Incontro-scontro con l'editoria




Gennaro Pistolese



L'editoria di un secolo, di questo secolo: con la reciproca capacità di condizionamento, non sempre però di corrispondente effettualità e di specchio reale. Essa più che riflettere i tempi li ha anticipati: ha dovuto così - non solo per sopravvivere, ma anche per il suo compito essenziale di stimolo e anticipatore - accelerare la propria corsa.
Difatti, la crescita della tecnologia, a cominciare da quella interessante le comunicazioni e la stessa stampa (questa rinnovata dalla a alla z, due lettere dell'alfabeto che si muovono con la velocità dei numeri nei bussolotti del lotto); il particolarissimo panorama del Novecento, con due guerre mondiali, con due rivoluzioni d'ottobre in Europa pur bene inferiori a quella francese, con una democrazia che ha sempre dovuto crescere, ma che lo ha fatto e lo fa fin qui anche con incertezze ed errori, con il sopravvento della globalità, che prima di riguardare il mondo si rivolge a noi stessi per l'incalzare di problemi anche nuovi, sono altrettanti fattori che hanno trovato l'editoria non in retroguardia, ma sempre innanzi nei tempi. Così per gli scrittori, ma ho l'orgoglio di dire soprattutto per i giornalisti.
Questi ultimi hanno cominciato con le arcaiche macchine da scrivere dei primi del secolo, o meglio con la penna da scrivere e da intingere nell'inchiostro, asciugandolo con una sorta di sabbia, ed hanno continuato con la famosa "Lettera 22", che forse come giornalisti decani siamo ancora in tre o quattro ad utilizzare, certamente Montanelli ed io, il primo "principe", ed io più o meno plebeo, ma certo più di lui. Personalmente, però, ho un'aggravante, e cioè quella di battere con un solo dito. Mi dicono però che il grande Pirandello scrivesse di cose più serie e tuttora memorabili di quelle mie di oltre 70 anni con un solo dito. L'ho conosciuto con la barba bianca, sorridente, naturalmente in un teatro di Roma, e qualche giornalista, tuttora pettegolo, mi ha raccontato che per scrivere aveva bisogno di avere innanzi a sé un esemplare vivente erotico, che lo ispirava con un ritmo che il battere sulla tastiera con un solo dito facilitava. La stessa cosa non è accaduta a me, perché nella mia vita di giornalista economico ho avuto a che fare con le cifre, suggestive unicamente quando sono ufficiali, ma largamente opinabili, soprattutto quando sono nazionali, e con i fatti raramente in politica hanno avuto concordi interpretazioni. Le nostre svariate decine di partiti e le intransigenti correnti createsi negli stessi ne danno conferma. Le reazioni a tutto ciò - a parte la fase della nostra dittatura tuttofare in materia di stampa e di cosiddetta cultura popolare - hanno trovato eco in una stampa e in un'editoria ancorate pur sempre a correnti di pensiero distanti o contrastanti, ma in talune fasi del secolo più essenziali e perciò meno numerose e artificiose di quelle di altre fasi, tra cui purtroppo ancora quella attuale.

Grandi giornalisti con le loro grandi testate
E veniamo ai nomi, di cui taluni da me conosciuti e frequentati, e mi limito ai grandi editori e pure a giornalisti che hanno a loro volta fondato case editrici o periodici o quotidiani.
A parte i grandissimi editori, di cui alcuni sopravvivono con lo stesso nome del fondatore, ma con una ben diversa forma societaria, devo dire che almeno la seconda metà di questo secolo non ci è stata prodiga nella stessa misura. Non sono nati fondatori di giornali come Edoardo Scarfoglio (quello che poteva scrivere su Il Mattino del matrimonio del Re Vittorio Emanuele III come di nozze con i fichi secchi), come Matilde Serao, moglie del primo e fondatrice sempre a Napoli del giornale Il Giorno, come gli Albertini con Il Corriere della Sera, come Frassati con La Stampa, come Bergamini con Il Giornale d'Italia, come Amendola con Il Mondo, come Olindo Malagodi con La Tribuna, come Corradini e Federzoni con l'Idea Nazionale. Ed ancora come l'Avanti! con tutti i nomi della storia del socialismo italiano, con Il Popolo d'Italia di Mussolini, nato perché interventista pur provenendo da un troncone socialista e con finanziamenti che sono passati gli anni ma continuano ad essere di origine incerta. Con Il Paese caro a Nitti, che un mio zio, Amedeo, rimettendoci il palazzo avito a Melfi, che anch'io ho perduto, essendovi anche nato, ripresentò allo stesso Nitti reduce nel '45 dall'esilio e che fu venduto con tante perdite a Roma al Partito comunista nella cui orbita divenne poi Paese Sera. E l'elenco di queste testate e di questi nomi potrebbe continuare a lungo con l'unica conclusione che buona parte dei nostri predecessori è stata di gran lunga migliore di coloro che ne sono stati i successori.
Qui, come editori di giornali o di grandi e meno grandi periodici, ma pure giornalisti, mi limito a ricordarne sei: Telesio Interlandi, Giorgio Berlutti, Leo Longanesi, Mario Panunzio, Renato Angiolillo ed Eugenio Scalfari.
Di questi sei personaggi, che ritengo debbano essere ricordati nel giornalismo italiano, ne ho conosciuti e frequentati unicamente quattro. Tutti di diversa colorazione politica, nati politicamente o accortisi di essere nati così in diverse epoche.
Ho detto di Telesio Interlandi: da fascista, che proveniva da un giornalismo fascista, che faceva parte di un giornale che si chiamava poco dopo il '22 L'Impero - un impero che non immaginava nessuno, ma solo taluni, come Mario Carli ed Emilio Settimelli e che il fascismo solo dieci anni dopo scelse a bandiera con il cosiddetto "posto al sole", a fondatore de Il Tevere.
Orbene, Telesio Interlandi, di cui poi Sciascia e altri hanno riconosciuto meriti e capacità anticipatrici in campo editoriale, inventò un giornale, Il Tevere, che rivoluzionò la stampa del tempo. Era composto da sei pagine. Aveva un fondo in neretto di una colonna. Allora gli articoli di fondo erano più lunghi. Si caratterizzava anche per un corsivo dal titolo "Specola". Pubblicava elzeviri di grandi scrittori del tempo, cui piaceva soprattutto di poter professare su di un giornale di battaglia le proprie idee per una cultura da far crescere o da far sorgere. C'erano i nomi dichiarati o sottintesi di Ardengo Soffici, di Ungaretti, di Cecchi, ecc. che frequentemente scrivevano sul tavolo di caffè i loro elzeviri. C'erano inoltre vari critici: per il teatro, il fuoriclasse Alberto Cecchi, per l'arte e la cultura in genere Corrado Pavolini, fratello di Alessandro dell'ultima raffica di Salò, per la musica Anton Giulio Barrili. Non pretendevano che pochi soldi. C'era pure un disegno politico nella prima pagina firmato Sem. Con taluni di questi criteri potrebbe essere ampliato naturalmente anche un giornale di oggi. Certamente lo è stato per Il Giorno di Gaetano Baldacci, di cui dirò più innanzi.
Probabilmente essendo permeato senza quasi accorgermene di questi schemi di rinnovamento li avrò tenuti presente anch'io allorché nel 1962 assunsi la direzione de Il Sole, il quotidiano economico più antico d'Europa e che a me è occorso sul finire del '65 di condurre alla fusione con 24 Ore, da me definito "battesimo" rappresentativo del nuovo giornalismo economico mondiale.
Al presidente della Confindustria di allora, Furio Cicogna, piacque questo raffronto così che nell'annunciare la nascita del nuovo giornale, Il Sole-24 Ore, fece propria questa mia frase, che secondo me costituiva l'annuncio del nuovo, ma con la riaffermazione dei valori del suo genitore. Taluni però, ancora oggi, fra i continuatori del giornale, anzi dei due giornali, non sono sensibili a tutto ciò.
V'è stato addirittura un libro dal titolo volutamente enigmatico, ma per chi lo aveva inventato o subìto, perché non c'è stato mai nulla di intrasparentemente difficile né nel conoscere le origini dei due giornali, né nel modo di essere o delle origini dei loro direttori. A non capirlo, nientemeno, erano stati un editore e forse un direttore nella stessa prefazione. Chi non aveva capito e me lo fece sapere, apprezzando quanto contestavo, fu il presidente della Confindustria del tempo, Pininfarina, il cui portavoce mi disse che al suo presidente con scarsa frequenza era capitato di aver a che fare con un giornalista scrupolosamente documentato come me. E' un riconoscimento che mi tiene compagnia. Dovrei forse vantarmi? Non ne ho bisogno. Perché credo che il giornalismo, quello mio e quello di altri, non debba essere che il frutto di un'interiore, precisa e inconfutata verità e poi espressione unicamente della stessa con aggiunte opinioni e critiche pur opportune, ma sempre distinte dai fatti. Ne ho scritto pure dopo sull'organo federale dei giornalisti, ma una premessa a scritti siffatti è il riconoscimento di essere stato sempre battagliero e anticonformista. Nella cornice ideale della mia vita ci sono e vivono in me questi due semplici aggettivi?
Ma ne Il Tevere di allora c'erano altre due persone che io ricordo.
Si aggirava nei corridoi del giornale il padre del direttore, un maestro elementare, non per rivendicare qualcosa - allora non si chiedeva nulla ai propri figli - ma solo per constatare che poteva compiacersi del figlio e stargli silenzioso vicino. Non gli ho mai parlato, ma mi lusingo di averlo conosciuto, perché lui ed io - consapevoli o no - avevamo, distanti nella militanza politica, le stesse idee. C'era pure un fratello del direttore, che era segretario di redazione. Con lui si poteva ridere e in quei tempi non era facile. Preferì ad un certo punto farsi nominare corrispondente da Bucarest della "Stefani". Forse con la scomparsa di queste due persone il giornale, allora a via della Mercede, con un amministratore forse anche proprietario dell'attigua tipografia e quindi di un altro giornale con il quale ho avuto poi a che fare, ha perduto qualcosa.
Con questo giornale mi sono fatto vivo, perché mi piaceva, sul finire del '27. Ero un cosiddetto "fagiolo" - gli alunni del secondo anno di università si chiamavano così alla Sapienza, quella vera e inconfondibile di allora - ed ero divenuto proprio a 17 anni promotore dei gruppi universitari coloniali. Per tale mia veste il direttore di una rivista che si denominava con provocatorio ma consapevolmente sterile messaggio Le vie dell'Impero, mi chiese un articolo sulle mie esperienze. Ne fui coinvolto per ulteriori mie offerte di articoli a giornali e riviste e ne profittai pure con l'invio dei miei scritti a Il Tevere. Li inviavo senza farmi conoscere di persona: ero solo un ragazzino. Chi si occupava di colonialismo allora erano invece ex generali, ex funzionari coloniali, geografi, ecc. Io dal canto mio non ero nessuno di loro. Quando dopo vari articoli pubblicati ebbi il coraggio di presentarmi al direttore, egli si limitò a dirmi che il suo giornale ambiva ad essere la vetrina dei giovani che valevano. Mi sono illuso per tutta la vita che tutto ciò fosse vero. Ma allora, sull'immediato, quello che mi trasportava sul piano della simpatia erano più che altro la sua bombetta grigia, il sapere che mandava il figlio a lezioni di cavallo, ecc.
Mussolini a chi gli domandava di quel giornale, dal quale io ero da tempo discostato per ragioni pure politiche (difesa della razza, un Tevere che per il suo filonazismo era divenuto l'oro del Reno, ecc.) rispondeva che ogni casa ordinata (tale riteneva quella della sua politica) doveva avere anche l'immondezzaio: a Mussolini questo giornale era indispensabile, soprattutto nella per lui piacevole o spiacevole politica dell'Asse.

Con la carta stampata, foglio d'ordine, veline...
Così come prima della marcia su Roma vari partiti avevano avuto i propri quotidiani: l'Avanti!, L'Unità, La Voce Repubblicana, Il Mondo, L'Idea Nazionale, ecc., il ventennio a quelli già esistenti impose direttori e corpi redazionali. Ad altri cambiò il nome come ad esempio La Gazzetta di Parma che divenne Corriere Emiliano. Altri ne creò, come Il Regime Fascista, che prima si chiamava Cremona Nuova, e poi altri in varie città, come Il Popolo Toscano a Lucca, o quotidiani cattolici o sportivi fiancheggiatori. Nella stampa economica vi era soltanto Il Sole, al quale sopravvenne senza fortuna La Finanza d'Italia, cui si affiancava sempre per questa materia un'agenzia che si denominava "Volta".
Il prodotto divenne non solo monocorde, ma pure estremamente monotono. La stessa sorte toccò alle riviste, molto numerose. Il regime aveva la sua, che era Gerarchia. Le organizzazioni sindacali i propri organi ufficiali, L'Organizzazione industriale per la Confindustria, la rivista Commercio per i commercianti, L'Agricoltura italiana per la Confagricoltura, Il Lavoro Fascista per le organizzazioni dei prestatori d'opera, con una maggiore articolazione a seguito della riorganizzazione conseguente alla Carta del Lavoro ed intervenuta operativamente nel 1934, fra l'altro con Il Lavoro Agricolo e L'Artigiano, ecc. Vi erano poi le riviste più o meno storiche che venivano aggiornate, come La Nuova Antologia, e poi Educazione Fascista, Critica Fascista, La Vita Italiana, L'Economia Italiana, L'Economia Fascista, L'Azione Coloniale, e via dicendo.
Il mio nome non è estraneo ad una fetta di questa emeroteca, introvabile oggi, perché ho pubblicato su queste testate (una delle quali ho anche fondato) articoli di carattere coloniale: una materia poco diffusa in quei tempi, che allora poteva contare sugli apporti di un'élite di ex funzionari coloniali.
Tante le figure di quei tempi che rivivono in me. Vi era Margherita Sarfatti, che dirigeva di fatto la rivista Gerarchia, di cui prima ho detto e sulla cui copertina appariva solo il nome di Mussolini, come direttore. Di lei ricordo il fascino che suscitava quando la si vedeva scrivere, e anche le prime 400 lire da me guadagnate per un articolo che nel '34 mi pubblicò sulla sua rivista. Abitava allora di fronte a Villa Torlonia e questa dislocazione era indice di un rapporto sentimentale, che poi cessò.
Ricordo Carli, padre di Guido Carli, che Mussolini, suo ex compagno socialista, occultò alla Confcommercio per la redazione della rivista, di cui ero collaboratore, ricevendone come compenso per ogni mio articolo le tanto entusiasmanti e infrequenti quattrocento lire.
Ricordo L'Economia Italiana di Luigi Lojacono, che si rese promotore quale sottosegretario, mi sembra ai Trasporti, del conferimento a me, giovane colonialista, della Commenda della Stella d'Italia. Ricordo Edmondo Rossoni, direttore de La Stirpe, che aveva come redattore capo Alfredo Signoretti e poi - allorché il suo predecessore passò da La Stampa a Stampalia, isola dell'Egeo, questa volta come confinato politico ed era stato fino a poco prima segretario del partito - direttore de La Stampa. Prima di questo direttore vi era stato l'altro, Curzio Malaparte, dalle alterne venture e avventure sentimentali e politiche. Una di queste dava fastidio al proprietario del giornale, Giovanni Agnelli. Ho incontrato due volte questo personaggio, sempre noto per il suo libro e un suo settimanale, Conquista dello Stato. Una volta, nella sala del Mappamondo, nel '31, con altri giornalisti Mussolini si compiacque di sceglierne solo uno per colloquiare passeggiando sotto braccio, ed era appunto Curzio Malaparte.
Molti anni dopo l'incontrai innanzi ad Aragno ed io ero con un altro collega. Domandammo a lui, reduce dalla Finlandia, dove era stato quale inviato di guerra, qualche impressione ed egli si limitò a dirci "mangiano cellulosa": così egli riassumeva l'eroica vicenda di quel popolo nella guerra contro l'Unione Sovietica.
Edmondo Rossoni, invece, era più perentorio, con programmi rivoluzionari incorporati nella sua persona. Lo incontrai dopo che aveva lasciato l'Organizzazione generale del lavoro ed era stato nominato ministro dell'Agricoltura. Egli mi disse o la rivoluzione si fa qui o non si farà mai. Anch'egli era dunque per la rivoluzione continua. Ma non mi sembra che l'agricoltura, anche se può rievocare la battaglia del grano e la bonifica pontina, abbia compiuto una rivoluzione. Qualcuno ironicamente vi ha collegato la guerra alle mosche, con la vittoria però di queste.
In tutta questa editoria non si può dire che vi sia stata quella derivante da un autentico e autonomo editore. Ogni testata, talvolta quelle anche di singoli partiti, hanno avuto e hanno a che fare con chiare od occulte presenze e partecipazioni finanziarie.
Ci sono stati grandi fondatori di giornali che sono stati giornalisti, ma essi si sono presentati ai lettori come animatori, che hanno fatto tutto o quasi tutto da sé. E così è cominciata la ricerca degli editori cosiddetti puri. Ho la ventura di averne conosciuti alcuni.
Nel dopoguerra, ne ho frequentati due. Il primo è Renato Angiolillo, fondatore de Il Tempo, quando questo giornale era a due facciate e quando i grandi giornali per distinguersi dal ventennio aggiungevano alla propria testata il termine Nuovo.
Angiolillo aveva tentato qualche esperienza con Repaci e con un quotidiano che si chiamava Epoca e che all'indomani della marcia su Roma ebbe come direttore Giuseppe Bottai. La cosa però per Angiolillo non andò avanti e così egli si mise alla ricerca di finanziatori. E così riuscì a raggranellare mille lire. Convocò due suoi, e poi anche miei, amici al Soda Parlor dell'albergo Majestic per invitarli a collaborare con lui. Erano Oreste Mosca, che mi ha raccontato il fatto, e Giovanni Artieri. Gli fu risposto che era meglio dividersi quei soldi, ma entrambi hanno costituito la spina dorsale del giornale, le cui fortune sono cominciate con l'acquisto in America del "Diario" di Ciano, che fu pubblicato a puntate. Si tratta di un "diario" che ha avuto un excursus da far invidia a copioni di 007 e che ha girato il mondo, in Italia prima con Il Tempo poi con Rizzoli.
Un altro giornale del postfascismo che dietro di sé ha avuto un giornalista piuttosto che un editore è Italia Sera. Ne posso parlare con conoscenza perché ne ho fatto parte, come capo della redazione economica, costituita peraltro da una sola persona. Il giornale era come tutti gli altri, di sole due facciate ed era pomeridiano, uscendo strillonato tuttavia a mezzogiorno. Il suo creatore, che è stato un innovatore della formula giornalistica dominante allora in Italia (un altro, ma molti anni dopo, è stato per me Gaetano Baldacci) è il nostro collega Luigi Rossi. Me lo aveva fatto conoscere anni prima il padre, Romualdo Rossi, vecchio sindacalista, prefascista e fascista, sempre con l'ansia di creare nuove testate. Una di queste l'offrì anche a me, ventunenne, e si chiamava Lo Stato. Rifiutai e la testata poi è stata solo un sogno, senza scadenze. Luigi Rossi passava al ministero della Cultura Popolare, inventava con l'ambasciatore Kok destinato alla direzione generale della propaganda iniziative varie, certamente non memorabili perché non ne ricordo alcuna. Nella Roma liberata dagli americani fondò un'agenzia giornalistica denominata "Orbis" e sul finire del '45 creò con l'apporto di un industriale serico L'Italia Sera, con intonazione democratica di destra pure monarchica. L'editore si chiamava Galli Pacciorini, ed era anche titolare di una banca la cui sede a Roma era in piazza Barberini. Ho sempre pensato che lui intendesse percorrere una strada non tanto diversa da quella del suo collega, anch'egli tessile, Treccani, che era arrivato all'Enciclopedia omonima, e lui invece si contentava di fare altrettanto, sia pure in tono minore.
Il giornale si distingueva con un fondo e una titolazione a richiamo. Una di queste, dovuta a me: "Gronchi nostalgico del corporativismo", e riproduceva un discorso di Gronchi che allora era solo ministro, diventato anni dopo Presidente della Repubblica. Il giornale aveva ottimi redattori parlamentari, poi passati a Il Tempo, collaboratori del livello dell'ambasciatore e professore Amedeo Giannini, e un capo cronista che era allora un celebre autore di romanzi gialli. Il giornale mi diede anche l'occasione di autoelogiarmi. Settimanalmente esso pubblicava un articolo dell'editore proprietario. Era naturalmente di carattere economico. Egli ne dava incarico al direttore. Questi lo passava a me, naturalmente in incognito. Incontrandoci un giorno per le scale, l'editore mi disse: oggi esce sul giornale un mio articolo. Mi dica quello che ne pensa. Immaginatevi quello che gli dovetti dire. Sono sicuro che i miei colleghi hanno analoghi, ma migliori precedenti da ricordare a questo riguardo.
Poi con il passare degli anni, il termine "Nuovo" è stato tolto dalle testate. I giornali sono rientrati nelle loro proprietà, quasi sempre finanziarie. Però con una sola parziale eccezione per Eugenio Scalfari con la Repubblica; per Armenise con una figura mista privata e di banchiere per Il Giornale d'Italia; per Il Globo con Giorgio Berlutti, editore che diremo puro. Altrettanto per talune riviste, come ad esempio La Rassegna Italiana, fondata dal nazionalista e filomonarchico Tommaso Sillani, promotore poi anche di un Centro per la Riconciliazione Internazionale, appoggiato dal Banco di Roma. Una vecchia rivista la sua, non estranea ai miei primi passi nel giornalismo e nota anche alla mia famiglia, perché quando il direttore mi cercava, la mia colf friulana mi diceva che ero stato cercato dal direttore della Rassegnazione Italiana. La sua non era una battuta di spirito, né una presa di posizione, ma solo l'indice di una riluttanza a correggere il proprio livello e a esorbitare da compiti non esenti da queste responsabilità. Del resto, ciò accade anche oggi, perché avendo come colf un filippino seminarista in Italia con studi in latino e in greco compiuti in Vaticano, egli mi sta facendo riflettere sulla necessità per me, allo scopo di capirci, di studiare il filippino.

La grande editoria libraria
Ed eccoci alla grande editoria, quella libraria e quella dei periodici, limitandomi tuttavia a quei personaggi che ho avuto la ventura di conoscere, di frequentare e pure con taluni di essi talvolta anche di collaborare.
Ho ricordato Giorgio Berlutti, soltanto tipografo con una tipografia dietro piazza Navona, frequentata già dal 1919 da futuristi, reduci, fascisti, ragazzi che credevano di fare politica così. Questo editore curò vari periodici: Il Tricolore per i ragazzi, e cioè un settimanale che gli era particolarmente caro e in cui a metà degli anni '20 riuscii a far inserire una mia rubrica coloniale, e poi Bibliografia fascista, un calendario fascista, una libreria del littorio. La sua decadenza cominciò allorché il segretario amministrativo del partito fascista, Giovanni Marinelli (uno dei protagonisti operante, ma silente, del delitto Matteotti), accortosi della redditività del calendario, ne fece un'edizione del partito. Marinelli fu premiato per il silenzio con la nomina a sottosegretario alle Poste, ma fu vent'anni dopo fucilato a Verona, perché al Gran Consiglio del 25 luglio aveva votato contro Mussolini, solo imitativamente rispetto a colleghi più autorevoli di lui e perché sordo.
Berlutti continuò con altre strutture, e cioè l'Unione Editoriale d'Italia, con la cui sigla pubblicò una serie di volumi dedicati alla prima guerra mondiale e un'altra alla guerra d'Africa. Ha fatto poi altre riviste prevalentemente economiche, di cui da solo o con il collega Santi Savarino, poi senatore e direttore de Il Giornale d'Italia, ho curato la fattura. A dirigere queste riviste formalmente erano gli autorevoli apportatori di pubblicità. Frequentemente autorevoli erano pure i collaboratori. Uno di essi era Mario Missiroli, antifascista permanente, ma protetto occultamente da Mussolini, che lo voleva aiutare a vivere, però senza firma. A me Missiroli proponeva gli argomenti più stravaganti e ironici: ad esempio, la disciplina della macellazione in Italia, o l'economia del lavoro invece di quella dell'oro (questo era il tema preferito da Hitler e in conseguenza pure da Mussolini). Missiroli era questo, con il suo fondo di profonda ironia, con l'aneddotica quotidiana che l'esprimeva, con l'inestinguibile livello di grande giornalista. E' forse il maggiore di un'epoca per tutti quanti l'hanno conosciuto. Ed io ho avuto la fortuna di essere uno di questi, chiamandolo a collaborare ad iniziative confindustriali da me curate.
Ritornando a Berlutti, egli acquistò anche la casa editrice Carabba, così come acquistò Il Globo, credendo di potermene offrire la direzione: io invece non accettai perché ne prevedevo la precarietà, che difatti si verificò quando il giornale fu acquistato prima, se non erro, dall'Ina e successivamente dalla Confindustria. Sul finire della sua vita Berlutti si è limitato a scrivere articoli, offrendo la sua collaborazione (che ho accolto, come ho potuto. Sono purtroppo dolorosamente sicuro di aver fatto poco per lui).
Ed ecco un altro, non grande però, editore che ho conosciuto da studente universitario. Io lo apprezzavo per la prima libreria circolante creata in Italia, a Roma, con cinque o dieci lire mensili di abbonamento per i libri preferiti da portare a casa e restituire per riceverne un altro; per la sua continua presenza dietro il bancone; per il suo sorriso. Gli altri unici ricordi si collegano ai piccoli libri, di una grandezza di poco superiore ad un taccuino, che arrivavano pure alla periferia del Paese. Ne ricordo alcuni che mio padre e con lui un suo amico professore e avvocato leggevano a Melfi. Numerose sono le sue collezioni, tra cui quelle dei classici del ridere. Era nato a Modena nel 1878 e aveva creato anche una rivista, L'Italia che scrive, che ha proseguito pure dopo la sua morte, se non sbaglio a cura dell'editore Signorelli. Dicono le enciclopedie che nel 1939 egli cercò la morte, precipitandosi a capofitto dalla Ghirlandina in eroico segno di ribellione alle leggi razziali fasciste.
Un altro grande personaggio, prima di passare ai grandi editori, voglio qui ricordare. E' il perugino Giuseppe Prezzolini, che fondò e diresse nel 1903 Il Leonardo e nel 1908 La Voce. E' stato tra i primi ad emigrare dopo l'avvento del fascismo, recandosi negli Stati Uniti, dove ebbe anche responsabilità d'insegnamento. Attraversò varie esperienze culturali, dal bergonismo al pragmatismo, al crocianesimo. Ha lasciato vari libri, tutti da maestro di vita oltre che di cultura: La vita di Niccolò Machiavelli, L'America in pantofole, L'Italiano inutile, Diario (1900-1941). Non l'ho conosciuto personalmente. Ma so che da ultranovantenne aveva bisogno della pensione giornalistica del nostro Istituto di previdenza. Oreste Mosca, che era mio amico, mi mostrò un paio di cartoline - allora le cartoline postali, pure per cose importanti, facevano premio sulle lettere - con le quali Prezzolini lo sollecitava per questa sua pratica. E poi l'ho visto varie volte a Lugano, sulla via Nassa, preceduto dai decisi colpi sul terreno del suo bastone, che quasi solennemente lo annunciava. E naturalmente mi piaceva anche perché sempre affiancato da una vecchia signora.
E si tratta di poco meno di una ventina di anni fa, perché lui è morto nel 1982, da centenario, essendo nato nel 1882. Il suo immenso archivio e la sua eccezionale emeroteca sono stati lasciati in eredità al Comune di Lugano, perché lui amava la scrupolosa cura dell'ordine e della precisione degli svizzeri, di un Paese che un mio amico mi diceva si sveglia a prima mattina per spolverare i frontali dei propri palazzi. Un paradosso che si affianca ai tanti altri che hanno caratterizzato la Svizzera, che pure ha un Cantone italiano.
Dovrei ora ricordare Giovanni De Agostini, geografo, editore, fondatore dell'Istituto Geografico De Agostini nel 1921, ma portato da lui innanzi in parte negli anni '30, e divenuto poi lontano da lui, che già aveva avviato altre iniziative. L'ho conosciuto in questa fase, solo qualche anno prima della sua morte, avvenuta nel 1941. Era divenuto un signore un po' deluso, ma sempre intento a inventare e fare qualcosa. Ora l'Istituto De Agostini e De Agostini sono diventati quello che sono. Sempre con quel nome.
L'editoria ieri e oggi si è caratterizzata con grandi nomi, di cui però posso ricordare solo quelli che hanno avuto a che fare con la mia vita. Li limito perciò ad Arnoldo Mondadori, a Gianni Mazzocchi, a Garzanti, a Valentino Bompiani, a Leo Longanesi, quest'ultimo da me non conosciuto, ma di cui conosco autorevoli impressioni suscitate e forse in parte inedite.
Ho conosciuto Arnoldo Mondadori sul finire degli anni Trenta, quando nelle sue visite romane non trascurava la Confindustria in piazza Venezia e pure il molto minore, ma a questa aderente, Artigianato. Così è venuto frequentemente anche da me. Per la sua estrema vivacità mentale, per l'acutezza dei suoi occhi, per la padronanza che esercitava sulla sua sempre pronta creatività, non mi fu difficile intuire l'elevatezza di un protagonista. Protagonista dell'editoria, che amai presto definire anche commesso viaggiatore di se stesso.
In una prima occasione mi parlò del suo Il Tempo, che si accingeva a pubblicare un'edizione bilingue. E con me coinvolse anche un suo rappresentante, che si chiamava commendatore Nardi, un ex autorevole di qualche carriera. Successivamente venne a parlarmi - a me che ero stato anni indietro anche giornalista coloniale - della sua intenzione di divenire editore di una rivista ufficiale del ministero dell'Africa italiana. Ne aveva pronto anche il titolo, ne divenne editore con funzioni anche molto ampie, tali da consentirgli di indicare molti nomi di collaboratori e di affidare a me la titolarità di una rubrica.
Lui parlava soprattutto di queste cose, ma anche di altre, che aveva rilevate o gli erano capitate. Una di queste si riferiva alle vicissitudini passate con la pubblicazione del volume Colloqui con Mussolini di Emilio Ludwig. Un libro che, pubblicato, fu repentinamente ritirato perché a Mussolini era stato fatto notare che alcune cose non dovevano essere dette, e poi ripubblicato. Il libro doveva rientrare fra le celebrazioni del decennale fascista, ma è apparso, scomparso e riapparso sulla scena come un qualsiasi attore. D'altra parte è proprio nella vocazione della politica, dittatoriale o democratica non importa da questo aspetto, avere questa sorte. Mondadori me ne parlò solo come di un incidente. Ne ha scritto ampiamente dopo, nella collana dei suoi Ricordi nell'edizione integrale al 130 migliaio nel dicembre 1965. La cronistoria - così egli la chiama - si conclude con questa frase: "(Milano 1950). Che il libro possa servire come documento ai posteri, quando si accingeranno a scrivere, sine ira et studio, la storia del ventennio fascista". E questo è certamente un pensiero che non riguarda un libro, ma quella che deve essere, e non lo è, la storia. Una storia che non sempre detta sentenze giuste e che spesso evita certi pur doverosi interrogativi.
Mondadori invece aveva la sua certezza, perché la faceva discendere direttamente dal suo senso di giustizia in quanto lui intimamente giusto. A Mondadori piaceva raccontare che avendo recato a Mussolini a Villa Torlonia un assegno di diritti d'autore per opere da lui pubblicate e sapendo che l'avrebbe destinato all'Opera degli orfani degli aviatori (il figlio di Mussolini era morto da aviatore), vide lo stesso Mussolini, all'arrivo imprevisto della moglie Rachele, notoriamente parsimoniosa, nascondere l'assegno sotto una cartella. L'operazione orfani di guerra era rinviata per forza maggiore.
Ed eccomi a Gianni Mazzocchi. Con lui ho realizzato la rivista artigiana Artifex, e poi negli anni '60 L'Italia economica in cifre per la rivista Quattro soldi. Questa era una mia vecchia idea, e Mattioli, il grande e insuperato direttore generale della Commerciale, ad una mia richiesta di un articolo per la celebrazione del centenario de Il Sole che allora dirigevo, mi disse che non servivano articoli, ma un quadernetto di cifre di sedici pagine da mettere in tasca, e perciò alla mia idea ovviamente si associò, promettendomi di aiutarmi. Non mi aiutò invece, ma a comprendere la cosa fu Mazzocchi. Con il quale andammo avanti fino alla conclusione della vita del settimanale Quattro Soldi, vittima di un sondaggio affidato ad un noto giornalista che si impressionava di certe percentuali di lettori per singole pagine che non avevano il reale significato negativo che ultimativamente lui ad esse attribuiva. Era destinatario del dono natalizio - e lui lo ha ricordato in qualche articolo e poi forse nel libro - di un grandissimo panettone, facendo così questa inconsueta esperienza dieci anni dopo la mia, che sbalordì la mia famiglia.
Mazzocchi si compiaceva di avere l'abitudine, che non solo ricordo ma comprendo, di avere sotto mano sul proprio comodino da notte un libretto sul quale annotava le idee che gli venivano in mente e da cominciare a realizzare l'indomani. Perciò le sue pubblicazioni sono tutte (da Domus a Quattro Ruote, ai calendari, alle agende, ai formati stessi delle pubblicazioni) in anticipo sui tempi, pure di cinquant'anni. Il grande editore si fa anche così.
E poi c'è Garzanti, della cui Illustrazione Italiana sono stato lettore da adolescente al circolo sociale di Melfi, collaboratore molti anni dopo, perché con Garzanti avevamo tentato altre iniziative.
Ed ancora Valentino Bompiani, che veniva a trovarmi per rinvenire e praticare sbocchi in un artigianato che per lui era più maturo di quanto realmente non fosse. Egli era stato un vero signore dell'editoria, perché sapeva essere signore anche nella vita. Era divenuto editore di Zavattini perché aveva intravisto tra gli scritti la frase "E' vietato pensare alla morte durante le ore d'ufficio". Era un nuovo Statuto dei lavoratori che veniva ironicamente immaginato...
E alla fine non si può non ricordare il grande Leo Longanesi, che non ho conosciuto personalmente, ma ho conosciuto nei suoi continuatori: quelli del Borghese. Longanesi non solo ha interpretato paradossalmente i tempi, ma li ha anticipati nel serio e nell'ironico. Ha avuto sempre qualche cosa in anticipo sugli altri, addirittura sulla stessa società. Sapeva anche andare in vacanza con se stesso, perché non si è mai sentito in servizio permanente. Qualche austero, ma autorevole personaggio, vedendolo così ne è rimasto profondamente deluso, e me ne ha parlato, per il dispregio del formale che a suo modo di vedere aveva riscontrato.
Da quanto fin qui ho cercato di dire si possono forse trarre tante facce della nostra editoria. Quella attuale è per forza di cose diversa da quella fin qui richiamata. E fra l'altro rievocata, traendola dai ricordi, e non già dai diari. Non ho mai dato importanza a questi ultimi, perché penso che i primi siano più validi e veri, in quanto per essi la fantasia non c'entra. Sarebbe d'altra parte più faticosa delle vere rievocazioni. Una rievocazione - e concludo - che non ritengo possa anch'essa essere mai maestra di vita, pur tenendo conto, anzi dovendo tener conto del fatto che l'uomo, abbia vissuto molto o poco, è solo un'ape, che coglie a modo suo, anche per le sue valutazioni conclusive, fior da fiore.


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