Negli
anni Cinquanta-Sessanta la nostra RAI, o meglio il suo ramo radiofonico,
nell'ora cruciale oggi per gli approfondimenti e i dibattiti politici,
e cioè verso le 22, mandava in onda una rubrica di vivacizzazione
della cultura dal titolo Siparietto.
Approfitto di questa "testata" per i miei ricordi e medaglioncini,
questa volta riguardanti la mia professione, meglio vita, di giornalista,
anzi uno dei "decani", come mi definiscono (ed io ne sono,
per fortuna solo intimamente, orgoglioso). Giornalista, debbo aggiungere,
economico, che fra l'altro ha avuto la ventura negli anni Sessanta di
essere stato direttore del più antico quotidiano economico d'Europa,
e cioè de Il Sole, fondato nel 1865.
Come si sa, umanità, sistemi, società, individui (oggi
è la volta del ceto medio che tutti ambiscono di rappresentare)
si sono sempre distinti e si distinguono per quella che è definita
stratificazione. Il giornalismo a sua volta ha la sua, che comprende
anche quella economica.
Di questa specifica in Italia non esiste una storia, anche se quella
economica generale si è alimentata e si alimenta pure di fonti
giornalistiche. Pensiamo agli articoli del piemontese Luigi Einaudi
o del lucano Francesco Saverio Nitti, che certamente sulla carta stampata
hanno lasciato orme incancellabili per il loro livello anche teorico
e per la loro perenne attualità.
Il mio giornalismo economico - da iscritto all'Associazione romana della
Stampa dal dicembre del 1930 - ha avuto questo contesto di Uomini, avendo
conosciuto da adolescente solo il secondo, come altra volta ho scritto
in queste stesse pagine.
Nel tentare di tratteggiare questo "siparietto" - della cui
denominazione ho "deontologicamente"... indicato la fonte
- la mia pretesa o ambizione si limita solo a fornire degli spunti,
qualche spiraglio di vita vissuta in quasi sette decenni, sempre nello
stesso settore del giornalismo, dalla linotype al computer, ma per me
sempre dalla Lettera 25.
Il contesto ha a che fare con due fasi della monarchia, e cioè
quella democratica e quella fascista, e con la Repubblica, intorno alla
quale si continua a discettare se abbiamo a che fare ancora con la prima
o già con la seconda, a me sembrando invece che a definire l'una
o l'altra sia la Carta Costituzionale.
Ma oltre questa cronologia, c'è la nostra doverosa autocritica,
ed anch'io ho la mia parte, che riguarda quanto ho visto, giudicato,
riferito. E quest'ultimo comporterebbe un lungo discorso, che tra l'altro
non finirebbe e non finisce mai, con domande incalzanti e risposte sempre
in debito. Ognuno di noi rifletta, rispetti e faccia almeno conoscere
la propria identità. E' quanto, invano, ho proposto alla nostra
Federazione, che l'ha prospettato con un mio articolo su Galassia. Sono
convinto che al mio "chi è" prima o poi si arriverà,
in modo che chi ci legge, ci vede o ci ascolta conosca che cosa abbiamo
alle nostre spalle o davanti a noi.
La mia però è solo un'attesa, che intanto coesiste con
i malesseri denunciati da giornalisti, lettori, ascoltatori. Audience
e tirature, anche quando sono lusinghiere, si portano dietro tante ombre,
che si spera ma non si tenta ancora di diradare.
"Il Sole"
oltre il Duemila
La matrice del giornalismo economico è, come ho detto, Il Sole,
prima ancora dell'unità d'Italia. Prima de Il Sole, vi sono
stati Il Giornale del Commercio, fondato a Livorno da Luigi Nardi
nel 1822, e Il Corriere Mercantile, già Prezzo corrente generale
del Porto Franco (Genova), fondato come quotidiano nel 1844 da Luigi
Pellas e successivamente in larga misura, anzi prevalentemente, politicizzato.
Il primato - chiamiamolo così - spettante comunque a Il Sole
ha a che fare con la sua esclusiva caratterizzazione economica, con
il predominio delle cifre, con un contesto politico marginale, addirittura
settimanale in alcuni periodi, con la sua dislocazione a Milano, ecc.
In entrambi i giornali si inseriscono le mie "testimonianze"
personali, con riferimento agli anni dal '45 al '65.
De Il Corriere Mercantile sono stato amico e compagno di lavoro del
suo ultimo direttore del "ventennlo", Giacomo Guiglia. Nel
1945, con il "vento del Nord" - come lo definiva Nenni -
che trasferì a Roma anche la Confindustria e dette inizio alla
presidenza di Angelo Costa, genovese, come si sa, questi ebbe al suo
seguito una sola persona, e cioè il genovese Giacomo Guiglia.
Lo nominò capo dell'Ufficio Stampa. Così lo conobbi,
io da ex giornalista della Confindustria, poi redattore di un estemporaneo
quotidiano romano, e poi chiamato a fargli da vice per circa tre lustri,
e cioè fino alla mia nomina a direttore de Il Sole, nel 1962.
Sono uno degli ultimi viventi a ricordarlo come grande giornalista.
Era portatore di tanti valori, la cui migliore sintesi è possibile
non tanto nella convivenza quanto nella meditazione consentita dal
tempo. Lo chiamavamo "comandante". E lui non ci chiedeva
il perché, ma ci chiamava tutti per nome. Di militare per lui
c'erano stati due volontariati, uno in Etiopia e uno in Libia, a capo
del servizio informazioni dell'Armata italiana.
Allorché Rommel assunse il comando di quelle operazioni, che
avrebbero dovuto secondo lui condurci al Cairo, egli disse che la
sola cosa che gli interessava per quanto riguardava l'apporto italiano
era appunto il servizio informazioni di Guiglia. Un servizio allora
ininterrotto nelle ore, infaticabile nella ricerca e nell'interpretazione,
quasi da "inviato speciale", comunicativo e penetrante nella
ricerca e tempestivo nella doverosa e riservata informazione.
Un giornalista anche così, che a me che lo conoscevo ancora
da poco e lo sentivo interrogare alcuni colleghi che da direttori
facevano parte di un'Agenzia giornalistica dei quotidiani di provincia
rientranti nell'area confindustriale fece sorgere l'impressione che
applicasse la tecnica di chi raccoglieva informazioni belliche.
Egli diceva anche che le notizie non avevano domani, e perciò
lavorava subito e senza soste. Avendo firmato durante il ventennio,
dopo si servì solo di uno pseudonimo: Tizio. Aiutava tutti.
Di qualsiasi parte fossero. Aveva amici come Giovanni Ansaldo, Luigi
Barzini Jr. - il collega che quando non parlava bene di se stesso,
parlava bene del padre -, Giorgio Pini, il giornalista mite e sorridente,
che tale definii a smentita postuma di quanti ritenevano che il ventennio
avesse avuto a che fare solo con emergenti ganasciuti.
Guiglia aveva anche i suoi fedeli, che lo frequentavano e che lo definivo
i "fedeli di Vitorchiano", che - come si sa - appartengono
al cerimoniale del Campidoglio. Quando gli toccava di comandare lo
faceva senza nervosismo. In taluni casi faceva addirittura anche personale
uso di bromuro.
Nelle vicende quotidiane si ride di tutto ciò; ma nel consuntivi
si tratta di altrettanti tasselli di un mosaico che può avere
anche la pretesa di dettagli non trascurabili.
Una caratterizzazione completamente diversa è quella da me
attribuibile al direttore de Il Sole che ho conosciuto nel 1953, e
cioè Mario Bersellini, che oltre ad essere stato fino a poco
tempo prima proprietario del giornale, con la sua acquisizione da
parte della Confindustria (allora questa denominazione era preceduta
dall'articolo: dicono i vocabolari che esso determina e distingue
il nome e il pronome a cui è unito, e non era come oggi solo
Confindustria, una modernità terminologica cominciata con Fiat
e così via, e che vuole apparire già Duemila: contentiamoci
così), ne era anche direttore. Con il presidente del Consiglio
d'Amministrazione del giornale, on. Mario Dosi, veniva a Roma ad offrirmi
di fare il corrispondente dalla capitale. E ciò nell'intento
di acquisire un filo diretto, di politicizzare maggiormente il giornale,
di attualizzarlo in una più vasta articolazione. Bersellini
era in sostanza quello che oggi si chiama direttore editoriale: una
Fisionomia e una denominazione entrata in circolazione da poco. Sono
termini nuovi, e fra gli altri ci sono stati nel passato quelli di
"animatori" e inopinatamente da un po' di tempo anche quello
di "garante del lettore" (ma non ne è il direttore
responsabile?).
Nel "ventennio"
In questo contesto c'era qualche altro tentativo di quotidiano. C'era
stata a Milano una Finanza d'Italia, di fortuna nel tempo e nello
stesso contenuto molto limitata. C'era un'Agenzia giornalistica quotidiana,
che si chiamava Stefani, che dava anche notizie economiche senza fare
ad esse gli occhi di triglia. C'era invece un'altra agenzia che li
faceva, ed era l'Agenzia Volta. C'erano altresì le agenzie
di sussistenza per i loro direttori proprietari, e qualcuno di loro
è anche giunto felicemente e solo con questo mezzo al pensionamento.
E c'erano gli infiniti periodici economici, a cominciare da quelli
di politica economica.
Durante il "ventennio", ad esempio, vi erano da una parte
L'Economia Italiana e dall'altra L'Economia Fascista. L'una e l'altra
erano dirette da gerarchi: la prima da Luigi Lojacono, la seconda
da Raffaele Riccardi. C'era inoltre una rivista prevalentemente politica,
che si chiamava Rassegna Italiana (la denominazione veniva trasformata
da una mia domestica friulana, quando ricevevo una telefonata, in
quella di "rassegnazione italiana"). Il suo direttore si
distingueva per due caratteristiche: quella di chiamarsi Tomaso (con
una sola m) e di farsi ricevere unicamente e frequentemente solo dal
Re (il che suggerì ad un nostro collega di invitarlo a far
aggiungere al cognome "Ricevuto dal Re". Un altro, negoziante,
lo aveva fatto pubblicitariamente aggiungendo al proprio cognome "Al
Corso").
Poi c'erano i settimanali di categoria. C'era per gli industriali
L'Organizzazione Industriale, ed io ne sono stato prima collaboratore
(ma il direttore del tempo mi diceva che il rigore e i controlli erano
tali da rendere le collaborazioni più difficili di quelle al
Financial Times) e poi più correntemente direttore.
I commercianti disponevano di un'autorevole rivista, che aveva come
direttore di fatto il padre di Guido Carli, ex socialista che il regime
aveva destinato privo di firma alla Confcommercio, come aveva fatto
anche con Missiroli a Il Messaggero: entrambi con l'inelusa e giustificativa
formula longanesiana dell'"ho" o dell'"ha famiglia".
Nel "ventennio" la compatibilità ambientale di oggi
veniva interpretata, oltre che con il Tribunale speciale o il confino,
anche così.
A loro volta gli agricoltori, allora allogati nell'acquistato palazzo
della regina Margherita in via Veneto - oggi sede dell'Ambasciata
americana -, avevano un settimanale, del quale per un certo periodo,
dopo la morte di suo figlio, fu consulente il fratello di Mussolini,
Arnaldo. Questi da amministratore de Il Popolo d'Italia, prima della
marcia su Roma, ne era poi divenuto direttore.
Lo conobbi dopo un suo viaggio in Tripolitania, ed avrebbe dovuto
scrivere un articolo per una pubblicazione celebrativa del ventennale
dell'occupazione della Libia da me promossa e curata. Mi apparve mite,
poco intrigante e forse sorpreso egli stesso del ruolo e del peso
che veniva assumendo. Ebbe anch'egli qualche "grana": mi
sembra con il sindaco di Milano. Porta il suo nome il nostro Istituto
di Previdenza di allora, oggi "Giovanni Amendola".
Quest'ultimo scriveva, anzi è stato anche corrispondente da
Roma de Il Corriere della Sera, e poi fondatore del quotidiano Il
Mondo: le testate di oggi Il Mondo da una parte e Il Mondo Economico
dall'altra hanno queste lontane radici. Arnaldo, invece, ne faceva
il più possibile a meno.
Anche i lavoratori, naturalmente, avevano i loro giornali, anzi un
quotidiano: Il Lavoro fascista, fondato da Edmondo Rossoni, che intorno
agli anni 30, allorché fu varato l'ordinamento corporativo,
fu smobilitato da esso e trasferito come ministro al ministero dell'Agricoltura.
Incontrandolo in quell'occasione mi disse che la "rivoluzione
si sarebbe fatta lì, o non si sarebbe mai fatta". Erano
i tempi della "rivoluzione continua". Rossoni era anche
direttore di una rivista che si chiamava La Stirpe, il cui redattore
capo era un nostro collega, Alfredo Signoretti, prima direttore de
La Stampa e durante la Repubblica direttore di un quotidiano napoletano.
Era un giornalista, come diremmo oggi, economico-sociale.
Non mancava poi in questo quadro così articolato qualche casa
editrice specializzata. Una di esse era la milanese "Aracne",
fondata da Roberto Tremelloni, già allora socialista, ma mimetizzato,
e poi esponente del Comitato di Liberazione Alta Italia e quindi,
nella Repubblica, ministro delle Finanze. Aveva creato una serie di
mensili specializzati, tra cui uno in particolare dedicato al settore
tessile, per il quale cercò approcci con l'Artigianato e per
esso con me. La nostra frequentazione cominciò così,
quando spesso il pensiero doveva subire il disimpegno dalla militanza
esteriore.
Mi apparve più persona mite che di combattimento, invece lo
è stato. Un esperto allora nascosto, ma operante dopo. Interprete
di un socialismo democratico, allora immaturo, ma attuale oggi e pure
da molti auspicato o praticato. Non sono io fra questi, e lo dico
solo per inciso, perché, come altra volta ho ricordato, il
mio habitat volontario e per me naturale è stato sempre quello
- ed evito le qualificazioni strettamente partitiche e quindi molto
spesso vaghe - del confronto, meglio ripensamento, delle mie idee
alla luce di quelle di uomini come Einaudi, De Nicola, Costa, ecc.
Ho avuto la ventura di conoscere il secondo, apprezzandone pensiero
e pratica. Del terzo sono stato collaboratore, fra i primi al suo
arrivo a Roma nel '45 a Palazzo Grazioli e tra i pochi al suo commiato
nel '69 dal palazzo di Piazza Venezia. Il lettore, se ne avrò
qualcuno, mi ubichi idealmente ed operosamente dove crederà.
In me c'è solo la forza di una non smentita coerenza, sincera
non foss'altro perché l'età avanzata non consente che
sia o aspiri ad essere passaporto terreno.
Ma prima di questo periodo, due nomi desidero ricordare, come emblemi
anche giornalistici. Sono tra le quattro o cinque persone che culturalmente,
politicamente, come uomini di Stato, e prescindendo pure dai loro
ideali partitici, si sono a tali livelli manifestate durante il ventennio.
Uno è Alberto De Stefani e l'altro Giuseppe Bottai. Entrambi
hanno avuto a che fare con la carta stampata, anche a contenuto economico.
Molti giornali hanno pubblicato i loro scritti. Con il primo ho avuto
un'amichevole frequentazione, quando viveva solo di passato, e la
sua carta intestata recava il motto "Tutto prima del tramonto".
Il secondo l'ho visto una sola volta in un occasionale incontro, nel
quale gli fui presentato e restai ascoltatore. (La stessa cosa -ripeto
di semplice ascoltatore - mi è capitata con Oscar Luigi Scalfaro
molti anni dopo, ad Assisi, alla "Pro Civitate", in un incontro
tra lui e Furio Cicogna, che di questa "Pro Civitate" era
il maggiore sponsor e sul cui finanziamento, avendomi portato da Roma,
voleva sentire il mio parere. L'incontro tra i due novaresi avvenne
in ascensore e Scalfaro che allora non aveva lo stile delle esternazioni
di oggi fece una battuta di spirito che mi piacque, ma che non ricordo
perché doveva essere estremamente futile).
Di Bottai invece ricordo e apprezzo una frase. Egli infatti al presidente
dell'Artigianato di allora, incontrato sulle scale dell'EIAR che io
accompagnavo e che forse aveva ancora le nostalgie gratificanti di
ex federale di Torino, ebbe a dire che importante non era l'incarico
che si ricopriva, bensì quanto si riusciva a mettervi dentro.
"Mussolini mi ha detto che al ministero dell'Educazione Nazionale
c'era da fare solo dell'ordinaria amministrazione. Ho voluto invece
la Carta della Scuola". Un modo di essere che di Bottai ha fatto
il direttore di un quotidiano; di una rivista nel '23 dal titolo Critica
Fascista, di un'altra nel '40 dal titolo Primato, in questi giorni
tornata di scena per certe rievocazioni. Queste le altrettante espressioni
giornalistiche, di cultura pure economica, di un Bottai sempre presente
e con l'aspirazione di una partecipazione protagonista, senza sconti,
ma da pagare. Ed io ho la ventura di essere tra i pochi (o fra i tanti?)
che riferiscono semplicemente, senza contropartite da nascondere o
da aver subite.
Di Bottai - che secondo me ha commesso anche molti errori, fra i quali,
pur de minimis, quelli che riguardano le nomine politiche di certi
improvvisati provveditori agli Studi - so soltanto che ha scelto come
suo sottosegretario al ministero dell'Educazione Nazionale un uomo
certamente della sua tempra, che è stato Riccardo Del Giudice,
mio presidente alla Confederazione dei lavoratori del commercio, di
cui nel '35 sono stato capo dell'Ufficio Corporativo. Posso dire di
lui che è stato il mio primo maestro, in termini, più
che di sostanza, di forma. E cioè di stile, che come si sa
discende direttamente dalla coscienza. Perciò con lui ci siamo
reciprocamente apprezzati. Anche lui ha lasciato tracce nel giornalismo
economico di quei tempi.
E ritorniamo al primo dei due nomi ricordati, e perciò ad Alberto
De Stefani. Di lui le enciclopedie ricordano che è stato giurista,
economista, uomo politico, ed io aggiungo docente universitario: preside
tra l'altro della prima facoltà di Scienze politiche alla Sapienza
a Roma. Io l'ammiravo dalle contigue aule di giurisprudenza da semplice
matricola. E' stato ministro delle Finanze dal 1922 al 1925. Ha votato
contro Mussolini al Gran Consiglio del 24 luglio, con dichiarazioni
nette e scarne, e perciò con motivazioni dirette ad una precisa
sentenza. L'eloquenza ha tante facce, molte delle quali quanto mai
e immediatamente inequivoche. La sua, a differenza di molte che sono
riecheggiate quella notte a Palazzo Venezia, era strettamente essenziale.
A questa sommaria biografia di De Stefani bisogna aggiungere che egli
è stato sul posto consulente economico-finanziario anche di
Chang Kai shek. Le intuizioni cinesi non di rado hanno ricercato e
ricercano certe rette convivenze di vertice.
Il primo discepolo di De Stefani è stato il figlio, Pietro,
che io ho avuto mio collaboratore in giornalismo economico negli organi
di stampa che dirigevo. Ho così conosciuto il padre. Del quale
ho pubblicato su Il Sole, nel centenario della fondazione, il suo
penultimo articolo. Esso reca questo titolo: "Panorama economico
secolare 1865-1965 di Alberto De Stefani: Il Sole da 100 anni in famiglia".
Più che di un articolo, si tratta di uno studio, quanto mai
scrupolosamente, direi fanaticamente, approfondito e motivato. Angoli
e pure angolini, uno per uno, tutti ricercati, collegati, tendenti
nel corso delle varie tappe alla conclusione. Questa: "Questo
giornale, già organo dell'industria, dell'agricoltura e del
commercio, potrebbe animosamente e senza iattanza affermarsi, nel
suo secondo secolo di vita, nella Comunità Economica Europea
come un suo giornale di primo piano informativo e propulsivo".
Più che una conclusione, è un preambolo. Ma di esso
parleremo più innanzi. Intanto ai bibliografi voglio segnalare
che questo studio compare con l'integrale riproduzione di tutti i
numeri che Il Sole dedicò al Centenario - e tuttora queste
celebrazioni giornalistiche non hanno raggiunto un siffatto spessore
- in un apposito grande volume predisposto dalla mia pubblicitaria
"La Società Pubblicità Editoriale", anche
come segno per le oltre mille colonne di pubblicità inserite.
Come si vede, certi confronti con l'oggi sono possibili, anche se
di mezzo sono intercorsi tre decenni.
L'ultimo scritto di De Stefani reca la data del 22 novembre 1966,
giorno di Santa Cecilia. Ha come titolo "Dall'armistizio di Villa
Giusti al compimento della ricostruzione finanziaria". Sì,
ricostruzione e bilancio in pareggio. In una lettera che poco dopo
mi inviò, egli aggiungeva: "E' uno studio molto documentato
sul metodo con cui ho raggiunto in breve tempo il pareggio del bilancio:
prosperità e non fiscalità, che ha anticipato di oltre
quaranta anni la politica di Kennedy e di Johnson, fuorviata dai loro
predecessori con una interpretazione assoluta e incondizionata della
dottrina di Keynes, la cui utilità è condizionata alle
circostanze".
Mi piacerebbe tanto che questo libro - ed io lo tengo a disposizione
di chi ne dovesse aver bisogno - fosse letto dalla classe politica
di oggi. Vi è indicato un metodo, vi è precisato un
obiettivo non genericamente annunciato o promesso come possibile,
ma consigliato. Nientemeno il pareggio, senza bisogno dei parametri,
delle cifre previste ma non realizzate, del maquillage della contabilità.
Si cita Kennedy, ed oggi vi sono i kennediani che dovrebbero far parte
della "Cosa 2", e così via. Ma perché si trascura
chi ha pure pensato per noi e prima di noi? Quando ricordiamo che
si deve pensare ai nostri figli, perché non riconosciamo che
anche chi ci ha preceduto ha avuto i propri figli? Anche nel passato,
infatti, c'era l'avvenire. E non certo tutti i beni culturali si esauriscono
nell'archeologia. I veterani servono - si sa, a parte le celebrazioni
- a poco. Ma dicono anche a chi non vuole ascoltare elementarmente
questo. E ciò senza disturbare civiltà e cultura, nella
molteplicità per questa delle stratificazioni d'uso di cui
veniamo parlando per quanto in questa occasione attiene al giornalismo
economico.
Una sala stampa
all'aperto
E vengo al giornalismo economico della Repubblica. La prima sala stampa
della Confindustria ricostituita è stata a Palazzo Grazioli.
In un cortile, all'aperto. Dopo più di 50 anni dispone delle
attrezzature che si conoscono con le tecnologie relative, che subiscono
i virus noti e registrano allo stesso tempo molto e poco. Ad esempio
del mio '38 -'77 i computers dicono solo che nel '46 sono stato direttore
della Gazzetta per i Lavoratori. Qualche altro computer mi fa giungere
un invito all'assemblea annuale. Del resto niente, e per me va bene,
perché i confronti me li vado a cercare per mio conto. E noto
il non perché dell'articolo (la Confindustria), prima citato,
l'assenza al miei tempi dei pantaloncini da calcio nell'abbigliamento
del presidente, l'ondeggiamento stilistico, e così via.
Con la prima sala stampa all'aperto della Confindustria ricomincia,
dunque, il mio giornalismo economico. Che cosa c'era?
Fra i quotidiani, anzitutto, Il Sole veterano, con i suoi 30.000 abbonati
ed invece con ridotta presenza nelle edicole (questa da taluni poi
considerata come una menomazione, mentre si conosce oggi quale sia
l'impegno editoriale, per il reperimento degli abbonati!). Ad esso
si aggiunsero, a Milano, 24 Ore e, a Roma, Il Globo.
La storia dei primi due giornali è tentata dal volume "La
trasparenza difficile" (perché questo titolo è
restato inspiegabile, nonostante una prefazione che non mancai di
confutare?) di Piero Bairati e Salvatore Carrubba, con due diversi
apporti: il primo, condizionato da una chiara tendenzialità
politica, il secondo invece ispirato da più collaudate ed equilibrate
conoscenze e valutazioni.
La storia de Il Globo, invece, non è stata mai fatta, anche
se oggi sopravvive una testata identica, senza che ne possegga la
continuità. Orbene, un quotidiano economico a Roma rappresentava
una vera e propria novità, dovuta ad un'intuizione di Luigi
Barzini Jr., di cui prima ho detto. Ma la sua intuizione non si limitò
alla ideazione, perché a questa affiancò una valida
operatività tecnica, con un'accurata selezione dei redattori:
dal caporedattore Renato Spaventa, padre di Luigi, al segretario di
redazione Leonardo Paloscia, in seguito direttore generale e poi presidente
del nostro Istituto di Previdenza, ai redattori, fra i quali spiccavano
un ex direttore generale del ministero delle Corporazioni, Anselmi,
Pedoja, che redigeva anche le prime rubriche economiche della RAI,
Focarile ed altri, ciascuno dei quali comporterebbe a me quei "medaglioncini"
dedicati non solo a ricordi ma anche a doverosi riconoscimenti professionali.
Quando Barzini lasciò il giornale e sopravvenne un altro editore;
questi me ne offrì la direzione, ma ebbe la delusione - che
tuttora mi spiace -del mio rifiuto, dovuto all'estrema precarietà
della gestione. Questa passò infatti subito dopo all'Ina e
poi alla Confindustria.
In questo panorama, c'erano una Stefani divenuta ANSA con tanto di
redattori sia sindacali che economici, altre agenzie più settimanali
che quotidiane, il servizio italiano delle principali agenzie estere,
dalla Reuter agli americani INS di Chinigo e Associated Press, ecc.
Più tardi sopravvennero l'Agenzia ARI, che aveva pure un supplemento
economico, l'AGI, e così via.
E poi c'era il novero delle riviste, con la Rivista di politica economica,
fino alla Resistenza edita dall'Assonime e poi trasferita alla Confindustria
che già a Milano aveva a che fare con Il Mondo Economico, curato
dal prof. Ferdinando De Finizio. Anche per queste persone non dovrebbero
mancare i miei "medaglioncini", perché sono stato
loro vicino, anche con la mia modesta collaborazione.
Qualche data successiva di più o meno preteso rilievo si riferisce
all'introduzione in Italia nel '60 delle telecomunicazioni dei mercati
finanziari. Mi riferisco al servizio TELEBORSA, che deriva da una
mia visita professionale negli Stati Uniti e dalla constatazione a
Wall Street dell'operatività di un sistema che doveva secondo
me essere introdotto anche in Italia. Ne parlai a Raul Chiodelli,
uno dei padri storici dell'EIAR, e varammo questo servizio. Gli imitatori
poi non sono mancati. Mi lusingo di credere che qualcosa ho dato anch'io,
per lo meno alla mia più o meno professionalità.
Ma queste mie testimonianze intimamente sommesse (pallida fotografia
di un percorso compiuto con in mezzo una guerra, una rivoluzione,
una ricostruzione, un impegno di rinnovamento che ha più di
50 anni alle spalle, ma riflette pure le grandissime sollecitazioni
del Duemila) non possono non concludersi che con una serie di ripensamenti
e perciò confessioni di errori, e con alcune attese e speranze,
che riguardano anche il clima e la sfera inerenti al giornalismo economico.
C'è
naturalmente anche il passivo
Debbo anzitutto premettere al passivo - che è certamente mio,
ma anche di tanti miei colleghi - almeno una certa lentezza nella
preparazione e nell'adeguamento del nuovo. Il giornalismo delle generazioni
anteriori alla mia aveva grandi nomi, taluni grandi fondatori di giornali,
che sopravvivono, ma raramente devono registrare sopravvenienze al
loro livello. Nel passivo c'è altresì la perdurante
vaghezza ed ancora incerta sperimentazione all'attitudine da rispettare
nella confezione del prodotto che offriamo. Ci sono le facoltà,
i convegni, le fondazioni, gli ordini professionali, le organizzazioni
di categoria, le leggi, le norme di comportamento per sé e
per gli altri, gli sforzi di deontologia, ma i punti fermi continuano
ad essere pochi e spesso estremamente vaghi. C'è un sistema
multimediale che in sostanza è in stato di sofferenza. Subisce
pure forme di contaminazione, per fortuna a livello individuale senza
risvolti giudiziari prezzolati. In verità economie e mercati
corrono con una velocità e con sfaccettature di gran lunga
superiori al recepimento che il giornalismo economico ne fa.
Sono aumentati i nostri servizi, inimmaginabili nel non lontano passato.
I quotidiani sono passati dalle due facciate del 1945 alle quattro
e alle otto fino agli anni 60. Le pagine economiche dei quotidiani
sono oggi almeno quattro. I mercati finanziari davano conto della
loro quotidiana esistenza con notevoli ritardi. Oggi invece alle sei
del mattino, a mezzo delle televisioni, si conosce quale è
stato l'andamento della borsa di Tokio, per noi l'inizio della giornata
economica. Come coesisterà allora la telematica con la carta
stampata? Quale utenza ci sarà per l'una e per l'altra? Quale
l'offerta relativa? Quale potrà essere lo spazio reale dell'obiettività
e quale l'identificazione e il modo di essere del l'interpretazione?
Qualche mezzo di comunicazione si rifugia nella cosiddetta "par
condicio". Qualche altro accoglie l'una e l'altra possibile posizione,
e così crede di avvantaggiare audience o tiratura, avendo come
asso nella manica, presunto invisibile, un editoriale o un'ora di
punta, o questo o quell'ammiccamento di un notista o di un conduttore.
Va bene che anche delle cifre - arma del nostro mestiere di giornalista
economico - possiamo poco fidarci, ma l'assillante interrogativo riguarda
la salvaguardia da garantire alla verità, alla libertà,
alla dignità, che è anche efficienza professionale.
Invece oggi leggiamo o sentiamo che vi sono conduttrici che ascoltano
la loro voce (ma la cosa riguarda anche certi editorialisti che quando
scrivono parlano ad alta voce).
E leggiamo e sentiamo ancora, sempre a mezzo della televisione, che
qualcuna riesce a dominare la notizia. Il problema è quello
di vedere come la domina. Ma la stampa, a sua volta, come fa?
Fulmini del
pensiero: ricordi
E qui i tempi andati personali fanno entrare in gioco quelli che possono
essere definiti fulmini del pensiero.
Uno di essi riguarda la definizione di "impiegato della Confindustria",
che Piero Ottone - Enzo Bettizza lo accusa di autosantificazione -
mi attribuì, quale nuovo direttore de Il Sole nel maggio del
'62, nonché giornalista professionista, iscritto alla Stampa
Romana, come prima ho detto. Ma lui mi definiva così forse
solo per classificarmi, e voleva trascurare il ruolo della stessa
Confindustria quale editrice del giornale e lo stesso suo curriculum
personale di direttore che ha avuto a che fare anche con una società
editrice.
D'altra parte, mi sovviene il fatto che nella pascarelliana Scoperta
dell'America la risposta che l'oriundo dava alla domanda degli scopritori
era solo questa: "chi ho da esse? So' un servaggio". (E
qui il discorso potrebbe continuare, ma ne faccio a meno). Comunque,
nei miei medaglioncini, uno dedicandolo a me stesso (nel dovere di
concisione che mio padre mi insegnava da bambino probabilmente ricavandolo
anche dal Leopardi, fedele addirittura alla poetica della concisione),
faccio rientrare una deplorazione del PNF, insieme a Vittorio Gorresio,
a un provveditore agli Studi di cui ho detto prima e ad un successivo
direttore dell'Istituto di cultura fascista, per un articolo di critica
all'Istituto Coloniale Fascista e al suo presidente senatore: siamo
nel 1931.
E vi faccio entrare anche una polemica con Saragat, prima ancora che
divenisse Presidente della Repubblica, che "rettificava"
un mio editoriale nel quale mi richiamavo a dichiarazioni attribuitegli
da Il Corriere della Sera in merito ad effetti inflazionistici derivanti
dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica. Egli successivamente
a queste dichiarazioni ne aveva corretta una, ma non quella da me
citata. Sennonché, con un ritardo di una ventina di giorni,
mi negò anche questa dichiarazione, intimandomi l'applicazione
dell'art. 21. Mi limitai a pubblicare il tutto, rilevando l'inutilità
del richiamo dell'articolo 21, la rateizzazione e la tardività,
anche se alla fine telegrafica, della rettifica, la pericolosità
inflazionistica nei fatti della nazionalizzazione. Di una nazionalizzazione
che 35 anni dopo è entrata nella cronaca dei prezzi politici
che inutilmente si sono dovuti pagare e del nuovo percorso delle privatizzazioni.
I corsi e i ricorsi storici entrano, come si vede, anche in questa
materia. E al giornalisti tocca registrarli, anche se qualcuno ha
detto che non è vero che riusciamo a conoscere e a far conoscere
i fatti. E' vero, anzi, che non c'è niente di più misterioso
di un fatto. Se sapessimo che cos'è un fatto, sapremmo anche
che cos'è il mondo. E tutte queste non sono parole mie.
Fatti, dunque, che spesso non sono fatti. E qui la memoria mi porta
ad un grande vegliardo di qualche decennio fa, Giuseppe Paratore,
politico, senatore, esperto di finanza, nominato ottantatreenne presidente
della Commissione parlamentare d'inchiesta sull'affare Giuffrè.
Una sera l'Ansa dette notizia della sua morte nel corso di una conferenza
cui era presente. Ne predisposi la notizia e il commento per Il Sole
che dirigevo e che "chiudeva" alle 22, come allora si usava,
con un redattore di turno per le emergenze. L'indomani, nello scorrere
i giornali principali non trovai traccia della notizia, perché
avevano potuto contare su di un redattore di guardia più solerte
del mio, raccogliendo la smentita della stessa Ansa. Al mio telegramma
di scuse e sentitamente augurali Don Peppino - come lo chiama Montanelli
nel suo Gli incontri - rispose con un telegramma: "Nel confermarle
che sono vivo...".
Si trattava di una morte che era tornata indietro, anzi non c'era
mai stata. Oggi invece si deve registrare in Paesi molto distanti
da noi -ad esempio, in Virginia negli Stati Uniti -l'inesorabilità
della condanna a morte, anche nel caso della sopravvenuta rilevazione
dell'innocenza del condannato.
E a dare notizia e interpretare tutto ciò, nell'intitolazione,
nella immagine, nel tipo di carattere tipografico, o nella voce, è
il giornalista. Quanto rilievo, quanto spazio, quanti limiti!
Post scriptum
Un'ultima annotazione, attenuante per me, se l'eventuale lettore vorrà
concedermela. A smentita di Paul Valéry che diceva che "erano
gli ottimisti a scrivere male", accade anche a me che sono pessimista,
fortunatamente in buona compagnia con molti altri vecchi, questi sì
di successo. Uno di essi è Norberto Bobbio, che ne offre una
testimonianza anche angosciosa nel suo De senectute. Nello scrivere,
come continuiamo a scrivere, in età avanzata, non abbiamo alcuna
necessità di dire che qua e là abbiamo anche solo talvolta
vinto, perché c'è anche qualcuno che ha scritto che
i vincitori non sanno quello che perdono.
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