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giorni di Badoglio risvegliano naturalmente tanti ricordi in me, anche
perché l'ho conosciuto nel corso di un incontro in cui l'invitavo
a scrivere qualcosa per una enciclopedia che è restata sempre
e solo allo stato progettuale, pur avendo a che fare con un editore
che era, al pari di Treccani, industriale tessile; l'ho conosciuto,
ripeto, personalmente.
Ma di tutto l'incontro, avvenuto al Consiglio Nazionale delle Ricerche
di cui era divenuto (!) presidente, quello che ricordo è l'attenta
lettura che, alla vigilia dell'imminente guerra, dedicava ad un libro.
Ne trassi la convinzione che la nostra partecipazione al conflitto era
del tutto improbabile. Improbabile, impossibile, come ritenevano tutti
coloro che cercavano di saperne di più. D'altra parte in questa
materia la storia ci ha fornito interpretazioni e documentazioni, e
queste ultime ormai non ci riserbano ulteriori novità.
Di questi 45 giorni c'è il clima. Un clima, cioè, che
è stato di attesa, perché quello che contava era la pace,
con il preliminare armistizio ed il conseguente inizio di un nuovo ciclo,
che è quello in cui viviamo oggi. Con la riconquista della libertà,
con l'evoluzione ed il progresso dei circa sessanta anni di questo secolo,
e nuovamente con le attese incalzanti dell'ultimo quinquennio prima
dell'inizio del Tremila!
I miei medaglioni, chiamiamoli così, ricercano i propri riscontri
nelle figure della Resistenza, in talune del neofascismo con il quale
mai ho avuto alcunché da dividere, in un giornalismo che era
cosciente della sua funzione urgentemente innovatrice nelle idee e nelle
espressioni anche editoriali, nella realtà, anch'essa con un
"vento" che allora immancabilmente proveniva dal Nord, in
una classe politica rispetto alla quale il vincolo del giornalista non
poteva e non può essere che quello del rispetto della propria,
personale funzione. Rispetto di se stessi, ripeto. E non parliamo, meglio
non scomodiamo termini ancor più impegnativi.
Aspiranti "Medaglioni"
in 50 anni
Personaggi della Resistenza ne ho conosciuti pochi. Ricordo però
Edoardo Sogno, conosciuto qui a Roma, agli inizi degli anni '40, allorché
lui era nel Gabinetto di un ministro degli scambi e valute ed io mi
occupavo di una rivista economica. Era brillante, perché era
stato ufficiale di cavalleria - ed allora questa era cosa che contava
-, ma mi sembrò timido. Non immaginai certo l'eroismo di cui
poi ha dato prova. Forse quella che allora mi apparve timidezza era
solo riserbo e riserva su quello che vedeva al suo esterno. E purtroppo,
per me, in termini di frequentazione o di conoscenza non ho altro
da aggiungere.
Per gli altri, ci sono i ricordi di quinta ginnasiale al Visconti
di Roma che riguardano Giorgio Amendola, quelli di Pietro Grifone
esperto agrario del primo Partito Comunista Italiano, mio compagno
di classe sempre al Visconti, il fuggevole scambio di sguardi con
Ferruccio Parri a piazza della Minerva a Roma, all'indomani della
sua alternanza al Viminale, la mia attenzione rivolta al rapido passaggio
di Palmiro Togliatti per via Campo Marzio, senza scorta, ma in doppiopetto,
lo svolgimento nella sede di Piazza Venezia della Confindustria durante
l'occupazione nazista di Roma di una riunione del Comitato della Resistenza
presieduta da Emilio Lussu. L'ospitante era un sardo, come Lussu,
quello che era stato vice segretario generale della Confindustria
e tale sarebbe divenuto poi fino alla vigilia degli anni '70: Giovan
Battista Codina, che tranquillamente passeggiava all'esterno, intrattenendosi
con me in confidenziale abitudine, che resta fra le cose più
care della mia vita.
La Confindustria, dunque, è stata anche questa e purtroppo
sono in tanti a non saperlo, anche perché non credo che i chilometri
di documenti rievocati per altre realtà possano trovare riscontro
anche in questo settore.
E veniamo al neofascismo, o meglio ancora al MSI. Sono fra i molti
che ne possono ricostruire la storia, ma non ne hanno conosciuto i
protagonisti. Con qualche ritardo, però. Uno di essi era giornalista,
toscano, già squadrista, già direttore di un quotidiano
romano, amico e promotore in squadrismo di Galeazzo Ciano. Era capitato,
in quanto successore di un suo corregionale, in un'agenzia quotidiana
giornalistica, di cui curavo la parte economica. Aveva indubbiamente
una capacità di mestiere che riusciva a portare al vertice,
esprimendola però solo in termini propriamente utilitari. Non
andava oltre, ma per l'intera sua vita è riuscito, con questi
limiti che non avrà mai voluto riconoscere, ad esercitare tutto
intero il suo attivismo. Di lui c'è solo questa immagine e
perciò non ne ricordo il nome.
L'altro personaggio di questo mondo è uno dei fondatori del
MSI, di cui è stato pure il segretario nazionale. Desiderava
conoscermi come giornalista, e cercava confronti, anche se doveva
spesso, come nel mio caso, constatare le distanze. Passano gli anni,
ci si continua a domandare dove andiamo, taluni oggi dicono in termini
politici che non dobbiamo più chiederci da dove veniamo, altri
in opposto dicono che le radici restano sempre quelle che sono. E
il discorso al riguardo può continuare a lungo, con inesauribile
dialettica. L'unico punto fermo è che gli anni passano, e con
gli anni i cosiddetti adeguamenti e aggiornamenti. L'importante è
la piena sintonizzazione con la nostra coscienza, un termine che va
pure scomodato senza pudore.
Giornalismo
nuovo del secondo dopoguerra
Ma torniamo nell'ambito del giornalismo di quei tempi e di questi
tempi. Anche qui ci sono i "medaglioni" da ricordare. Ne
rievoco solo alcuni.
A Roma, subito dopo la Liberazione, i miei sforzi di ripresa hanno
avuto a che fare con un editore, mio vecchio amico, che mi aveva stampato
qualche libro, che aveva avuto alterne fortune editoriali durante
il ventennio, che riteneva di avermi conosciuto da studente nella
sua tipografia di Piazza Navona. E non era vero, come ho scritto altre
volte.
Inventammo una rivista dal titolo Import-Export: ed era certo un'editoria
anticipatrice, in formato tascabile. Ma non ebbe fortuna. Certi acclimatamenti
richiedono decenni, ed anche oggi in questa specifica materia organismi
quanto mai consistenti anche dal punto di vista istituzionale sono
alla ricerca di adeguate e funzionali soluzioni tecniche. Il che significa
che il padre del problema molto spesso bisogna ricercarlo fra gli
avi, ma i padri delle soluzioni vanno ricercati nel succedersi delle
generazioni. D'altra parte, sempre restando in questa materia, poco
più di un decennio prima avevo pensato ed attuato un'agenzia
giornalistica settimanale dal titolo anch'esso anticipatore, L'Espansione
Economica, nell'impegno per una professionalità che sperava
e tentava di crescere. Oggi si dice che la dinamica sindacale, dello
sviluppo, dell'occupazione, dovrà sempre più fondarsi
sulla rinuncia al posto fisso (le statistiche statunitensi rivelano
che in ogni esistenza di lavoro c'è almeno l'alternanza di
tre campi, materie, e modi di occupazione).
Figuriamoci cosa bisogna dire per quanti di generazioni di poco più
di inizio secolo hanno rinunciato al posto fisso - ed i giornalisti
sono fra questi, da sempre - o hanno sperimentato l'emigrazione, a
cominciare da quelli della canzone delle cento lire richieste alla
madre per il passaggio marittimo oltre Atlantico a quelli per l'Africa,
con la effe doppia, come taluni eruditi o presunti tali allora scrivevano.
Ma il mio amico editore, ex tipografo, oltre ad avere acquistato la
Casa Editrice Carabba di Lanciano, aveva inopinatamente acquistato
Il Globo di Roma, il quotidiano economico che Luigi Barzini Jr. aveva
creato con notevole inventiva, da vero e proprio pioniere in una stampa
quotidiana economica che in Italia aveva un solo valido precedente
ed era quello de Il Sole a Milano, con origini risalenti al 1865,
e qualche tentativo collaterale, nascente o costituzionalmente anemico.
Barzini creò attorno a sé uno staff di notevole capacità,
in cui c'era anche qualche mio amico: un ex direttore generale del
Ministero delle Corporazioni per il ramo sindacale; Renato Spaventa,
padre di Luigi, per la parte economica; Leonardo Paloscia, segretario
di redazione, poi uno dei padri del nostro Istituto di Previdenza.
Sennonché ad un certo punto Barzini Jr. vendette, e a comprare
fu appunto il mio amico editore. Me ne offrì la direzione,
non ne fui pentito nel non accettarla, non ne sono pentito; resta
però il dispiacere di aver provocato il pentimento dell'acquisto
di chi nella convinzione di una mia partecipazione aveva fatto uno
sforzo superiore alle proprie forze.
Il Globo passò di mano, per tre volte ancora, se non erro.
Sul finire del '45 nel giornalismo romano si inseriva la terza nuova
voce, che si aggiungeva ai due altri quotidiani nuovi della Capitale,
che erano Il Tempo di Renato Angiolillo, con una precedente contiguità
o di questa testata o di altra (non ricordo) con Leonida Repaci.
Questa voce nuova era Italia Sera: una testata fondata, con il concorso
di un industriale tessile nonché banchiere (che si faceva notare
a Roma per le camicie di seta che indossava), da un nostro collega
dall'intuito anticipatore con tutti i riconoscimenti che gli spettano
e non so quanti lo ricordino in questa veste, perché nonostante
sia mio coetaneo, è un deputato, fra gli esponenti della Lega
Nord, "portavoce" o qualcosa di simile o di più,
e si chiama, come tanti altri (succede al Rossi), Luigi Rossi.
Egli mi affidò la parte economica, con la soddisfazione per
me, oltre che del mio primo stipendio, di recupero e ripresa, come
ho detto, di titolare di articoli e note: un esempio "Gronchi,
ministro (non ricordo se del lavoro o dell'industria) nostalgico del
corporativismo", o di dover elogiare i miei articoli al finanziatore
che avendoli commissionati al direttore per poi firmarli e ritenendoli
scritti dal direttore stesso a me domandava il parere invitandomi
a leggerli. Questo giornale scomparve rapidamente dopo l'esito repubblicano
del referendum del '45, ma prima batté tutte le possibili strade
innovative, con un capo cronista che era un importante autore di romanzi
gialli, con un critico teatrale di valore, con giornalisti giovani
ma con una successiva brillante carriera puntualmente verificatasi,
con collaboratori di un certo rilievo, quale ad esempio l'ex ambasciatore
e professore universitario Amedeo Giannini, padre di Massimo Severo,
e così via.
Ne fui incaricato della direzione per le poche settimane precedenti
la cessazione delle pubblicazioni, allorché il direttore fondatore,
sentendo il richiamo del Nord, si recò a Milano. Il giornale
acquisì qualche centinaio di copie di vendita in più,
solo perché aveva smorzato i titoli ed in parte ovviamente
i contenuti.
Per Luigi Rossi buon sangue non mente. Il padre Romualdo, che con
il figlio conoscevo dal '31-'32, per tutta la vita ha creato, immaginato,
sognato testate giornalistiche, e ti salutava da romagnolo ribelle
e con un cappello ed una cravatta protestatari con un "boia di
un inondo". Un padre da ricordare: l'ultima volta per me all'ingresso
di Villa Glori, con le mani tese in quelle di una bambina, di quattro-cinque
anni: la nipote, forse Cristina. L'ultima sua fatica deve essere stata
quella di redattore dell'organo dei marittimi, del capitano Giulietti,
La Gente del Mare. La tipografia era la stessa dove io facevo L'Organizzazione
Industriale della Confindustria, ed io avevo definito scurrilmente
un tipo di caratteri per i titoli. Il fatto però si è
che da quelli della Gente del Mare esso veniva inteso come un titolo
professionale e tecnico. Eravamo forse agli albori dell'impiego delle
parolacce.
Certezze e
chiarezza di valori
Ma in questo nostro giornalismo qualche altro "medaglione"
non va sottaciuto. Rivivono nei miei ricordi personali tanti nomi.
Tutti dovrebbero essere elencati in ordine alfabetico, per età,
per data di appartenenza al nostro Ordine. Ci sono alcuni decani o
quanti presumono di essere tali. C'è qualche mostro sacro.
C'è qualche altro che si è creato un museo delle cere
per conto suo ed in qualche caso riesce a raggiungere un fatturato
da media industria. C'è più di un caso di giornalisti
che hanno coniugato capacità manageriale e addirittura capitalistica
con quella propria della nostra professionalità.
La mia età mi ha condotto a conoscere la maggior parte di essi.
Talvolta li incontro a distanza di anni ed uno di essi confrontando
la mia età con la sua mi ha detto che avevo tanto ancora da
camminare. Ci incontravamo dopo 20 anni. E questi confronti, che ne
implicano i rispettivi fisici e pure le carriere, se ci sono state
o non ci sono state - in quella che è la fase finale della
propria vita, i vari curriculum sono scomparsi anzitutto in noi stessi,
perché incalzati dalla conferma di quanto abbiamo creduto -
ci potranno solo dire che continuiamo ad essere vivi.
Se fossi Biagi rievocherei un personaggio. Ma lo faccio anch'io una
tantum e ricordo il Mitterrand divenuto introverso, con la speranza
di incontrare nell'aldilà Dio, che nel rivolgergli la parola
gli dica: "Hai visto che ci sono?". E poi tutto il resto.
Perciò ad un certo punto - a parte i programmatori di avvenire
ad oltranza, che per fortuna loro e talvolta anche nostra esistono,
ma io non sono fra questi - lo scrivere è solo come lo scarabocchio
in una grande o piccola sala di attesa.
Ognuno di noi però ha qualche cosa da ripetere, ribadire, sottolineare.
Ed io mi propongo anche qui, in questi ricordi di un giornalista,
in questi tentativi di medaglioni, con quanto ho scritto sul finire
dello scorso anno sulla rivista della nostra Federazione, Galassia,
in un articolo dal titolo "Ritratto di categoria": Al ritratto
di categoria proposto dalla nostra Federazione mi piace molto, perché
è diretto nella documentazione di quanto riguarda ciascuno
di noi, nella varietà dei dati richiesti e da soddisfare, oltre
i fini interni di organizzazione di categoria, a difendere identità
ed a creare sempre maggiore trasparenza intorno alla nostra attività
professionale.
La chiediamo per altri, ma rendiamola sempre più ampia per
la nostra categoria. E ciò restando nel definito solco della
nostra funzione.
Ma il "ritratto" mi piace molto, anche perché l'avevo
suggerito tempo fa alla nostra Federazione ed all'Associazione Romana,
ma non ho avuto fortuna.
Suggerivo infatti di istituire presso i nostri organi di categoria
- Ordine o Federazione - una sorta di nostro "chi è"
per definire al completo il nostro individuale ritratto: nell'intero
- e quindi passato oltre che presente - nostro curriculum. Un'anagrafe
cioè fondata sulla nostra autocertificazione ovviamente controllabile
ed atta a fare meglio conoscere cultura, radici, tappe dell'attività
di ciascuno di noi, che molti del nostro pubblico invece oggi dovranno
solo immaginare".
D'altra parte siamo disponibili a comparire nei "Chi è"
editi dagli altri quando ce lo richiedono, e non si è ancora
provveduto ad istituire una fonte nostra. Fonte per me necessaria,
perché questa più evidente nostra identità professionale
vale anche a meglio difendere e garantire la stessa libertà
di informazione.
Si tratta in sostanza di far conoscere a noi ed agli altri come i
giornalisti hanno realizzato uno per uno la propria professione. Con
il fine di una sempre maggiore loro coscienza, prontamente identificabile
dal lettore o dall'ascoltatore.
Naturalmente, senza enfasi per gli studi reali o immaginari o per
le audiences che non sono ancora in quale misura facciano i conti
con l'estrema volubilità dei telecomandi.
Punti immutabili
di riferimento
Ed ora una cosiddetta rapida conclusione a questo riguardo. Denunciamo
tutti i pericoli e le incertezze cui andiamo incontro, però
facciamo come giornalisti conoscere come ciascuno li ha affrontati,
quando li ha incontrati.
Ma torniamo ad alcuni di questi nomi, cominciando da due punti di
riferimento per la mia generazione. Non ne ho di più, sapendo
però che il nostro archivio storico fortunatamente è
notevolmente ricco, come pure la sopravvivenza di alcuni grandi giornali
ci ricorda.
Il primo punto di riferimento è indubbiamente Mario Missiroli,
con il quale ho avuto la fortuna di avere una certa frequentazione,
non perché tentavo di offrirgli il mio lavoro, ma perché
gli domandavo il suo o in tempi non propizi per lui ero il tramite
per sue collaborazioni giornalistiche che con il linguaggio di oggi
si potrebbero definire sommerse.
Proprio per queste, nel periodo in cui lui senza poter firmare faceva
intravvedere la sua presenza su Il Messagero - allora se non erro
ne era direttore Francesco Malgeri - Missiroli mi prospettava per
una rivista economica che curavo temi alternativi che mi sbalordivano:
ad esempio, "L'economia del lavoro e non più quella dell'oro"
oppure "La disciplina della macellazione in Italia". E si
trattava di temi che rientravano nella sua straordinaria virtù
e pregiudiziale ironica, fonte fra l'altro di un'aneddotica inesauribile
che da anni sopravvive purtroppo nella tradizione solo orale del nostro
giornalismo.
Ma le occasioni più serie di incontri di lavoro con lui sono
stati i suoi scritti politici, che in determinate fasi della mia attività
giornalistica mi è occorso di chiedergli e che hanno avuto
sempre l'alta significazione sempre attribuibile ai suoi scritti,
taluni dei quali ci hanno detto ed anticipato tutto nella storia di
quei tempi. Uno dei suoi discepoli e delfini è stato, come
si sa, Giovanni Spadolini, nato come angioletto del nostro giornalismo
e poi con tutto il resto che si conosce.
Ma a Missiroli piaceva, oltre allo scrivere, scrivere sempre combattendo
(fra l'altro era stato anche schermitore: aveva fatto un duello con
Mussolini), accarezzare il suo gatto, essere circondato da tanti libri
nella sua casa a Roma all'angolo di viale Regina Margherita, avvicinare
gente, essere loquace e contemporaneamente silenzioso, vedere ma soprattutto
dover dare subito un significato a quello che vedeva o che gli veniva
riferito. Chiamarlo maestro per me è solo sbrigativo, perché
chi ha potuto imparare da lui ne ha certamente ricevuto più
che da una scuola. D'altra parte, confortiamoci pure con questa constatazione
e cioè che mentre per altre professioni - quella medica, quella
architettonica, ecc. - esistono delle "scuole", per quella
giornalistica ognuno ha cercato e cerca di inventare il proprio modello.
Sulle colorazioni politiche il discorso è diverso ed ha a che
fare con quanto abbiamo detto prima.
Il secondo punto di riferimento è Prezzolini: il solo cognome
dice tutto, senza bisogno di attuariali, di sansepolcristi, come si
autodefinivano taluni di allora.
Egli ha lasciato e lascia una pratica che si è elevata ad insegnamento
per poco più poco meno di cent'anni. Sul finire della sua vita
per sopravvivere aveva bisogno di una pensione. L'ha cercata nel nostro
Istituto di Previdenza e chi se ne è interessato nell'adempimento
procedurale è stato un altro nostro collega, Oreste Mosca,
che aveva sull'Aventino un archivio inverosimile e mi mostrava la
corrispondenza anche su questo tema con Prezzolini.
L'ho visto poi, senza mai conoscerlo di persona, in una via di Lugano,
se non erro via Nassa: la sua solenne corporatura di vegliardo era
accompagnata dai colpi pesanti di un bastone. Con questo mi sembrava
volesse annunciare che stava arrivando. Ed in effetti arrivava, come
se l'era immaginato chi come me non lo aveva mai visto, che sapeva
però quello che aveva insegnato e continuava ad insegnare,
fra l'altro il suo rispetto, più che giornalistico professorale,
per l'ordine delle carte e dei libri. Gli uni e le altre proprio per
questa preoccupazione di oculatezza, riscontrata nell'esemplarità
svizzera (degli orologi e nella pulizia: una volta si diceva che gli
svizzeri si alzassero più presto per pulire da cima a fondo
la facciata, intera, dei palazzi), oggetto di un lascito appunto al
Canton Ticino.
Anche i giornalisti
...
E poi sono da ricordare i grandi giornalisti, più anziani di
noi quando eravamo giovani. C'è appunto Oreste Mosca, con una
storia prefascista e fascista, poi quartarellista, segregato e riattivato
da sommerso al ministero della Cultura Popolare, poi estromesso perché
colpevole di un titolo sbagliato per la visita del re Vittorio Emanuele
in Liguria, infine fra i creatori del Tempo di Angiolillo, che non
aveva ancora trovato il Gianni Letta di 15 anni e più dopo,
e poi direttore de Il Corriere Mercantile, oltre che provvisoriamente
de Il Globo ed infine preoccupato dell'esattezza della sua contabilità
con il nostro Istituto di Previdenza.
C'è ancora Santi Savarino, già redattore capo de La
Stampa, anche quando ne è divenuto e ne è stato direttore
l'ex segretario del partito fascista, Augusto Turati, poi inviato
al confine, addirittura a Stampalia nelle Isole Egee, mentre Santi
Savarino veniva trasferito a Roma da una Fiat "realistica",
con la qualifica di critico teatrale, solo perché amico e corregionale
di un attore, Angelo Museo, ed autore di qualche commedia solo da
questi recitata.
Ma Savarino è stato un grande amico, abbiamo lavorato assieme
niente meno che per una rivista economica, era sapientemente informato
e selettivo su quanto accadeva, alla ripresa è divenuto direttore
de Il Giornale d'Italia, durante le vicissitudini che a questo sono
succedute e con la ricercata apertura alla collaborazione di don Luigi
Sturzo, che a questi consentì di rivelarsi più liberale
che popolare ed al giornale il peso di articoli di fondo di poco meno
di tre colonne.
Sempre alla Fiat, al suo "realismo", c'era come capo dell'ufficio
stampa un altro reduce dal quotidiano torinese, Gino Pestelli, antifascista
ma estremamente valido, con un'addetta non meno valida di lui che
ne ha raccolto la successione.
E poi c'è Giovanni Ansaldo, con le sue reticenze politiche,
fra l'altro anche sbagliate di tempo, con la sua caparbia capacità
giornalistica, con il suo bastone di comando non sulle persone ma
sulle cose come le intendeva lui, con la sua genealogia genovese.
C'è ancora Panfilo Gentile, con la sua irrinunciabile vocazione
strettamente, rigorosamente liberale, con l'utilizzo della collaborazione
giornalistica come sbocco di una modesta contabilità familiare,
di cui preferiva essere messo a corrente stando a letto, avendo sempre
sotto mano almeno un cane da esibire in una mostra.
C'è Alfio Russo, che ad un certo momento della sua vita fu
scaraventato a Zagabria come corrispondente, ma dove si sentiva confinato,
al punto da farlo correre quando una qualsiasi missione italiana arrivava
nella Croazia di Pavelic, che di persona sorrideva pure, ma nelle
fotografie no. Poi Alfio Russo, dopo una buona prova a La Nazione,
divenne direttore de Il Corriere della Sera e ci conoscemmo perché
pur essendo solo a Milano era il più antico quotidiano economico
europeo. Ed altri nomi da ricordare, per questo parallelismo con la
mia carriera, sono quelli di Nino Nutrizio, allora direttore ed inventore
de La Notte che mi disse, forse non per complimento, ma perché
era utile alla sua funzione la conoscenza di certe linee giornalistiche,
che il primo giornale che leggeva al mattino era il mio. Sincerità
o meno, Nutrizio è stato comunque un modello di giornalismo.
Come lo è stato indubbiamente Enrico Mattei, che ha avuto il
giornalismo sempre nel sangue, come diciottenne, se non sbaglio, inventore
del pastone politico, presente sempre al momento giusto e partecipe
di quello che gli succedeva attorno. Nei soccorsi per l'alluvione
di Firenze il suo nome è ai primissimi posti. Una volta ebbi
a telefonargli che un suo articolo mi aveva l'atto rabbia ed alla
sua domanda sul perché risposi semplicemente perché
non l'avevo scritto io.
In un'altra occasione mi aveva detto su di un treno, quando ancora
esistevano le vetture-salone e con lui vi era il vice presidente od
ex vice presidente della Rai, De Feo, che la cosa più seria,
editorialmente parlando, della confindustria era Il Sole-24 Ore per
il modo in cui veniva diretto, ed il direttore, pronto a svenire in
quel frangente, ero io.
E qui bisogna fare appello a quella sincerità, alla quale in
certi casi anche lo credo.
Ed eccoci infine, in questa molto schematica elencazione, ad Enzo
Biagi.
Lui probabilmente non sa nulla o ricorda poco di me. lo al contrario
su di lui so, anche per necessità di aggiornamento professionale,
molto di più.
Ricordo che Biagi era come al solito presente, perché curioso,
ad una manifestazione al Circolo della Stampa di Milano che Il Sole,
che dirigevo, aveva promosso per la premiazione de "Il Sole d'Oro":
un premio che veniva assegnato ad esponenti del terziario e alle migliori
vetrine della città.
Si trattava di una promozione nei confronti di una parte non secondaria
dei lettori milanesi del giornale.
Se non erro, fra i premiati c'era anche la Fiera di Milano in riconoscimento
della sua funzione propulsiva, rappresentata dall'indimenticabile
Michele G. Franci, mio amico sin dai suoi primi impegni fieristici
risalenti alla Fiera di Tripoli del 1928. Biagi stava a vedere.
Successivamente Biagi era stato incaricato da Gianni Mazzocchi, fondatore
fra l'altro di Quattro soldi, di compiere un'analisi diciamo adesso
di radiografia editoriale e di marketing del periodico.
Le conclusioni di Biagi sul periodico, cui collaboravo con un'ampia
rassegna dal titolo "L'economia in cifre" che era nata da
una mia idea che il grande Giulio Mattioli mi aveva incoraggiato a
realizzare e che Mazzocchi prontamente accolse, furono complessivamente
più o meno negative. La percentuale dei lettori della mia rassegna
fu calcolata in un deludente 2%, forse più pesantemente indicativo
allora che non oggi, quando le analisi settoriali di un giornale non
sono praticate, dato che conta la tiratura complessiva, ed è
solo l'audience che è mobilitata e nella misura e con le modalità
tanto fragili che si conoscono.
Mazzocchi sia per Biagi che per me è stato un anello che ci
ha congiunto a certi ricordi.
Per ragioni di età questi ricordi si riferiscono a dieci anni
prima, perché i grandi panettoni che Mazzocchi regalava a Natale
ai propri collaboratori ed amici risalgono per me al 1942 (con Mazzocchi
l'anno prima avevamo creato una rivista dedicata all'Artigianato italiano
in campo internazionale, cui lui impose la denominazione latina Artifex,
riecheggiando la sua Domus) e così via. Con pause e riprese
in una collaborazione che mi insegnava ogni volta di più, dato
che Mazzocchi è stato non solo un grande nostro editore, ma
un grandissimo preveggente ed anticipatore dell'editoria italiana.
Lo aiutava quel taccuino che aveva sul suo comodino da notte, sul
quale nelle sue frequenti insonnie creative segnava spunti e idee
che all'indomani erano già sui binari delle realizzazioni.
Ma Biagi ha tutti gli altri meriti che si conoscono ed io non ho.
Si fa plasmare dai fatti mimetizzando le sue chiare predilezioni,
che però ogni tanto sfuggevolmente precisa.
Ai "dov'era?", che si dice rivolga ai potenti, probabilmente
talvolta sarà pure non agevole anche a lui rispondere, se la
stessa domanda gli dovesse essere indirizzata.
Non è alieno dal manifestare taluni giudizi su persone e fatti
dettati dalla sua simpatia, dalla sua "bologneseria", come
la chiama Montanelli, richiamando non per lui questo termine.
Si commuove, e giustamente, delle sue origini: la madre maestra elementare,
il padre magazziniere in uno zuccherificio. Forse le madri sono tutte
sempre maestre elementari anche senza titolo, ed anche la mia è
stata per me una di queste. lo, però, queste madri con il titolo
reale le ho sempre pregiudizialmente ammirate, e ne traggo esempio
e sicurezza sulle capacità di madre e figlio. Più di
un giornalista che ha l'atto ottima prova ha queste origini.
Ma Biagi è anche un manager giornalista e colleghi con queste
attitudini si contano sulle dita di una mano. Egli ha ricordato la
collaborazione iniziata e pagata con meno di cento lire ad articolo.
lo ho cominciato con l'articolo a 50 lire sulla rivista Echi e commenti
di Roma, una rivista fatta da un barone, Di Castelnuovo, e redatta
da pochi opinionisti di allora, da professori che arrotondavano le
proprie modeste entrate, da alti funzionari dello Stato a riposo,
da ex generali e colonnelli tenacemente studiosi di storia, preferibilmente
militare e coloniale, e geografia. E poi c'erano i giovani, i principianti.
lo sono riuscito ad essere uno di questi, riuscendomi ancora di essere,
alla mia età, principiante in lavori ed attività che
i nuovi tempi mi suggeriscono, in aggiunta a quanto dagli inizi ho
intrapreso. D'altra parte il termine principiante deve creare sempre
speranza.
E tanti sono gli incoraggiamenti su questa strada che vengono da veterani
a veterani. Non solo i giovani devono contare su di essi, ma sono
anche i loro superstiti coetanei che ne hanno bisogno.
Volti nel lungo
cammino di 50 anni
C'è poi da parlare dei "medaglioni" che possono essere
dedicati alla classe politica di questo cinquantennio. In verità
la mia elencazione, anche per il mio ambito economico e prevalentemente
confindustriale di cui dirò in seguito, è notevolmente
ristretta.
In effetti, a livello di presidenti del Consiglio, ne ho conosciuti
e frequentati solo due, e cioè Emilio Colombo, mio conterraneo,
e Mariano Rumor. Non ho conosciuto Alcide De Gasperi, che secondo
me con Einaudi e Costa è stato il grande ricostruttore dell'Italia.
Non ho conosciuto alcun Presidente della Repubblica, ad eccezione
di Saragat, quando però era ministro della Marina Mercantile
e cercava di spiegare un grosso sciopero della gente del mare del
quale si interessava, come sottosegretario al Lavoro, La Pira, ed
oggi mi domando quale fosse questo tipo di sindacalismo così
caratterizzato, che pur a quei tempi per la struttura globale disponeva
di una persona come Giuseppe Di Vittorio, prediletto dai seguaci,
ma ammirato dagli avversari.
E poi ci sono stati taluni ministri e qualche sottosegretario. Medici
ad esempio, al Tesoro; Taviani, allora alle Finanze; Sullo, all'Industria,
cui suggerii l'aggiunta alla titolazione del ministero dell'Industria
e Commercio del termine Artigianato.
E poi ci sono stati i politici puri, come Giovanni Malagodi, Alberto
Giovannini, Mario Dosi, Roberto Cantalupo, già giornalista,
Giovanni Artieri, parlamentare, ma pure giornalista, e tanti altri
dai quali purtroppo la mia memoria si è allontanata.
Con tutti questi signori c'è da dire che abbiamo, noi più
che come persone, camminato insieme.
Io sono fra quelli che non ha creato con loro motivi di clientelismo
o di obbligato affiancamento. Ho avuta la fortuna di appartenere a
quella categoria di cittadini che senza suggestioni o scelte partitiche
usa liberamente del proprio voto: la famosa cabina elettorale di cui
tanto si parla oggi. E se siamo oggi pur in questa turbinosa fase
è di essa che dobbiamo ricordarci, per quanto ci ha dato ed
ancora ci dovrà dare.
A tu per tu
con il "Medaglione" di tutti e di ciascuno di noi
Io penso che il migliore nostro medaglione, e quindi anche il mio,
sia proprio questo: con i certificati elettorali che dobbiamo ricevere,
con le schede che dobbiamo riempire correttamente ed intelligentemente,
con la chiarezza tanto maggiore quanto più reticenti ed incerte
possano essere domande e proposte, sì o no, che ci vengono
richieste.
Fra parentesi potrei concludere rilevando che i ricordi valgono solo
se si traducono in un dialogo. E' la speranza anche di questo scritto.