L'ALBUM DEI BRIGANTI




Franco Barbieri



All'indomani della unificazione del Mezzogiorno d'Italia al Regno sabaudo, si evidenziarono, con immediatezza, i molti problemi che richiedevano interventi urgenti. Ma uno su tutti mostrò drammatica e particolare rilevanza poiché metteva a rischio l'esistenza stessa del nuovo Stato: all'epoca fu chiamato "brigantaggio meridionale", in tempi recenti "la guerra dei contadini del Sud".
Il brigantaggio non era un'esclusiva del Meridione, ma il precedente tentativo del Cardinale Ruffo e la partecipazione dei briganti alla controrivoluzione rappresentarono un facile e comodo motivo per fare assumere quella denominazione, così da nascondere e rimuovere altre e più profonde ragioni economiche, sociali e politiche delle quali i reggitori del nuovo Stato erano consapevoli ma impreparati e incapaci di affrontare.
In estrema sintesi le citate ragioni possono identificarsi nei tentativi e negli atti tesi a ripristinare il regno borbonico; nella disillusione popolare, e non solo, seguita all'atteso, promesso e non realizzato riequilibrio economico e sociale; nella discrezionalità, faziosa e prepotente, della nuova burocrazia borghese, che impropriamente si autodefiniva liberale; nella dismissione di circa 100.000 soldati, di entrambe le parti, molti dei quali, usciti dalle carceri per unirsi ai garibaldini, avevano sperato che il governo di Re Vittorio Emanuele li avrebbe condonati per reinserirli nella vita sociale; e in altre ancora.
La lettura in chiave marxista ha identificato, poi, la ribellione come lotta di classe per il rilievo della partecipazione dei contadini che, al contrario, avevano scarsamente preso parte e contribuito alle guerre risorgimentali. Sospinti dalla natura esistenziale dei propri bisogni, non potendo accettare che anche il nuovo Stato liberale non intendesse modificare lo stato delle cose nei loro confronti, aderirono, pur con tutte le contraddizioni dovute all'incultura e alla miseria, alla ribellione alimentata dalla politica di reazione dei Borboni.
Queste condizioni formarono il terreno fertile nel quale poterono crearsi, crescere e prosperare uomini ribelli per natura, crudeli per necessità e ardimentosi per abitudine, che si aggregavano in bande al comando dei personaggi più decisi e più capaci.
Tradizionalmente la loro azione, che non temeva di usare la violenza sino all'estremo limite, era rivolta contro i ricchi possidenti e qualche volta in difesa dei contadini più angariati.
Una tale situazione avrebbe richiesto una strategia politica di livello maturo e superiore che ancora non poteva essere nel bagaglio culturale delle troppo recenti strutture statali e politiche; ciò non deve meravigliare se anche oggi, dopo quasi un secolo e mezzo, tale livello non è stato raggiunto.


L'analisi del fenomeno ha impegnato sin da allora pensatori, intellettuali e politici e rimane tuttora aperto a interpretazioni diverse e contraddittorie che si estendono dal richiamo alla ribellione della Vandea all'analogia con le guerre contro gli indiani d'America.
Queste ultime, in particolare, hanno esercitato ed esercitano un fascino speciale e suggestivo, dovuto, anche, alla rappresentazione fotografica di avvenimenti che erano contemporanei a quelli che interessavano il Sud d'Italia, pur se profondamente diversi nelle cause e negli sviluppi. Tant'è che le guerre americane sono diventate l'epopea della nascita di una nazione, mentre le lotte del Meridione hanno contribuito a creare un solco profondo ancora non colmato. Quanto accomuna i due avvenimenti è rappresentato dalla crudeltà dei comportamenti dei protagonisti documentata dalle immagini che il nuovo mezzo, la fotografia, rendeva possibili.
La specificità delle situazioni del "brigantaggio meridionale" non può adattarsi ad altre condizioni che possano rappresentare, solo a rischio di forzature ideologiche e politiche, un termine di paragone. Gli eventi sono troppo complessi per permettere la lettura e la comprensione di avvenimenti sfuggenti e non semplici, se non attraverso la ricerca e la rilevazione di elementi rintracciabili nei documenti, di qualunque natura; trarre "indizi", che possono essere considerati quali tasselli di una sorta di mosaico, consente di formare un quadro cui attribuire il carattere di generalità secondo un'analisi che almeno garantisca un certo grado di oggettività.


Questo insieme di elementi rappresenta la l'accumulazione di indizi".
Nella riflessione riguardante l'immagine fotografica si è avuto modo di rilevare, tra gli altri, il significato documentale che ad essa può essere attribuito quando, nel suo essere traccia della realtà, illustra aspetti che si connettono al processo storico.
Rimangono, comunque, valide tutte le osservazioni, già sviluppate, nei confronti del mezzo fotografico e del suo prodotto, la fotografia.
Quelle osservazioni appaiono ancora più rilevanti e influenti se le immagini, nella loro valenza di documento, divengono elementi significativi e illustrativi di fatti, eventi e personaggi che hanno determinato, e determinano, la nostra vita attuale.
E', però, importante in primo luogo la verifica della veridicità, di luogo e di tempo, delle immagini così da consentire l'identificazione del mostrato e del suo accadimento; in secondo luogo, devono essere ricercate e accertate le premesse e le condizioni di acquisizione delle stesse; infine devono essere riconosciute le motivazioni e le eventuali ragioni che le hanno rese necessarie o opportune, o possibili e, in particolare, come e perché finalizzate.


Le accennate condizioni, a integrazione di quelle già identificate ed esposte, si rendono necessarie al fine di assumere le immagini fotografiche quali documenti da utilizzare nell'analisi storica di quest'ultimo secolo e mezzo.
La fotografia, da parte sua, è il congelamento dell'attimo fuggente; le immagini, riprese nel tempo e nei luoghi, formano l'accumulazione di attimi che, se consecutivi, danno luogo alle sequenze di immagini.

L'accumulazione di attimi, quando disponibili, può essere messa in corrispondenza all'accumulazione di indizi, permettendo e giustificando l'analisi storica attraverso le fotografie premettendo, però, una prudente riserva da conservare nei riguardi dell'autenticità e veridicità di esse; tale analisi permette di scoprire elementi, espliciti o meno, atti a formare visioni, considerazioni e giudizi nel rapporto tra gli eventi e gli autori, tra questi e le eventuali finalità recondite o palesi.

Negli autori di storia contemporanea, e in particolare in quelli che hanno affrontato il tema del "brigantaggio meridionale", il metodo richiamato è stato applicato parzialmente, seppure diffusamente, raccogliendo e riportando testimonianze dirette dei protagonisti, noti e meno noti, sia di una parte che dell'altra, con le fotografie che accompagnano i testi, in genere, nella funzione semplicemente illustrativa, quasi a loro conferma supplementare.
Nel presente caso, le opere di differenti anonimi autori, incaricati dai comandi militari sabaudi di documentare la cattura dei "briganti", pur nella non eccellente qualità, soprattutto di riproduzione, riescono a dire, nella loro grezza drammatica semplicità, molto, e in molti casi di più, di quanto narrato e riportato.
Confidando nella giusta attribuzione dei personaggi e dei luoghi, si può tentare di verificare la corrispondenza tra i documenti testuali e fotografici, ovvero l'eventuale differenza, con lo scopo di riconsiderare, dall'analisi delle immagini, giudizi e riflessioni.
Le fasi, che la tecnologia fotografica dell'epoca rendeva quasi impossibili, venivano rappresentate con disegni e i personaggi, tipici e idealizzati, in costumi variopinti in modo da fornire al lettore un'immagine utile alle tesi che si volevano fossero avvalorate.
Essi, nel caso presente, sono la premessa indispensabile per il confronto con le immagini fotografiche come primo anello della catena della "narrazione" che fornirà interpretazioni degli avvenimenti e dei personaggi che si incontreranno.


Così, la tavola n. 1, a colori, è un disegno che rappresenta due briganti nel loro pittoreschi vestiti, con il capo coperto dal noti cappelli a cono impreziositi da nastri multicolori, armati di primitivi fucili ad avancarica, indossanti pantaloni stretti appena sotto il ginocchio, con calzari di pelle tenuti da lacci avvolti lungo il polpaccio intorno a fasce che proteggono questo e il piede. Completa il disegno la figura di una donna, che persino nel disegno sembra "silenziosa", agghindata con il semplice e bellissimo vestito tradizionale, comune a tutte le donne del Meridione pur nelle numerose varianti locali.
Questa immagine, che non è quindi una fotografia, assume proprio per questa ragione una valenza di confronto altamente significativa, e pone sinteticamente ed emblematicamente in risalto la visione tradizionale e popolare del brigante e della sua donna.


In contrasto, la tavola n. 2, cioè la prima fotografia, mostra la figura imponente del capobrigante Carmine Crocco Donatelli, (uno dei pochi sfuggiti alla fucilazione, restando in carcere per circa 40 anni fino alla morte), dallo sguardo magnetico e penetrante, il cui viso è incorniciato da una gran barba fluente che poggia sulla giacca e il gilet. L'intensità del volto dona al brigante una elevata statura, mista di autorità e di decisione, di "uomo" cui si può attribuire, sotto alcune pregiudiziali notazioni, anche aspetti di fredda crudeltà; certamente, comunque, non ispira alcuna idea di personaggio folcloristico.


Le sintetiche osservazioni che si offrono dall'esame del suo ritratto fotografico corrispondono a quanto contenuto nei documenti che lo riguardano: l'interrogatorio nel processo intentato contro di lui e conclusosi nel 1872 con la condanna a morte, condonata, due anni più tardi, nella pena ai lavori forzati a vita; la sua autobiografia raccolta e trascritta dal capitano Massa, che curò anche alcune proprie descrizioni e relazioni; le note su di lui dello spagnolo Borjés, inviato dal Borboni per coordinare e dirigere la controrivoluzione; l'intervista che Ribolla e Ottolenghi gli dedicarono poco prima della sua morte avvenuta nel 1905 nel penitenziario di Portoferraio; infine le conclusioni di una visita avvenuta nel 1901 da parte dello psichiatra dell'Università di Napoli, professor Pasquale Penta, che così lo descrive: "Alto nella persona, robusto, svelto, con occhio indagatore, sospetto, attento [ ... ], la persona è ancora dritta e resistente, dopo una vita agitata, piena di sofferenze, di stenti, di timori e di pericoli di ogni sorta. E' una intelligenza non ricca al certo né libera di superstizioni (anch'egli porta il rosario al collo, abitini ed amuleti), ma chiara, ordinata e sicura".
Di tutt'altro genere è la rappresentazione, nella fotografia n. 3, del capobrigante Luigi Alonzi detto Chiavone, inquadrato a busto intero, dal corpo magro e smilzo, con occhi cerulei e barbetta e baffi, in divisa militare con fascia alla vita da cui spunta, e non a caso, il calcio e il grilletto di una pistola ad avancarica: tutti gli elementi lo fanno apparire di buona famiglia, distinto e intelligente, se non fosse quell'arma a sottolineare il suo ruolo.


Già queste prime due immagini, nel loro apparente realismo, contengono elementi simbolici ed emblematici che le fanno grandemente diverse dalla rappresentazione folcloristica del disegno, consentendo di rilevare, da alcuni "attimi", "indizi" che concorrono a rettificare opinioni e giudizi consolidati.
Più di maniera, anche se con la pretesa e la presunzione di presentarsi come un'istantanea, è la fotografia n. 4 del capobrigante Sacchitiello che, insieme ai suoi luogotenenti armati, è ripreso nell'atto di caricare il suo fucile, attento e concentrato nell'azione, con espressione del viso fieramente dignitosa; tutti e tre i personaggi sono ben vestiti e formano una composizione triangolare la cui base, che mette in evidenza la figura del capobrigante, è segnata dalla canna di fucile del personaggio di destra.


L'immagine dei vinti, messa in scena dai vincitori, appare nella fotografia n. 5 che ritrae il capobanda Schiavone, il quale, rivestito di un mantello avvolto sul corpo a modo di saio penitenziale, mostra il suo stato di prigioniero per via della lunga, grossa e vistosa catena che gli cinge il polso, che sbuca, con la mano, da quella specie di sacco che lo copre. I volti dei personaggi subalterni esprimono un misto di incredulità, diffidenza e timore, mentre il viso di Schiavone emerge dal saio-coperta fiero e truce, non domato.
Queste prime fotografie dei capibanda e dei loro luogotenenti, i più vicini e i più fidati, ci restituiscono atteggiamenti e sguardi consapevoli, determinati e fieri con i quali si confrontano i vincitori, mostrando qualcosa d'altro che la ferocia e la crudeltà animalesca ad essi attribuite da alcune narrazioni. Le immagini restituiscono la dimensione umana dei protagonisti di vicende drammatiche e tragiche che ci inducono alla riflessione per meglio capire.


Così gli stessi intensi ed espressivi sguardi si ritrovano nelle fotografie nn. 6a, 6b, 6c, 6d, 6e, nelle quali le "brigantesse" sono state riprese nei costumi tradizionali e tipici del luogo di origine, ma con armi in pugno per rendere ben visibile e rimarcare il loro ruolo e la loro condizione. I vincitori-autori di queste immagini è da ipotizzare che volessero nello stesso tempo sottolineare la tipicità della loro femminilità e la singolarità della condizione di amazzoni guerriere.
E' un dato storico di novità la partecipazione della donna, in particolare del Meridione, ad azioni armate, che contrasta con il personaggio femminile in genere pensato come secondario e sottomesso.
Ma nella fotografia n. 7 di Michelina De Cesare, il folklore e la teatralità mistificatoria lasciano il posto al realismo e alla crudeltà dell'immagine: il nudo della donna uccisa accusa, più di qualunque requisitoria, l'esibizione lampante del trionfo del cacciatore sulla preda.
Lo stesso crudele atteggiamento di chi ha .,curato la messa in scena", di chi vi ha partecipato e di chi l'ha ripresa, si ritrova nell'immagine n. 8 del brigante Curcio, ormai ucciso, il cui cadavere è messo in posa tra il sacerdote a sinistra, che sorregge una candela e un crocefisso, e il soldato con il fucile, baionetta innestata, sulla spalla in posizione di riposo. Con grande probabilità, la figura del prete, abbastanza rara nelle fotografie conosciute, fu, in questa, introdotta per voler mostrare che i sacerdoti erano dalla parte dei sabaudi, per controbattere le voci che invece li ponevano dalla parte opposta.


Un aspetto non secondario del "brigantaggio meridionale", seppure di facciata, era quello della guerra di religione che, come detto, ha stimolato il paragone con la Vandea. Invero ogni comunicato dei Borboni e dei loro sostenitori' iniziava e finiva con un'invocazione religiosa, i briganti si mettevano sul panni oggetti di ispirazione sacra, i preti dal pulpiti e sulle piazze non facevano mistero della loro avversione nei confronti del governo degli "atei liberali" sia per riguardo al Papa di Roma, che ancora resisteva ai piemontesi, sia per sostenere e difendere i propri privilegi.
Ancora più raccapricciante è la fotografia n. 9 del capobrigante Nicola Napolitano, la cui testa è tenuta alzata dal brigadiere che lo ha ucciso, presa dai capelli, quasi fosse un animale, per mostrare la devastazione della bocca operata dal colpo inferto.
Nella stessa macabra posa vengono sistemati i personaggi delle successive foto n. 10 e n. 11, mentre, cosa abbastanza singolare, nella foto n. 12 lo stesso brigante, Ninco Nanco, della n. 10 è ripreso appena caduto, in posizione che si potrebbe definire classica per il taglio della composizione, per le ombre che si ritagliano su tutta l'immagine, prototipo di successive rappresentazioni cinematografiche. Nella ricostruzione storica, realizzata con il mezzo cinematografico, verrà ripreso il ritmo della narrazione così profondamente diversa da quella fotografica che, come ci dimostra la presente analisi, è rivolta a documentare.
Le immagini n. 13 e n. 14 ci fanno scoprire i cosiddetti "briganti galantuomini", cioè borghesi che tentarono di reagire, nell'unico modo al momento possibile, al nuovo corso degli eventi nella sostanza non controllati dal potere centrale e pertanto determinato dai soldati e dalle "amministrazioni locali" gestite da una nuova borghesia emersa e arricchitasi con l'assegnazione dei terreni demaniali.
La fotografia n. 15 documenta insieme vincitori e vinti, poco prima del momento della fucilazione; i primi in numero di 8 sono in piedi, con fucili con baionetta innestata, seri e compunti; i secondi seduti, tenuti per le spalle da mani di cui non si ravvisano i padroni, con l'eccezione del quarto, trattenuto per il bavero, che ha sul viso un sorriso che sembra una smorfia ironica.


La n. 16 è l'ultima fotografia che viene qui riprodotta: essa presenta, su di una terrazza, il generale Cialdini con il suo Stato Maggiore composto per lo più da giovani ufficiali con i visi decorati di baffi, barbe e pizzetti, eleganti nelle loro divise, in atteggiamenti posati ma che vorrebbero apparire spontanei. Il gruppo ricorda una riunione nel circolo ufficiali e nasconde la drammaticità del loro compito e la crudeltà dell'azione da essi esercitate, tranne che per il generale che, il solo seduto in sedia, è in atteggiamento severo e serio, preoccupato, forse, più della posa fotografica che del suo tremendo ruolo.


Le fotografie qui riprodotte sono un limitato esempio scelto nel materiale conosciuto e disponibile. Ai nostri occhi assuefatti a una valanga di immagini e di informazioni, esse possono apparire quasi scontate e anche poco suggestive; ma all'epoca vennero riguardate con tutt'altra emozione e il loro impatto risultò rilevante e influente con ricadute "politiche" e assunzione di significati anche imprevedibili.
Quanto veniva riferito e raccontato doveva trovare nelle immagini diffuse e pubblicate una verifica e doveva convincere il lettore con l'evidenza del mostrato, in un linguaggio che era da chiunque comprensibile in una società la cui maggioranza era ancora analfabeta, in un Paese i cui cittadini, a causa dell'isolamento storico e geografico, ignoravano luoghi e fatti delle varie e acquisite regioni. La finalità raggiunta da quelle rappresentazioni è dimostrata dall'influenza esercitata sull'immaginario collettivo che, nonostante le voci dissidenti e critiche, ha tramandato sino ai nostri tempi pregiudizi e distorsioni storiche.
Per concludere, si può citare una frase pronunciata da Bixio alla Camera dei Deputati nella seduta del 18 aprile 1863, in occasione della discussione sul bilancio del ministero di Grazia e Giustizia: "Nel Mezzogiorno tutti quelli che hanno un cappotto vogliono trucidare tutti quelli che non lo hanno".
Disse Ugo Valcarenghi nel 1910: " ... lo scopo della fotografia è di rammentare la verità in quanto questa valga la pena di essere ricordata" e, in altra occasione, affermò che "la verità fotografica reca necessariamente in se stessa un elemento prezioso, sostanziale, indiscutibile e indistruttibile, che appartiene alla scienza ed è anche la base, il principio della creazione geniale, cioè il documento".


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