Le
opere della maturità
Nel 1958, presso l'editore Ceschina, a Milano, Gino de Sanctis pubblica
il suo quarto libro, intitolato Migliaia di chilometri; è un
libro importante che costituisce una svolta decisiva nella narrativa
desanctisiana. Infatti l'autore, da questo momento in poi, non sceglierà
più come argomento delle sue opere le drammatiche esperienze
della seconda guerra mondiale e della lotta partigiana Migliaia di chilometri
consta di quattro lunghi racconti di cui tre sono d'ambientazione esotica:
il primo, Il sorriso del re lebbroso, si svolge in Cambogia durante
la guerra d'Indocina; il secondo, La bussola del maggiore Ronner, nella
Somalia colonizzata dagli inglesi; il terzo, La bambola, nel Queensland,
il "mareverde" dei tagliatori di canna da zucchero. Solo il
quarto, Il granello di senape, è ambientato a Lecce, piccola
città di provincia, il cui barocco, un tipico barocco del Sud,
sembra impregnare l'atmosfera dell'intero racconto, il più bello
e il più riuscito dei quattro.
"Percorriamo migliaia di chilometri; ma il cuore umano conosce
altre distanze; quale abisso mi separa dal mio vicino?": è
questa la domanda con cui si apre il libro, secondo la quale de Sanctis
sembra voler suggerire, se non proprio una poetica, una sua intuizione
delle cose, che considera distanze maggiori non quelle che si misurano
in chilometri, bensì le distanze morali, quelle che si insinuano
tra uomo e uomo. A questo punto, però, il significato della didascalia
apparirebbe ai nostri occhi fin troppo ovvio. Forse un'ulteriore chiave
di lettura di Migliaia di chilometri potrebbe rifarsi in maniera più
aderente al viaggiare di de Sanctis, che vuole essere non tanto un'intima
e solitaria vocazione a conoscere fatti e luoghi e ad osservare i costumi
di popoli diversi, quanto una tenace e coraggiosa esplorazione morale,
un bisogno di partecipare, con la propria carica di civiltà,
all'ampio colloquio delle umane creature; il suo peregrinare, senza
irrequietudini e senza soste, non s'illude quindi di trovare nello spazio
solo quanto il tempo può dare.
Il primo dei quattro racconti, intitolato Il sorriso del re lebbroso,
è ambientato nella Cambogia insanguinata dalla guerriglia dei
Vietminh contro i Francesi. In questo luogo, tormentato e misterioso,
si incontrano lo stravagante e anticonformista fotoreporter americano
Walt Payne e la timida archeologa francese Dorotée Simon. I due,
nonostante qualche divergenza di carattere politico e ideologico, scoprono
ben presto di amarsi; ma il destino non concederà di potere esplorare
a fondo i loro sentimenti. Walt Payne è costretto ad abbandonare
Seam Reap e, durante il suo tragitto, gli viene tesa un'imboscata e
muore per mano dei partigiani Vietminh. E' in questo drammatico epilogo
che forse possiamo scorgere il significato morale del racconto: la vita
dell'uomo si disvela nella precarietà dell'esistere, del vivere
e del morire, degli incontri che provocano fatalmente tutta una serie
di situazioni improvvise. Per de Sanctis il mistero dell'esistenza si
identifica con l'enigmatica statua del Re lebbroso, figura mitologica
imperante sui templi di Angkor, il cui viso, giovane e sorridente, appare
deturpato dalla lebbra. Egli sorride perché sa che la verità
è oltre le apparenze, al di là della bellezza e al di
là della morte.
La bussola del maggiore Ronner è tra i quattro racconti quello
meno riuscito, sia per quanto riguarda il contenuto, sia per lo svolgimento
narrativo.
La storia si svolge nella Somalia italiana occupata temporaneamente
dall'amministrazione militare britannica e narra di un maggiore dell'esercito
inglese, Ronner per l'appunto, il quale, scoperto il tradimento della
sua bella e giovane moglie Margot con un attraente ispettore di origine
greca, Giorgio Avalos, decide di vendicarsi di lui abbandonandolo nel
deserto durante una battuta di caccia e procurandogli, di proposito,
la morte. L'impianto del racconto, benché immerso in un paesaggio
esotico splendidamente descritto, si limita ad essere un ingegnoso meccanismo
di cinismo e crudeltà troppo fine a se stesso, permeato delle
letture di Hemingway e Kipling, due degli scrittori più amati
da de Sanctis.
Dal terzo racconto, il cui titolo è La bambola, si intuisce che
l'autore conosce personalmente la vita dura e quasi primitiva dei tagliatori
di canna da zucchero australiani. De Sanctis ne fa un quadro vivo e
a tinte forti che, secondo Titta Rosa, ricorda, seppure con maggiore
incisività di stile, un romanzo di Filippo Sacchi, La casa in
Oceania (10). La bambola prende spunto da un fatto realmente accaduto:
il protagonista, che una delusione d'amore e un processo inducono a
scegliere il lavoro del tagliatore di canna, è trascinato in
un vortice di libertà non appena, guadagnata una buona somma,
abbandona il Queensland per raggiungere Sidney e sfrenarsi in una baldoria
notturna a base di whisky. Girovagando quella notte nel porto della
città, descritto con icastica evidenza, egli vive un'esperienza
di completa felicità dei sensi che si conclude con l'acquisto
di una grande bambola esposta in vetrina, nella quale gli sembra di
scorgere le sembianze di una donna amata. Da questo momento avrà
inizio il suo lucido delirio; tornato a casa egli tratterà la
bambola come se fosse una donna vera e innamorata. Ma un giorno si accorge
che un ragazzetto si è intrufolato nella stanza in cui è
gelosamente custodita la bambola e, dopo averlo colto in flagrante,
lo uccide. Questo racconto rappresenta l'ennesima testimonianza di un'esplosione
di spaventosa follia generata dalla solitudine, nella macerazione della
fatica bruta che rende le persone molto più simili alle bestie
e sempre più lontane dalla loro natura umana.
In Migliaia di chilometri, la vena narrativa di de Sanctis, intrisa
di ironia e di sincera pietà, si svela pietosamente nell'ultimo
racconto, Il granello di senape, pubblicato nel 1955 da "L'osservatore
politico letterario" e nel 1958 da "La fiera letteraria".
Il granello di senape è ambientato nella Lecce del 1920; la storia:
Padre Epifani, vecchio gesuita un po' santo e un po' matto, funge da
scanzonato mediatore tra la borghesia danarosa e piena di sé
e la povera gente di Lecce, rifuggendo dal moraleggiare e predicare.
Dopo essere stato convocato a casa dalle signorine De Luca perché
risolvesse il contrasto tra loro, due gentildonne timorate di Dio, e
le Lotteria, misteriose ed inquietanti vicine che abitano il basso adiacente
a palazzo De Luca, Padre Epifani ricorda a donna Tommasina e Clementina
le parole che aveva letto quel giorno: "latrones et meretrices
praecedent vos", e quindi le aveva supplicate di essere tolleranti
nei confronti di quelle persone, con il monito che la superbia precede
la lussuria nell'ordine dei sette peccati capitali. All'inizio dell'estate
Padre Epifani, anche se a malincuore, è costretto a recarsi a
Posillipo per motivi di salute. Ritornerà a Lecce durante il
periodo di Natale, e un vero miracolo di Natale apparirà dinanzi
ai suoi occhi quando, entrato a casa delle signorine De Luca per avvertirle
del suo arrivo, si trova anche le
Lotteria che si preparavano per le feste insieme alle due gentildonne
in un clima di armonia e di gioia.
Si comprende subito che la Lecce amata da Padre Epifani è quella
stessa amata da de Sanctis e il cui ricordo non l'ha mai abbandonato;
è la "[ ... ] Lecce degli stemmi gentilizi scolpiti in tufo
sugli architravi", dei "balconi e [ ... ] loggette a traforo
grondanti di gerani, delle umili chiese, quasi nascoste dal movimentato
gioco dei vicoli" (11), della Cappella delle Scalze, dove "i
pazientissimi ricami della pietra accompagnano l'estrosa linea barocca"
(12): tutte cose che rendono Lecce una città singolare ed inimitabile.
Dice de Sanctis della sua città natale che
a Lecce un uomo
non è spettatore della natura, ospite della bellezza, ma rinchiuso
nella comune casa lavorata pietra per pietra, è protagonista
dell'esistenza, creatore egli stesso di quel tanto di teatrale bellezza
sufficiente a contenere e a nobilitare la commedia umana di ogni giorno.
(13)
E come non ricordare
il ritratto delle due sorelle De Luca, bigotte fino all'inverosimile,
la cui vita, scandita esclusivamente dal calendario religioso, si
svolge tra il convento di S. Giovanni a Lecce e l'Ospizio delle suore
di Galatina, in cui è ricoverato il loro unico fratello, don
Gennarino; e l'immenso palazzo De Luca, paludato dai suoi tendaggi
pesanti, dalle ombre, dai grandi armadi odorosi di candele e di confetti,
dalle porcellane pregiate, dai lavori certosini all'uncinetto. Le
due zitelle e la loro casa, simbolo dell'antica aristocrazia leccese,
sono rese in un "bianco e nero" di splendida inventiva barocca,
a contrasto con Padre Epifani che, tra le molte figure di sacerdote
della nostra recente narrativa, è forse tra le più felici,
intimamente vera e umana nella sua cristiana bonomia.
Di grande umanità e di grande dolcezza sono ricche anche le
Lotteria, le due prostitute che vivono nel basso del palazzotto delle
De Luca.
I dialoghi che si intrecciano tra i vari personaggi, infiorettati
qua e là da espressioni in dialetto leccese, risultano estremamente
vivaci e sono modulati lungo due registri: schifiltosa superbia nelle
zitelle, umiltà e semplice cordialità nelle prostitute.
In seguito, durante il loro secondo incontro, l'accoglienza inattesa
che le sorelle De Luca preparano alle due povere donne, di cui finalmente
avvertono l'umanità (è lo sbocciare del "grano
di senape" predetto da Padre Epifani), è condotta con
una nitida maestria narrativa, nelle battute, nelle notazioni d'ambiente
e nei sentimenti che affiorano via via nel racconto. Tutti ingredienti
che rendono questa "storia di cuori semplici" (14), come
l'ha definita Paolo Premoli ne "La fiera letteraria", di
potente sobrietà e raffinatissima arte.
Numerose e divergenti sono state le definizioni attribuite a Il minimo
d'ombra (Milano, Rizzoli, 1967), il libro migliore della produzione
desanctisiana secondo l'unanime parere della critica. Lo si è
definito reportage giornalistico e romanzo, opera di ricostruzione
storico-biografica e opera di fantasia, racconto cronachistico e diario
psicologico. In effetti nel libro tutti questi generi sussistono,
si intersecano e si accavallano, senza priorità dell'uno sull'altro,
senza precedenza e preferenza per l'uno o per l'altro da parte dell'autore
che, invece, persegue un unico scopo: poter raccontare, senza tener
conto delle esigenze del lettore, le esperienze che aveva accumulato
in qualità di inviato speciale.
Prima di Migliaia di chilometri, le opere di de Sanctis nascevano
da un istintivo bisogno di narrare gli avvenimenti indissociabili
innanzitutto dal tempo storico in cui avvenivano e, in secondo luogo,
dal sottinteso che molte delle storie le quali entravano nei suoi
libri esprimevano una naturale reazione a guerre e rivoluzioni di
cui lo scrittore si ritrovava spesso a testimoniare e riferire. La
sua narrativa riparte da questo punto, dal bisogno cioè di
purificarsi da quelle esperienze immani per ritrovare la propria dimensione
umana e privatissima nel "lavacro della pagina". Il romanzo
è dedicato a un amico di de Sanctis, Jean le Roi, fotografo
di Paris Match, morto mentre lavorava presso il Canale di Suez.
Il titolo del libro, Il minimo d'ombra, sta ad indicare il massimo
di luce possibile poiché, nonostante un minimo d'ombra resti
sempre in noi, secondo de Sanctis è un dovere di ognuno cercare
di ridurre quanto più è possibile le proprie ombre.
Questo romanzo è ambientato ancora una volta in Africa dove,
nella boscaglia, esiste un'ora durante la quale le ombre sembrano
miracolosamente sparire e nascondersi sotto gli alberi. Quella, afferma
l'autore, è un'ora che tutti gli uomini, ad un certo punto
della loro vita, dovrebbero raggiungere, in cui le ombre della coscienza
sono ridotte al minimo e ci si trova faccia a faccia con se stessi.
Il libro è chiaramente autobiografico e le vicende trattate
in esso sono altrettanto chiaramente ricavate dalle molteplici esperienze
che egli ha vissuto come giornalista, corrispondente di guerra e inviato
speciale, ma sono altresì filtrate e ricostruite a posteriori,
attraverso, cioè, uno scandaglio postumo, o meglio attraverso
flashback, dove la memoria e le passioni passate acquistano luce o
nebulosità a seconda degli stati d'animo e del momento.
Il romanzo si snoda lungo una partita di caccia a cui prendono parte
l'africano Irut, Brusatto e il ragionier Desta, due italiani residenti
in Africa, lo stesso de Sanctis e un fotografo di nome Primo che assume,
sin dalle prime battute, il ruolo di cattiva coscienza: questi ultimi
si conoscono bene per aver lavorato insieme su molti fronti di guerra,
animato da una più o meno viva pietà il giornalista,
spinto dal cinismo e dall'interesse l'altro. Il gioco delle parti
è tutt'altro che nascosto e de Sanctis lo conduce con notevole
abilità e misura, sicché il fotografo ci appare più
freddo e più spietato, a volte, del suo stesso obiettivo, o
comunque privo di quel freno morale che può salvare, almeno
in parte, chi sia costretto a compiere azioni non proprio limpide
e degne. L'autore, però, non infierisce sul suo "doppio":
gli ha dato, invece, atteggiamenti e parole che alla fine lo rendono
quasi simpatico.
Mentre la caccia africana continua tra alterne vicende, il giornalista
ha dei soprassalti di memoria: la storia diventa così un viaggio
nella coscienza. In quest'Africa, dove negli "anni eroici"
de Sanctis ha svolto il suo lavoro di inviato del "Messaggero",
non c'è segno, sia pure lieve come alito di vento o come mormorio
di acqua, che non lo riporti ad altre sensazioni, scoperte ed esperienze.
Il minimo d'ombra, oltre che una storia interiore, è anche
la patetica e serena ricostruzione di una coscienza che si è
formata a poco a poco, a furia di tessere un mosaico, con accanimento,
con stento, con rabbia, passando attraverso le stagioni e le forme
più varie, gli splendori e gli orrori più inverosimili
e che poi, di botto, si è sentita come disgregare, sbriciolare;
è stato necessario un immenso sforzo per ritrovare una qualche
compattezza, per poter durare ancora.
La storia di questa coscienza, la quale è l'argomento del romanzo,
simboleggia il cammino di una generazione provata, come mai nessun'altra,
alle speranze, alle delusioni, alle certezze e agli sgomenti.
Sono molti, nel libro, gli episodi di indubbia rilevanza storica e
di grande potenza descrittiva che riescono a coinvolgere il lettore.
Al pari di un caleidoscopio impazzito, la mente dello scrittore ripensa
al giorno in cui vide, lui, unico giornalista italiano in mezzo ad
uno sparuto gruppo di giornalisti stranieri, il cadavere di Mussolini
disteso sul marmo di una cameretta mortuaria dell'Ateneo milanese
prima che fosse impiccato a piazzale Loreto, e ancora la memoria del
protagonista, messasi in azione, rammenta con dovizia di particolari,
senza cadere mai nel macabro compiacimento, la pubblica esecuzione
di alcuni ribelli sulla piazza di Adua, e inoltre l'avventurosa visita
compiuta ad un avamposto francese nella guerriglia indocinese del
1952. Ma il ricordo più vivo e più sentito per de Sanctis
è quello che lo riporta all'esaltante aprile della Liberazione
italiana, vissuto nel cuore della lotta partigiana, l'Emilia Romagna,
e immaginando di rivolgersi a Primo dice:
Ti ricordi, Primo,
tu che dormi ghignando, mentre la boscaglia ci rotea attorno [ ...
], ti ricordi fotografo, i vivi che vennero incontro a noi che puzzavamo
di morte, e il tumulto, lo stordimento sulle strade che costeggiano
l'Idice, lo Zena, il Savena; e i primi fazzoletti rossi sulla via
Emilia, e poi i polacchi sulla strada 65, e le bande armate sulla
strada di Castiglione di Pepoli, i bersaglieri sulla 64 lungo il Reno?
Quello del patriarca fu il primo vino di un omerico aprile. L'aprile
era tornato tante volte e tante ritornerà, ma confessa che
un aprile come quello non l'hai veduto mai, e chi oggi dice "per
fortuna" è un miserabile [ ... ]. Anche tu eri eccitato
in quei giorni. Non venirmi a raccontare che era solo furor photographicus.
(15)
Però non
si deve pensare che tutti i richiami del libro abbiano una valenza
così tragica: vi sono anche i paesaggi sereni, le scene di
caccia nella foresta africana, gli interni pacifici e domestici, i
personaggi bonari e le figurine quasi aggraziate. Giustamente a questo
proposito Luigi Personè si domanda come si possano citare i
momenti salienti della narrazione de Il minimo d'ombra se "il
libro è interamente citabile" (16).
Un ruolo centrale, in tutto Il romanzo, lo svolge Primo: Primo è
il sentimento della vita che può prescindere da categorie morali
nel giudicarla, Primo è la ruga rimasta al suo posto in un
viso contratto dal corruccio, è lo specchio di una realtà
che non emerge alla superficie della coscienza in quanto, da sempre,
vi è riflessa come in uno stagno. Morrà anche lui, ma
non sarà una fine legata al decadimento del corpo, non conoscerà
gli anni in cui la paura dell'irreparabile combatte la speranza. Primo
non tornerà più da un'escursione in cui voleva fotografare
dei pachidermi prigionieri in un pantano. Così Primo, dunque,
scompare; l'alter ego del giornalista sentimentale, ma si potrebbe
dire anche la parte di quest'ultimo che ha scrutato per anni nelle
pieghe più disumane della storia per mestiere, non vedrà
il fuoco acceso nella notte, che sarà l'immagine conclusiva,
emblematica anch'essa, con cui si chiuderà il libro.
Il minimo d'ombra è frutto di un'esperienza, o meglio di molte
esperienze, che hanno impiegato parecchio tempo a sedimentarsi e a
trovare un adeguato ritmo stilistico. Era logico d'altra parte, essendoci
in gioco non già i valori di una semplice ricerca letteraria,
ma i valori di un'intera esistenza. Per la sua catarsi de Sanctis
sceglie di compiere un viaggio in Africa; questo Paese incantato diventa
subito il simbolo di un Eden doloroso e contrastato che fa ritrovare
fratelli coloro che per cause diverse si trovano ad attraversarlo.
Accomunati da un mal d'Africa che diventa nostalgia di un paradiso
perduto, i vari personaggi si muovono attorno al protagonista proteso
lungo tutto il corso del romanzo nel tentativo tanto caloroso, quanto
disperato, di illuminare o di liberare dall'ombra la mente che si
è ormai tanto abituata alla crudeltà e alla violenza
da non reagire nemmeno più.
Il minimo d'ombra è tutto impregnato di una strenua volontà
di penetrare l'esperienza umana di una generazione, di capirla e di
capire, impegnandosi in una dialettica tra coscienza morale e realtà
civile dalla quale rimangono escluse le schematizzazioni del giudizio
che pongono il bene e il male in due campi contrapposti e ben sapendo
che la verità può essere anche nel rovesciamento delle
situazioni. La riuscita del libro, da un punto di vista estetico,
finisce per diventare in un certo modo secondaria nei confronti del
suo impegno morale. E il libro di de Sanctis potrebbe definirsi, a
guardar bene, quello di un neorealista, beninteso nel senso ampio
del termine: il romanzo, infatti, ha tutta l'ansia di giungere ad
una conclusione che non sia definitiva, ma semplicemente offra dei
dati e delle riflessioni al lettore che nel libro abbia avuto la ventura
di riconoscersi.
Mi sembra giusto concludere su Il minimo d'ombra riportando il parere
dello stesso de Sanctis.
Ne Il minimo d'ombra
ho cercato di capire il mio passato, di verificare alcuni suoi momenti
essenziali. Ogni momento un segno, una traccia, come a disegnare un
identikit. Era un conto aperto con tanti anni lasciatimi alle spalle,
dovevo pur pareggiarlo. Quel che seguirà non avrà più
problemi di tempo. Voglio dire che non ci saranno date nella storia
che diventeranno mie cifre personali nel conteggio di illusioni, speranze,
delusioni. Forse è il momento di cominciare a capire qualcosa
di me davanti all'eterno.
De Sanctis, tenendo
fede a quanto aveva dichiarato nel suo ultimo sforzo narrativo, intitolato
L'Augusta e i clienti, si discosta completamente da tutte le sue produzioni
precedenti per parlare della ricerca laica della fede: è questo
il tema comune ai tre racconti lunghi che l'autore ha riunito in questo
volume. L'Augusta e i clienti è un titolo indubbiamente inconsueto
ed enigmatico e che, tra l'altro, non appartiene a nessuno dei racconti.
Augusta è un semplice nome di donna, un referente carico di
un valore simbolico, in quanto a lei si rivolgono tutti i personaggi
del libro; essi possono essere definiti clienti in modo molto ampio,
nel senso di devoti, devoti cristiani. De Sanctis affronta in quest'opera
una problematica religiosa che fino a quel momento risultava estranea
tanto ai suoi articoli quanto al suoi libri. Il concetto di religione,
per l'autore, è estremamente originale, poiché si rifà
all'idea di uomo come entità inscindibile dalla sua esistenzialità.
Nulla di confessionale pertanto: la sua è una religiosità
virile, laica che trova forza in se stessa e che verifica la certezza
della fede nella dolorosa azione del vivere quotidiano.
Quindi la meta che de Sanctis desiderava raggiungere era prima di
tutto cercare di fissare dei punti per ricreare le condizioni di una
fede umana; egli si rendeva conto che il suo ambizioso progetto era
tutt'altro che facile da realizzare: ne è risultato un libro
di non agevole lettura, espresso in un linguaggio che lui stesso ama
definire "crittografico". Ed èproprio sul linguaggio
di quest'ultimo libro che si concentrano le attenzioni della critica;
la scrittura diventa improvvisamente di difficile comprensione, assume
un carattere ermetico, la narrazione si perde in un grumo di concetti
impossibili a descriversi: da qui la ricchezza di ardite allegorie
e l'uso dei puntini di sospensione:
Allegorie, naturalmente:
io pasteggio con allegorie e fruttiere; e in fondo alle fruttiere
trovo sempre un'allegoria, come una ciliegina nell'aperitivo. Fu in
quegli anni, prima di andarsene bestemmiando, che Beppe ci illuminò
sulle teorie religiose del suo professore di scienze naturali [ ...
] Lo chiamavano Cipolla. Direte Cipolla! Allora è lui, anche
io... lo so, vado suscitando memorie reali. Avanti, memorie, a torme
come cavalli, fuori dalla stanza (17).
Pur rendendosi
conto delle difficoltà di interpretazione che si riscontrano
nella lettura de L'Augusta e i clienti, de Sanctis è convinto
che
oggi il lettore
medio è diventato molto più esigente e non si accontenta
delle approssimazioni, specie su un argomento come quello della fede
religiosa. D'altronde il procedimento da lui usato si riferisce a
Il minimo d'ombra, dove cercavo qualche punto fermo in mezzo al ginepraio
delle ideologie. In questo libro affronto con diversa tecnica narrativa,
ma con lo stesso stato d'animo, la possibilità, per un laico,
di recuperare la fede cristiana.
Come si è
detto, L'Augusta e i clienti contiene tre lunghi racconti, apparentemente
lontani l'uno dall'altro, accomunati invece da una medesima disposizione
ad eludere la concretezza della circostanza da cui prendono le mosse
per attingere a diverse aree storiche o psicologiche, nelle quali
risulta più caratterizzante l'aggancio metafisico e più
conseguenziale il linguaggio iniziatico del neofita (18). Nei tre
racconti, però, l'attenzione del lettore si rivolge a quella
problematica essenziale che ha per oggetto il mondo della libertà
morale, l'incertezza dei nostri destini e quindi l'esperienza complessa
della nostra quotidiana individualità. Nell'ordine sono queste,
appunto, le tre basi ideologiche che sostengono l'invenzione degli
altrettanti racconti.
Il primo di essi, L'Ostessa di Drepane, è quello che ha raccolto
i più entusiastici elogi da parte dei recensori; il punto di
partenza è un fatto concreto: un personaggio, dal ruolo non
molto definito, al seguito di una spedizione archeologica che sta
riportando alla luce un'antica basilica cristiana, dialoga a distanza
con una donna per raccontare particolari sui lavori, ma soprattutto
per descrivere, con acuta penetrazione e con l'appoggio di un'aneddotica
storica assai vasta, gli affreschi delle pareti che rappresentano
l'Inventio Crucis. Attraverso l'interpretazione estremamente soggettiva
dei dipinti ad opera di questo fantomatico personaggio, emerge ancora
una volta la moralità dello scrittore che nasce da una prospettiva
critica rispetto all'ortodossia ufficiale; il Cristo, raffigurato
negli affreschi, di cui parla lo scrittore non è l'immenso
ed infallibile giustiziere, bensì un Cristo evangelico quale
esempio di un cristianesimo evangelico e lontano dalla sofisticazione
razionale, come i tempi vanno sempre più imponendo.
Secondo Alberto Frasson, L'Ostessa di Drepane nasce dalla stessa matrice
morale de Il Quinto Evangelio di Mario Pomilio, pubblicato nel 1978,
esattamente due anni più tardi rispetto al racconto dell'autore
salentino (19). De Sanctis, al pari di Pomilio, dopo aver assistito
alla fine del neorealismo e cercato di tagliare definitivamente ogni
legame con quei ricordi e con quel periodo storico, non imbocca la
facile strada della letteratura d'evasione o del romanzo intimista,
ma approfondisce i temi cruciali del nostro tempo, rileggendoli in
una chiave morale e fantastica. Di conseguenza, nei due romanzieri,
lo scavo interiore li conduce a cercare di darsi delle risposte che
soddisfino la loro ansia religiosa più alta. Tanto ne L'Ostessa
di Drepane quanto ne Il Quinto Evangelio esiste l'invenzione del documento,
il bisogno di riscoprire il messaggio del Cristo sulla base di un
testo non ortodosso e la cui forte portata innovatrice, in entrambe
le opere, viene narrata dai protagonisti attraverso delle lettere.
Il secondo racconto porta il titolo di I clienti dell'Orlandino e
il suo andamento narrativo è nettamente scandito in due momenti:
il primo si fonda su una base realistica, offerta dal circostanziato,
ma fin troppo anomalo preludio sulla vita romana degli anni Cinquanta
vissuta dall'autore con una brigata scapigliata di cui facevano parte
anche Giangaspare Napolitano e Pasquale Festa Campanile, i quali si
riunivano ogni sabato, per un certo periodo di tempo, in un'osteria.
Una sera questi amici, nella saletta dell'ospitale trattoria che accoglieva
la loro joie de vivre, si narrano tre metafisiche versioni della verità
raggiungibile o irraggiungibile: e qui il discorso si solleva di colpo
a quella dimensione speculativa che nobilita il libro.
Sono tre storie nelle quali trabocca l'ansia di vedere, di capire,
di interpretare certe immagini e certe figure che l'esperienza ossessivamente
ci ripropone: ambientate in altri tempi, almeno le prime due, e in
altri spazi con lo scopo di accentuare il carattere esoterico dei
loro contenuti, esse trovano una particolare dimensione religiosa
nella epifania di una sempre possibile "uscita di sicurezza".
Bella particolarmente la seconda, che potrebbe essere estrapolata
e, perdendo magari alcune delle suggestioni che la presenza nel contesto
avvalora, conservare un suo autonomo significato narrativo.
Nel terzo ed ultimo racconto, dal titolo L'innumerabile famiglia,
ci viene narrata una storia di complicate identificazioni orchestrate
da un vecchio scrittore, il professor Addamiani, che immagina, per
il suo nuovo romanzo una realtà ricalcata ed anticipata su
quella vissuta: il personaggio utilizzato è Ludovico Occhipinti,
amico dei suoi figli, che viene fatto agire, sul piano concreto e
su quello allegorico, per esemplificare la molteplicità delle
relazioni e delle interferenze che l'individuo subisce ad opera di
quanti gli vivono accanto o lo hanno preceduto in un'esperienza esistenziale
che muta. L'evento del racconto consiste nella conferma di una sottomemoria
biologica che quasi mette in dubbio l'entità individuale e
finisce per contestare la validità della religione, vale a
dire che ogni uomo non è una persona sola bensì il prodotto
di tutte le persone che lo hanno preceduto. Anche qui, allora, la
religione si riassume in linea con quanto negli altri racconti era
stato affermato: è una faccenda degli uomini, vale a dire che
esiste solo quale frutto della fede. E questa, chiaramente in termini
eterodossi, è un'ennesima risposta al dogmatismo scolastico
nell'impostazione razionalistica del rapporto uomo-Dio.
Le opere del
de Sanctis giornalista
Regina di cenere e La congiura di S. Michele sono due libri che esulano
completamente dalla produzione narrativa di de Sanctis in quanto sono
opere di taglio più squisitamente giornalistico.
Regina di cenere (Bologna, Cappelli, 1965) nasce da un antico desiderio
di riunire in un unico volume i più significativi tra i suoi
innumerevoli racconti, disseminati su riviste e giornali; è
una raccolta di elzeviri, reportages, riflessioni, brani di genere
memorialistico scritti un po' ovunque. Anche questo libro diventa
la prova tangibile di come il giornalismo possa essere, nel caso di
de Sanctis, un buon compagno della letteratura, e cercare di tracciare
una linea di demarcazione fra l'inviato speciale e il narratore si
rivela quanto mai impossibile. Leggendo Regina di cenere ci rendiamo
conto che gli scritti giornalistici di de Sanctis confermano la sua
immagine di scrittore analitico, non banale, secco e puntiglioso,
raccontatore di storie tra le più originali del nostro tempo,
questa sua piccola antologia può paragonarsi all'album di un
viaggiatore, in cui vengono riportate le impressioni di un animo sensibile
ed attento. E de Sanctis viaggia per tutto il libro, seguendo un filo
di Arianna che in qualche modo lo tiene sempre ancorato alle sue due
città: Roma, in cui egli vive da quando era adolescente e la
gentile Lecce barocca, in cui è nato. Proprio a Lecce è
dedicato il racconto Il giorno dei vivi, in cui de Sanctis decide
di ritrovare se stesso e le sue radici, tornando a passeggiare, alle
prime ore del mattino, attraverso le strade anguste, contorte ed affrescate
di bianco della Lecce antica:
Nella città
dove nacqui, la casa materna è al centro d'essa, sul fianco
del Duomo e del campanile, proprio come seme nel centro di un frutto,
e non è, la mia, città di transito. Per vederla, per
rivederla, è necessario un atto di volontà, e costa
molte ore di treno o di automobile. Quando la professione mi spinge
in quella direzione, ogni volta che lo posso, prolungo quella spinta,
e arrivo laggiù, senza alcun compito che non sia quello di
rivedere care immagini, di tendere l'orecchio ad antiche voci. (20)
Il ritorno nella
città natale è, per de Sanctis, come una catarsi, un
modo per scrollarsi di dosso le "scorie" dei suoi viaggi
passati, presenti e futuri, per ricercare la sua vera identità
e ritrovare l'innocenza della fanciullezza, la quale ora giace abbandonata
nel giardino di Palazzo Prati.
Ne La congiura di S. Michele, pubblicato da Pari nel 1979, si narra
in diciotto brevi capitoli la mirabolante storia di una congiura politico
militare, organizzata in Italia in uno dei periodi più tragici
del secondo conflitto mondiale. La congiura ebbe come promotore e
protagonista un uomo incredibile, il cavalier Giuseppe Cambareri,
capo dei Rosa Croce sudamericani, maestro di spiritualismo; de Sanctis
fu l'affascinato spettatore delle gesta e degli intrighi di Cambareri,
il quale veniva considerato tanto dai discepoli quanto dagli uomini
d'affari una specie di mago, poiché sua madre apparteneva a
una famiglia calabrese di nome Cagliostro: per questa sua aura di
mistero e per il suo amore verso gli studi spiritualistici, riuscì
a circondarsi dei personaggi più illustri della vita politica
del tempo come Paolo Badoglio. De Sanctis narra con la sua solita
abilità il dipanarsi della congiura fra Cambareri e Badoglio,
il generale Carboni e il Vaticano, gli Alleati e il Sim. La congiura
non sarà portata a termine e molti dei suoi fautori morranno
lungo lo svolgersi degli avvenimenti, ma la storia ci viene restituita,
a distanza di più di quarant'anni, con l'entusiasmo con cui
venne vissuta attraverso le pagine del libro di de Sanctis.
(2 - Fine)
NOTE
10) Cfr. G. TITTA ROSA, Migliaia di chilometri di Gino de Sanctis,
in "L'osservatore politico letterario", maggio 1958.
11) G. DE SANCTIS, Il granello di senape, in Migliaia di chilometri,
Milano, Ceschina, 1958, p. 205.
12) Ibid.
13) Ivi, p. 228.
14) P. PREMOLI, Migliaia di chilometri, in "La fiera letteraria",
18 maggio 1958.
15) G. DE SANCTIS, Il minimo d'ombra, Milano, Rizzoli, 1967, p. 77.
16) L. M. PERSONE', Il minimo d'ombra di Gino de Sanctis, in "Il
Gazzettino di Venezia", 21 maggio 1967.
17) G. DE SANCTIS, I clienti dell'Orlandino, in L'Augusta e i clienti,
Milano, Pan, 1976, p. 68.
18) A. FRASSON, L'Augusta e i clienti di Gino de Sanctis, in "L'osservatore
politico letterario", luglio 1976, p. 101.
19) Cfr. A. FRASSON, articolo cit.
20) G. DE SANCTIS, Regina di cenere, Bologna, Cappelli, 1965, p. 139.
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