dolore deriva
dalla sua profonda volontà di superarlo, anche se ci mancano
le possibilità. Per lui, pensare l'esistenza significa anche
provare una misteriosa nostalgia per qualche altra, diversa, cioè
identificabile e certa. Il senso dell'assenza di questa ultima è
al centro della sua tematica essenziale.
Pascal aveva già immaginato di sentire la voce di Dio: "Consolati,
tu non mi cercheresti se non mi avessi trovato" (1). E' una frase
tipicamente agostiniana (2), e riecheggia fedelmente le famose sentenze
di San Bernardo: "Nemo te quaerere valet, nisi qui prius invenerit"
e "Non possunt quaerare non habentes" (3). Pirandello sembra
ribadire il giudizio di Kierkegaard che "la ragione non penetra
mai nell'assoluto" (4). La fede cerca l'assoluto (5), ed è
questa la strada di Pirandello, anche se sembra non arrivarci, lasciando
ugualmente aperte le varie alternative. Il "peccato" di
Pirandello, tipico dell'apostolo San Tommaso, sarebbe quello di voler
chiedere ragioni e spiegazioni, mentre, continua Kierkegaard, il fanciullo,
cioè il credente, non si permette di fare queste domande, ma
accetta ciecamente, appunto con semplicità piena di fiducia
(6), o meglio con quella che ora si chiama "la ubbidienza nuova"
(7). Nelle conferenze date nell'Università di Aberdeen negli
anni 1949-1950 e raccolte nei due volumi The Mystery of Being, Gabriel
Marcel parla di temi come i seguenti: la ricerca senza "pre-nozioni",
la distinzione tra immanenza e trascendenza, il sentimento, la presenza
umana come mistero, l'esistenza e l'essere, la possibile evidenza
che si possa trovare oltre ciò che è verificabile. Marcel
ha anche il coraggio di constatare che a volte la sua fede gli sembra
straniera, e che c'è una rottura tra l'io credente e l'io riflettente.
Non si tratta di un semplice incidente; la possibilità di una
rottura tra l'io e la coscienza sembra far parte della propria definizione
umana (8). La tentazione di Pirandello somiglia molto a quella che
Marcel scopre nei teologi, cioè intelletti che pretendono di
poter capire (9). In altri termini, il dibattito pirandelliano si
svolge sempre entro limiti definitivamente religiosi e rischia di
andare oltre questi confini semplicemente perché esige troppo
dalle proprie facoltà intellettive. L'ateismo, al contrario,
rinunzia ad ogni tipo di indagine ed è troppo certo per coinvolgersi
in discussioni, dal momento che anche la discussione fa parte della
sua inerente contraddittorietà: cercare di negare ciò
che non è possibile provare è assurdo.
Questi sono soltanto spunti che possono auspicare un sistematico dibattito
sulla tradizione filosofica da cui parte Pirandello e che egli, con
grande genialità creativa, trasforma e modifica secondo i propri
modelli letterari. La posizione pirandelliana può essere meglio
valorizzata anche se viene messa a confronto con altre opere dell'epoca,
come Le voyageur sans bagage (1936) di Jean Anouilh e La Nausée
(1938) di Sartre.
D'altro canto sarebbe del tutto superfluo citare esempi dai testi
pirandelliani, siccome questi godono una loro organicità unitaria,
partendo e arrivando secondo uno schema monotematico fondamentale.
Al centro di questo schema c'è l'uomo che desidera uscirne
(ed è questo profondo desiderio che distingue Pirandello dai
suoi colleghi) e salvarsi scoprendo una nuova libertà dove
il relativo diventa assoluto e il contingente diventa necessario.
Avendo scoperto il problema, come avrebbe detto San Tommaso, non aspetterebbe
poi a lui indicare anche la soluzione. Sarebbe erroneo, dunque, concludere
che il suo mondo, sempre aperto a nuove interpretazioni, abbia una
sua meta finale. Non a caso, si è tanto parlato di un Pirandello
essenzialmente politico.
La lotta contro
l'alienazione
Partendo da condizioni tipiche del naturalismo e del verismo, cioè
da condizioni storiche particolari, Pirandello subito approda a nuovi
spazi ben diversi. La sua realtà non deve essere osservata
ma ragionata, e nel frattempo si scoprono i limiti della facoltà
razionale. Al centro delle sue situazioni, sia nella narrativa sia
nel teatro, c'è sempre l'uomo solo, con se stesso, in confronto
con se stesso e con il mondo esterno, particolarmente quello delle
percezioni. Sotto questo profilo ci troviamo di fronte ad un esistenzialista
abbastanza strano e diverso: evita le astrazioni e cerca la concretezza
delle situazioni, per poi capire che è l'intelletto stesso
a crearsi la vita, l'astrazione che si scioglie in una forma. La realtà
fugge ad ogni definizione, e il conflitto è la vera e propria
politica dello spirito. Mettendo in un insieme la tesi e l'antitesi,
qui non si arriva necessariamente e logicamente ad una sintesi. Tale
"flusso continuo" non conosce conclusioni nette e precise;
è un incessante viaggio verso nuove scoperte necessariamente
paradossali, sempre sature di ulteriori paradossali sviluppi. L'itinerario
è caratterizzato dalla sua essenziale incompletezza.
Come Marx e Freud, Pirandello sente la presenza di una forza struggente
che aliena. Ma si tratta di una alienazione del tutto diversa, troppo
evasiva per essere propriamente definita. Non a caso, il linguaggio
pirandelliano traduce subito ogni denotazione in connotazione, dando
alle parole significati temporanei, legati soltanto a certe condizioni
precise e subito superate. Ci troviamo in un mondo quasi surreale,
evanescente ed effimero, messo in mezzo all'esperienza e al sogno,
tra il finito e l'infinito. L'immanenza e la trascendenza, astrazioni
che ora assumono il carattere di vere e proprie esperienze "comuni",
si fondono in un inspiegabile insieme. In tal senso Pirandello è
bergsoniano, ma solo fino al punto in cui i suoi personaggi si accorgono
della necessità, non della possibilità, del superamento.
L'ansia dell'infinito, del vago, dell'indeterminato, appunto del misterioso,
è la forza che alimenta, anima e tormenta la sua umanità,
anche se spesso sembra configurarsi in una condanna.
Afferma uno dei suoi personaggi: "La realtà non ci fu
data e non c'è, ma dobbiamo farcela noi, se vogliamo essere:
e non sarà mai una per tutti, una per sempre, ma di continuo
e infinitamente mutabile. La facoltà d'illudersi che la realtà
d'oggi sia la sola vera, se da un canto ci sostiene, dall'altro ci
precipita in un vuoto senza fine, perché la realtà d'oggi
è destinata a scoprirsi illusione domani". Ecco la profondità
del paradosso pirandelliano: in un'opera tanto distinta per la sua
unità visionaria e tecnica, domina l'assenza dell'unità,
la mancanza della certezza. Se manca la fede propriamente detta, manca
pure l'ateismo, siccome tutti e due sono certezze. Dal problema dell'essere
si passa alla scoperta dell'apparire come condizione ambigua dell'essere,
donde nasce il problema fondamentale: quello del conoscere.
L'umanità è dunque in preda ad una continua illusione
perché la ragione è anche forza di tradimento. E il
tradimento si delinea così, cioè come "la facoltà
d'illudersi che la realtà d'oggi sia la sola vera". Il
concetto dell'oggi non è soltanto temporale e terrestre; il
senso del domani tocca anche l'eventualità della morte, l'aldilà,
appunto il domani misterioso, che nessuna scienza può spiegare.
Pirandello non parla soltanto di una infinita schiera di momenti e
incidenti, ma anche della morte come condizione ambigua, misteriosa,
diversa dalla presente. Il suo pessimismo è diametralmente
opposto all'ottimismo compiacente di chi si accontenta di una visione
limitata e precisa della vita. Anche se ci sentiamo costretti a parlare
di una psicologia e non di una teologia, questo è sempre dovuto
al fatto che l'uomo pirandelliano agisce sempre entro i limiti del
suo intelletto, prigione ma anche spazio infinito. L'oltre, dunque,
fa parte della problematica fondamentale e non basterebbe una spiegazione
puramente sensistica a spiegarlo.
Come gli esistenzialisti, Pirandello è in cerca dell'autenticità,
della sincerità, del senso particolare che deve per forza avere
la cosìddetta assurdità della condizione umana. L'esistenzialismo
ateo si limita a descriverla, considerandola un fatto compiuto e inspiegabile;
l'esistenzialismo pirandelliano è più ambizioso e naviga
sempre nel mare del dubbio, dell'approssimativo e dell'ignoto. Il
relativismo, la tecnica del teatro nel teatro (cioè del contenuto
diventato forma, ma anche espressione metaforica dell'intelletto che
si guarda nello specchio per tirarne nuove possibilità di conoscenza),
il dualismo tra vita e forma, sono tutti aspetti di un mondo "in
fieri", mai chiuso e definito, sempre in attesa di essere spiegato
e giustificato, altrettanto lontano dalla spiegazione e dalla giustificazione.
Il cosìddetto cerebralismo pirandelliano è anche lirico,
i concetti si esprimono figurativamente; complessi argomenti conducono
a lunghi periodi di silenzio. La tragedia, che sembra finale, si scioglie
gradualmente in lirica.
Un esistenzialismo
metafisico
La tentazione a cui si espone Pirandello è dunque religiosa.
Non potendo concludere, egli naviga nel grande mare delle proprie
intuizioni. Oscilla continuamente tra la noia e l'attesa, rischia
di naufragare e riesce a tradurre la vita in coscienza. Lontano da
ogni tipo di dogmatismo schematico di qualsiasi natura, sia istituzionale
sia nihilista, l'agrigentino rimane sempre fedele alla sua identità
elementare e insostituibile di mediterraneo, cioè di crede
di grandi tradizioni religiose. La sua ontologia non elimina né
l'assoluto né il misterioso, anzi deriva da questi la sua originale
forza, una forza che sarebbe difficile trovare nei suoi grandi colleghi
stranieri non-mediterranei. Tutto il mondo pirandelliano non può
essere spiegato senza un riferimento o ad una metafisica già
esistente o alla necessità di crearne una nuova. La sua presunta
immanenza è superata dal desiderio di una alternativa; l'ignoto
è realmente sofferto come dimensione oscura dello spirito.
E' dunque possibile una lettura pirandelliana alla luce degli esistenzialisti
cristiani come Kierkegaard e Marcel. Anche per Jaspers la vita non
deve condurre alla conoscenza dell'esperienza, ma alla trascendenza
dell'esperienza; è questo l'antidoto al sensismo, ad ogni tipo
di immanentismo. Ci dovrebbe essere, afferma Jaspers, un essere degli
esseri (das Sein als Sein) che la mente umana non è mai in
grado di penetrare e di conoscere.
Sono religiosi anche termini come angoscia, paura, crisi, nausea (una
lezione di origine romantica, approfondita in vari modi dagli esistenzialisti),
perché esigono una risposta alternativa. Rosmini aveva già
sostituito la funzione affidata all'illusione (creata dall'io egoista)
con la missione del cristianesimo che realmente "soddisfa tanto
a tutte le umane necessità" (10). Se Rosmini, anticipatore
sotto vari profili dell'esistenzialismo cristiano del Novecento, aveva
decretato che "la natura ha bisogno di Dio per essere spiegata"
(11), Pirandello, pur non arrivando ad una vera e propria conclusione
esplicita, afferma la necessità di una spiegazione, che del
resto egli non trova mai nella scienza. Se Pascal, distinguendo tra
ordine del cuore e ordine della ragione, aveva concluso che "il
cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce" (12), Pirandello
ha anche lui riconosciuto, pur amaramente, che la ragione non è
in grado di spiegare l'esistenza. Alla luce di una interpretazione
pascaliana, Pirandello avrebbe peccato per aver mancato di sottomettere
la propria ragione (13), ma non per aver escluso la possibilità
di ragionare e per aver equiparato l'ignoto con il nulla.
In altri termini, Pirandello, ricercatore instancabile del senso della
verità, è anche l'erede di una ricca tradizione apologetica
religiosa. Anche lui sente il misterioso e l'indefinito, e se la sua
solitudine sembra lontana dalla certezza della fede, è sempre
questa una condizione dell'anima che continua ad interrogarsi, mai
una tappa finale. Il profondo discorso di Pirandello non ha chiusura
perché anche nella sua conclusione assume il carattere di un
nuovo interrogativo. Una diversa interpretazione nuocerebbe alla sua
intrinseca unità visionaria, e sarebbe contraddittoria al suo
aspetto più essenziale: la dubitazione. Pur eliminando le certezze,
questo mondo rimane aperto, esprimendo effettivamente la sconfitta
della ragione di fronte a realtà superiori. Sarebbe opportuno
approfondire tale proposta alla luce del suo carattere ugualmente
mediterraneo ed esistenzialista cristiano. Il dramma continua.
NOTE
1) Pensées, VII, 553.
2) Confessiones, X, 18, 20.
3) De diligendo Deo, VII, 22; Sermones de diversis, 37, 4.
4) L'inquietudine della fede, ed. M. Tosco, Piero Gribaudi Editore,
Torino, 1968, p. 23.
5) Ibid, p. 23.
6) Christian Discourses, ed. W. Lowrie, Oxford University Press, London-New
York-Toronto, 1952, p. 320.
7) L'inquietudine della fede cit. n. 89.
8) The Mystery of Being, II, trad. R. Hague, The
Harvill Press Ltd., London, 1951, p. 126.
9) Ibid., p. 131. La crisi pirandelliana, radicalmente opposta alla
certezza dell'ateismo, sembra riassunta in questo brano cartesiano:
"And although the light of reason may, with the utmost clarity
and evidence, appear to suggest something different, we must still
put our entire faith in divine authority rather than in our own judgement"
(The Philosophical Writings of Descartes, I, trans. J. Cottingham,
R. Stoothoff, D. Murdoch, Cambridge University Press, Cambridge, 1985,
p. 221).
In altri termini, il razionalismo critico di Pirandello, pur incapace
di rifugiarsi nella fede, continua a svolgersi sul livello del dubbio.
10) Della speranza - Saggio sopra alcuni errori di U. Foscolo, Boniardi-Pogliani,
Milano, 1840, p. 100.
11) Ibid., p. 84.
12) Pensées, IV, 277.
13) Ibid., IV, 270.