Aveva imposto
un anticipo di dieci minuti al grande orologio
della tipografia
a garanzia della puntuale chiusura delle pagine.
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Fui chiamato al Corriere della Sera nel 1958 da Mario Missiroli,
che ne fu direttore dal 1952 al 1961. Miei “sponsor” furono
Raffaele Mauri e Michele Mottola, il primo capo della redazione
romana, l’altro redattore capo a Milano e poi vice direttore.
Avevo appena superato i trent’anni, ma avevo un curriculum
professionale che mi raccomandava, come si dice oggi, per la “line”
del Corriere: ero stato redattore capo del Tempo a poco più
di venticinque anni e più tardi del Giornale d’Italia,
due quotidiani romani importanti.
Certo mi inorgoglì la chiamata al Corriere, che ogni giornalista
ha sempre considerato il massimo delle proprie aspirazioni. Era,
almeno negli anni Cinquanta-Sessanta, come salire sulla tolda di
una nave ammiraglia. Mi pesò, questo sì, il distacco
da Roma, la mia città, dove avevo studiato, m’ero fatto
professionalmente le ossa, avevo i miei amici più cari.
Al primo impatto Milano mi apparve ostica, fredda. Scesi in un vecchio
e comodo albergo in centro, a due passi dalla Galleria, dal Duomo
e dalla Scala, proprio nel cuore della città. Mi spostai
poi in una pensione e quindi in un “residence”.
Dovevano passare due anni prima che mi decidessi a farmi raggiungere
dalla famiglia: i miei due bambini frequentavano le scuole nel bel
quartiere dell’EUR, solare città-giardino, e sia io
che mia moglie fummo restii fino all’ultimo a trasferirli nelle
nebbie padane. Mi ci volle del resto qualche anno per prendere confidenza
con la Milano del freddo e dello smog. Le nebbie allora erano frequenti
e spesse fino al punto di renderti difficile il ritorno a casa di
notte: mi capitò più di una volta di sbagliare strada.
Poi la città mi divenne cara, la sua civiltà mi entrò
nei sentimenti. Oggi, dopo tanti anni di vita milanese, Milano è
la “mia” città a tutti gli effetti, per scelta
e passione. A Roma torno sempre con piacere ma con l’animo
del pendolare. Come dice Zavattini in una sua poesia, anche per
me «Milano è quando monto in treno a Termini e pregusto
il gesto che farò nell’avvolgermi intorno al collo la
sciarpa di cachemire sul piazzale dei tram» (che oggi però
non ci sono più in piazza Duca d’Aosta).
Mi recai in via Solferino nel tardo pomeriggio di una giornata dell’ottobre
1958. Percorrendo a piedi via Verdi, costeggiando il lato longitudinale
della Scala, passando di fronte alla “Cà de sass”,
cioè la sede della Cariplo, proseguendo per via Brera fino
allo slargo dove sorge l’Accademia di Brera, rasentando il
famoso bar-caffè bohémien “Giamaica”, imboccai
finalmente via Solferino, interrotta a metà dal largo Treves,
dove tuttora c’è il “Rigolo”, ristorante toscano
frequentato dai corrieristi, dove per anni ho consumato i pasti
insieme con colleghi come Max David, Ferruccio Lanfranchi, Alberico
Sala, Enrico Caprile, Gian Galeazzo Biazzi Vergani, Arturo Lanocita,
Luigi Manzini e tanti altri, e dove cenava quasi regolarmente Salvatore
Quasimodo.
Al civico 28 di via Solferino salii le scale che portano al primo
piano, dove allora c’erano direzione, redazione, persino la
tipografia e l’amministrazione del Corriere. Avevo in tasca
la lettera d’assunzione e dovevo recarmi a salutare il direttore
Mario Missiroli e il redattore capo Michele Mottola.
Mi annunciò il cortesissimo commesso Borgato, un’istituzione
nel Corriere di allora. Più tardi incontrai il segretario
di redazione Carlo Borelli, il direttore generale Giuseppe Colli
e il direttore amministrativo Mario Mapelli, ambedue famosi per
la loro rigorosa parsimonia, alias sana tirchieria. Di Mapelli i
vecchi corrieristi ricordano che aveva imposto un anticipo di dieci
minuti al grande orologio della tipografia a garanzia della puntuale
chiusura delle pagine sicché la stampa avvenisse per tempo
in modo da non perdere né un treno né un’auto
per la spedizione.
Come ama dire Gaetano Afeltra, vero sacerdote del mito del Corriere,
allora in via Solferino spirava aria di Times. C’erano ancora
i saloni arredati da Luigi Albertini con tavoloni come quelli che
egli aveva visto nella sede del giornale inglese a Londra: paralumi
verdi scorrevoli, piano inclinato che consentiva una comoda posizione
di scrittura, sedie con braccioli girevoli. I redattori sedevano
uno accanto all’altro intorno al lungo tavolone.
Il mio posto fu nel salone degli Interni ed Esteri, dove divisi
il lavoro con anziani colleghi – io, trentenne, per loro ero
un “poulain” – che si chiamavano Carlo Rivolta, Enrico
Massa, Giovanni Cen-torbi, Mario Monticelli, Taulero Zulberti, Enrico
Caprile, Gaspare Gresti, Aldo Luzzati, Luigi Manzini, e alcuni della
mia generazione, come Gian Galeazzo Biazzi Vergani, Eugenio Melani,
Pier Augusto Macchi.
Ci si incontrava e qualche volta si lavorava anche insieme con colleghi
del Corriere d’Informazione, il giornale della sera dominio
assoluto di Gaetano Afeltra: Ferdinando Chiarelli, Guglielmo Zucconi,
Marco Mascardi, Gino Fantin, Alberico Sala, Giulio Nascimbeni, Alberto
Macchiavello, Chicco e Giuliano Gramigna, Massimo Riva, Enzo Passanisi,
Vittorio Notarnicola, Mario Robertazzi; o della Cronaca, diretta
da Ferruccio Lanfranchi, come Franco Di Bella, Arnaldo Giuliani,
Elivio Vischi, Raffaello Romano, Vincenzo Buonassisi, Mario Righetti,
Mario Miniaci, Mino Durand. Famigliarizzai con il bravissimo disegnatore
Achille Patitucci e redattori sportivi come il vecchio Ciro Verratti
(il fratello Silvio fu mio maestro di scherma), olimpionico famoso
e interprete di film di cappa e spada, e il giovanissimo e promettente
Lorenzo Pilogallo.
Dopo un po’ di rodaggio, Mottola mi volle accanto a sé.
Partecipavo alla ideazione del giornale, mi permettevo qualche audace
proposta di innovazione che faceva sobbalzare i corrieristi conservatori.
Mi battei perché il grigio del giornale fosse spezzato almeno
da una foto o due per pagina, che allora sembrò quasi una
rivoluzione. Quando ci furono le Olimpiadi di Roma, nel 1960 (tredici
medaglie d’oro all’Italia), mi colpì molto un brillantissimo
“pezzo” di Alberto Cavallari, che descriveva i duecento
metri di corsa di Livio Berruti. Era come seguire al rallentatore
la corsa dell’atleta. Proposi di metterlo in prima pagina.
Mottola mi guardò perplesso: lo sport nella prima del Corriere?
Gli spiegai ch’era qualcosa di più di un articolo sportivo.
In verità, mi aspettavo un rifiuto. Invece mi disse: «Vai
a proporlo al direttore». Missiroli mi sorprese ancora di
più: «Se Mottola e tu pensate che sia giusto, fatelo».
Il giorno dopo aggiunse, come continuando il discorso: «Ma
sì, ne valeva la pena». Incontrai Buzzati nel corridoio,
come ogni giorno quando egli portava a Mottola i titoli di articoli
che gli erano stati affidati per una lettura e un giudizio: «Forse
non te ne rendi conto – mi disse – ma hai sfondato un
muro».
Frequentavo la stanza di Mottola per molte ore ogni giorno. Ebbi
modo di conoscere qui i più bei nomi del giornalismo e anche
della letteratura. Venivano a salutare, a concordare collaborazioni,
a consegnare i loro scritti. Ne cito, a memoria, alcuni: Massimo
Caputo, il padre di Livio, Paolo Monelli, Ennio Flaiano, Mario Soldati,
Indro Montanelli, Giovanni Mosca, Luigi Barzini jr., Cesco Tomaselli,
Eugenio Montale, Carlo Bo, Vittorio Boenio Brocchieri, Maner Lualdi,
Silvio Negro, Eligio Possenti, che era succeduto come critico drammatico
al grande Renato Simoni, Giovannino Russo, Domenico Bartoli, Raul
Radice, Egisto Corradi, Arrigo Levi, Giorgio Sansa, Enrico Altavilla,
Emilio Cecchi, Leonardo Borgese, Libero Lenti, Panfilo Gentile,
Manlio Lupinacci, Carlo Laurenzi, Bonaventura Tecchi, Orio Vergani,
Augusto Guerriero, Giuseppe Marotta, Enrico Emanuelli, Alfredo Pieroni.
Vale a dire il “gotha” del giornalismo scritto di quegli
anni.
Ricordo che Missiroli, uomo di non facili entusiasmi e anche un
po’ cinico (diceva, per esempio, e a me l’ha detto più
volte: «Ah, se avessi un giornale tutto mio; mi basterebbero
venti-trentamila copie». E dirigeva il Corriere!), una sera
che andai a mostrargli il bozzone della terza pagina, si lasciò
andare a questo giudizio: «In questa pagina passa ancora la
migliore cultura italiana. Il Corriere è davvero un patrimonio
nazionale». In effetti, tutta la migliore intelligenza letteraria
italiana è passata per la terza pagina del Corriere: D’Annunzio,
Pirandello, Einaudi, Ojetti, Verga, Capuana, De Roberto, per citarne
solo alcuni della fine Ottocento e inizio Novecento.
Il punto debole del Corriere, semmai, era che non scopriva e lanciava
nuove firme ma le acquisiva dopo che altri le avevano scoperte.
Buzzati fece anni e anni inchiodato al tavolone della cronaca, dove
partorì il suo capolavoro, Il deserto dei Tartari, e solo
dopo salì agli onori della terza pagina. E’ comunque
tutt’altro che esagerato dire che la storia del giornale di
via Solferino s’è intrecciata con la storia d’Italia.
Nessun altro giornale ha inciso tanto sulla società italiana,
influenzandone la cultura e la politica.
Luigi Albertini, che ne divenne direttore il 13 luglio del 1900,
ventiquattro anni dopo la fondazione (5 marzo 1876), fu il vero
artefice della grandezza del Corriere. Era stato assunto nel 1896
da Eugenio Torelli Viollier, divenendone presto l’alter ego.
In quegli anni Torelli assunse un altro giornalista, Alberto Bergamini,
che poi fondò a Roma il Giornale d’Italia (1901) e ideò
la “terza pagina”, istituzione tutta italiana che non
ha mai avuto un equivalente nei giornali di tutto il mondo.
Com’è noto, Albertini aveva fatto il suo apprendistato
al Times di Londra. Fu lui a dare al Corriere l’assetto di
giornale moderno. Prima d’essere direttore, nel 1898-99, inventò
il settimanale La Domenica del Corriere, vera grande novità
nell’editoria italiana. Più tardi vi affiancò
la Lettura, mensile che divenne il “livre de chevet” della
borghesia italiana, dove furono pubblicati scritti di De Amicis,
Ada Negri, De Roberto, Ojetti, Barzini, Pastonchi, D’Annunzio,
Gioacchino Volpe e altri ancora; e il Corriere dei Piccoli (1908),
che pubblicò “strisce” acquistate in America e
lanciò narratori e disegnatori italiani, creando personaggi
che hanno accompagnato l’infanzia di molte generazioni.
Albertini prese il Corriere a poco meno di centomila copie (la prima
tiratura nel 1876 fu di tremila copie) e lo portò a cinquecentomila.
Nel 1912 era il maggior quotidiano d’Italia a diffusione nazionale.
Albertini gli diede una linea politica liberale. Era un garantista,
credeva nello Stato di diritto ma voleva istituzioni forti. Era
certamente un conservatore. Non gli piacque Giolitti, che accusava
di aver indebolito lo Stato e di compiacere la sinistra. Critiche
simili rivolse a Vittorio Emanuele Orlando e a Nitti. Fu severo
col fascismo, tanto che nel 1925 fu costretto a lasciare la direzione.
Nella storia del giornalismo italiano egli è la figura più
forte.
Due parole vanno dette sul fondatore, il napoletano Eugenio Torelli
Viollier, che fu garibaldino ed esordì in giornalismo all’Indipendente,
il giornale che Alessandro Dumas fondò a Napoli dopo aver
seguito l’avventura risorgimentale di Garibaldi. Torelli fu
corrispondente dell’Illustrazione universale di Sonzogno da
Parigi, poi approdò a Milano al Secolo, sempre di Sonzogno.
Milano contava allora trecentomila abitanti, eppure tra quotidiani
e periodici vi si stampavano 137 testate. C’erano ben otto
quotidiani (i più noti e più diffusi erano La Perseveranza
e Il Secolo) che totalizzavano poco meno di un terzo della tiratura
– appena mezzo milione di copie – di tutti i quotidiani
nazionali. Era già la città italiana all’avanguardia
nel progresso scientifico e umanistico, capitale della musica con
la Scala e la Casa Ricordi, dimora di una scapigliatura che partoriva
idee, arte e modernità, con una presenza di uomini illustri
in ogni campo. Tre anni prima dell’uscita del Corriere era
morto Alessandro Manzoni, nel 1873.
Fu in una Milano siffatta che Torelli, affittate due stanze in Galleria,
con ingresso in via Foscolo, varò il Corriere, azionisti
l’avvocato Riccardo Pavesi di Lodi, Pio Morbio, di antica famiglia
novarese, Riccardo Bonetti e naturalmente lo stesso Torelli, con
un capitale di partenza di centomila lire. Un particolare curioso:
Torelli fu molto attaccato, soprattutto da Felice Cavallotti, che
gli rimproverava d’essere stato impiegato dal governo borbonico
a Napoli.
Dopo Albertini, il direttore di maggior prestigio in via Solferino
fu Aldo Borelli (dal 1929 al 1943): arricchì il giornale
di firme, allevò grandi inviati (Montanelli, Piovene, Buzzati,
per esempio). I suoi “poulain” superstiti lo hanno sempre
ricordato con affetto e difeso (egli fu fascista naturalmente).
E’ storia accertata che Borelli protesse più di un redattore
antifascista: uno per tutti va ricordato Giuseppe Antonio Borgese,
che nel 1931 si recò negli Stati Uniti per incarico del giornale
e lì rimase fino alla caduta del fascismo.
Questi brevi cenni di storia del più grande giornale italiano
li ho vissuti, si può dire, attraverso il racconto di vecchi
colleghi che ne furono in qualche modo protagonisti o testimoni.
Ho ritrovato qualche appunto preso allora a futura memoria. Racconti
che accompagnavano le notturne passeggiate nel lungo corridoio del
primo piano di via Solferino, le cene al “Rigolo”, le
attese tra un’edizione e l’altra nello stanzone della
redazione oppure nelle stanze di Mottola e Afeltra, magari in occasione
di visite di colleghi e amici. La storia del Corriere in queste
occasioni diveniva per noi più giovani un vero mito.
In una di queste veglie Mottola mi raccontò come, alla fine
della guerra nel ‘45, egli fu convinto da Aldo Palazzi, amministratore
del Corriere, a tornare a Milano da Roma, dove era redattore capo
del Risorgimento liberale. Palazzi era andato appositamente a Roma
per riportarlo “a casa”, lui corrierista collaudato.
Gli anni più grigi del Corriere furono quelli del dopoguerra,
dal 1945 al 1961. In quegli anni il giornale era indubbiamente intriso
di cautele, compromessi, compiacenze.
Evidentemente si trattava anche di far dimenticare il passato più
recente. Dal 1943 al 1945 era stato direttore Ermanno Amicucci,
fascista ovviamente. Tempi bui e pericolosi, manco a dirlo, che
però stimolavano alla lettura: il Corriere, in quegli anni
terribili, arrivò a tirare novecentomila copie, mai più
raggiunte.
Nel 1945, alla fine della guerra, furono direttori Mario Borsa,
Guglielmo Emanuel e poi, nel 1952, Mario Missiroli. Non furono anni
editorialmente brillanti. C’è chi ha scritto, Giuseppe
Are, che fino al 1961, quando arrivò come direttore Alfio
Russo, furono anni di “letargo”. Are annota che quel quindicennio
fu una grande occasione mancata perché il Corriere si piegò
alla politica del momento venendo meno al suo ruolo storico e culturale
che avrebbe potuto preparare il terreno ad un’alternativa politica
veramente liberale e laica.
Furono quelli gli anni in cui a Milano si creò lo spazio
per un altro giornale, Il Giorno di Gaetano Baldacci (primo numero,
il 21 aprile 1956), voluto da Enrico Mattei, grande capataz dell’ENI,
che diceva di usare i partiti come taxi. E’ doveroso per me
ricordare il grande e decisivo ruolo tecnico che ebbe in questa
iniziativa il carissimo amico Angelo Rozzoni. Quando ero redattore
capo al Tempo di Roma, egli lo era al Tempo di Milano, lui già
quarantenne, io poco più che ventenne. Ci sentivamo spesso
al telefono. Nel 1959, io da poco a Milano al Corriere, mi offrì
di andare al Giorno: avrebbe voluto affidarmi le pagine in rotocalco.
Fu la linea politica del giornale a non convincermi, ma a Rozzoni
fui grato per l’offerta. Conservammo sempre uno splendido rapporto
di amicizia e stima.
Alfio Russo, indubbiamente, dopo tanti anni di sclerosi svolse il
ruolo dell’innovatore. Andò giù con decisione,
com’era nel suo carattere. Aveva grande piglio direzionale,
già dimostrato del resto: aveva fondato a Catania il quotidiano
La Sicilia, giornale liberale, era stato redattore capo del Risorgimento
liberale, corrispondente a Parigi, inviato, direttore della Nazione
di Firenze. Subito svegliò il vecchio giornale: valorizzò
molti giovani, lanciò grandi iniziative. Si capì immediatamente
che il Corriere sarebbe uscito dal letargo.
All’arrivo di Russo in via Solferino (15 ottobre 1961) io non
c’ero. Solo poche settimane prima del suo arrivo avevo accettato
la direzione del Corriere Lombardo, che m’era stata offerta,
senza neppure che io ci avessi mai pensato, con una telefonata che
mi fece il dott. Santo Aimetti anche a nome dell’editore Piero
Pesenti. Non conoscevo né l’uno né l’altro
e la cosa mi stupì. Aimetti poi mi disse che erano arrivati
a me per le mie esperienze giudicate positive sia a Roma che a Milano.
Il Lombardo era un giornale della sera, con titoli molto gridati,
che a me, a dire il vero, non piacevano. Lo dirigeva un vecchio
giornalista liberale che personalmente stimavo ma che non avevo
mai incontrato. Fui molto in dubbio prima di accettare e mi convinse
solo l’idea di tentare di “costruire” un giornale
secondo le mie convinzioni, insomma di avere un mio piccolo veliero.
Inoltre, nonostante le argomentazioni adottate dall’amministratore
del Corriere Colli e dall’amico Mottola (Missiroli non fece
una piega), non vidi possibilità di sviluppo per la mia posizione
nel giornale di via Solferino. Era, come ho detto, un giornale piuttosto
imbalsamato, restio alle innovazioni. Feci così il salto
un po’ avventuroso al Lombardo. D’altra parte, mi sono
sempre detto: che razza di mestiere è il giornalismo senza
un po’ d’avventura e di anticonformismo? Furono considerazioni
simili che mi indussero nel ‘58 a lasciare Il Tempo di Roma
per andare al Giornale d’Italia come redattore capo con speciali
poteri, invitato da Giovanni Balella, allora amministratore del
quotidiano di Palazzo Sciarra, un’esperienza durata però
poco perché i “poteri” promessi non mi furono mai
concessi.
I cinque anni al Lombardo furono comunque felici. Ebbi modo di mettere
insieme una piccola squadra di colleghi con i quali fui in perfetta
sintonia. Alcuni li trovai nel vecchio staff del giornale: Oreste
Gregorio, Carlo Terron, Paolo Cattaneo, Bruno Castellino, Alberto
Tagliati, Carlo Maria Pensa, Cesare Facetti. Sul mio “veliero”
feci salire Marco Mascardi, che lasciò il Corriere d’Informazione,
Fernando Mezzetti, Claudio Ragaini, Franco Silvotti, Giacinto Spadetta,
e tre giovani provenienti dalla Gazzetta di Parma, Antonio Baroni,
Bruno Rossi e Maurizio Chierici, tutti vogliosi di misurarsi e quasi
tutti affermatisi come giornalisti di vaglia.
Quei cinque anni in piazza Cavour, la sede del Lombardo, furono
per me come una crociera in mari avventurosi: mi divertii molto,
feci delle esperienze, mi allenai alla polemica. Conobbi allora
Giovanni Malagodi, che un giorno – alla vigilia delle elezioni
politiche del 1963, che videro il PLI raggiungere il sette per cento
portando in Parlamento 39 deputati e 19 senatori, sicché
il Partito Liberale divenne la quarta forza politica italiana dopo
DC, PCI e PSI – venne a trovarmi al Palazzo dei Giornali, in
piazza Cavour, e mi offrì la candidatura per la Camera. Scoppiai
a ridere: a tutto pensavo meno che di tuffarmi nella politica attiva
allora. «Il mio mestiere – gli dissi – è
questo che faccio e lo amo troppo per annullarmi nella politica».
Nacque così un’amicizia.
Alfio Russo, appena sbarcato al Corriere, mi telefonò e mi
invitò a colazione. Andammo al “Savini” e lì
cercò di riportarmi al Corriere offrendomi la direzione della
cronaca di Milano: «E’ molto più importante che
dirigere un giornale della sera», mi disse. Secondo il comune
giudizio aveva certamente ragione. Dal tono e dalle cose che mi
disse, capii che al Corriere cominciava un’epoca nuova. Ma,
argomentai a mia volta con Alfio, «come faccio dopo solo alcune
settimane ad abbandonare il Lombardo? Non sarebbe decoroso».
Così rimasi dov’ero. In quei giorni mi capitò
di incontrare sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele il dott.
Colli, l’amministratore del Corriere, il quale così
mi si rivolse: «Eh, se lei fosse rimasto in via Solferino».
Era un uomo cortese, ma gli risposi: «Però segnali
concreti di interesse per la mia persona non ne sono venuti molti
dalla sua amministrazione». Ci salutammo cordialmente. In
quell’incontro al “Savini” Russo mi confidò:
«Due giornalisti mi stanno a cuore: Ronchey, che considero
un ottimo inviato (infatti lo spedì poi a Mosca) e te, che
hai le qualità per darmi una robusta mano a rimuovere dalle
secche una grande nave incagliata come il Corriere». Non mi
dimenticò, e infatti quasi cinque anni dopo, alla notizia
che Pesenti intendeva fondere il Lombardo con la Notte, giornale
che l’editore prediligeva perché aveva una tiratura
superiore a quella del Lombardo (che stampava 80 mila copie), mi
telefonò e mi offrì ospitalità al Corriere
come inviato.
A comunicarmi poi che i Crespi, proprietari del giornale di via
Solferino, avevano approvato la decisione di Alfio di assumermi
fu l’amico avvocato Giovanni Bovio, che venne appositamente
a trovarmi al Palazzo dei Giornali. Del resto, ancora prima della
telefonata di Russo, avevo rifiutato di passare alla Notte quale
vice di Nino Nutrizio, come propostomi da Pesenti. Durante alcune
riunioni negli uffici di Pesenti in via Borgonuovo mi battei in
difesa del posto di lavoro dei miei redattori, verso i quali in
verità l’editore non prestò molta attenzione.
Uscii da quella prova con onore e soddisfazione: assicurai, anche
rifiutando fermamente l’offerta di Pesenti, a molti colleghi
il passaggio alla Notte. Nutrizio, quando incontrò i redattori
provenienti dal Lombardo, disse loro cavallerescamente: «Ringraziate
il vostro direttore: vi ha difesi con tenacia». Per alcuni
mi adoperai per l’assunzione presso Mondadori o al Corriere.
Tornato al Corriere, Alfio mi chiese di scrivere piccoli editoriali
di prima pagina per il Corriere d’Informazione. Lo scopo era
evidentemente di attirare lettori dello scomparso Lombardo. Poi
presi a viaggiare come inviato del Corriere e cominciò per
me una stagione interessante: girai l’Italia e il mondo.
La direzione di Russo finì nel febbraio del 1968. Il fiero
siciliano aveva urtato molte suscettibilità: Afeltra, che
uscì dal Corriere nel 1962 per contrasti con Alfio, vecchi
e solidi corrieristi come Mottola, Montanelli, Guerriero. Aveva
puntato molto su inviati come Alberto Cavallari, Piero Ottone, Enzo
Bettiza, Paolo Bugialli, Gianfranco Piazzesi, Giovanni Grazzini,
questi ultimi tre importati dalla Nazione. Tutti giornalisti bravi,
alcuni bravissimi, come Enzo Bettiza, che si rivelerà poi
davvero un grosso scrittore, col quale strinsi più tardi
un rapporto di affettuosa amicizia. Sorsero fatalmente gelosie fra
i redattori.
Russo creò una sorta di allevamento di giovani che più
tardi dovevano rivelarsi giornalisti di prim’ordine. Ne cito
alcuni: Giuliano Zincone, Leonardo Vergani, scomparso poi prematuramente,
Gaspare Barbiellini Amidei, Giulia Borgese, la prima donna assunta
al Corriere. A dirigere lo sport chiamò Gino Palumbo, importandolo
da Napoli; alla cronaca di Milano installò Franco Di Bella.
Aprì la terza pagina a nuove firme, tra cui Alberto Arbasino,
“enfant terrible” della letteratura italiana, assunto
come inviato per il costume.
Ma Alfio commise un errore: non perse tempo – era troppo orgoglioso
– a corteggiare, si fa per dire, la “zarina”, Giulia
Maria Crespi, che si comportava come se fosse padrona assoluta del
Corriere, anche se ne deteneva solo il 34 per cento delle azioni.
Le restanti azioni erano divise, il 33 per cento ciascuno, tra Mariolino
Crespi e i figli di donna Fosca, seconda moglie del senatore Mario
Crespi, Biki e Tonino.
Alfio, che dirigeva nel 1961 La Nazione di Firenze, era stato preferito
a Giovanni Spadolini, direttore del Resto del Carlino di Bologna.
Ora rispuntava proprio Spadolini, proveniente dal Carlino. “Giovannone”
arrivò carico di cultura e con idee alquanto conservatrici,
più professore e storico che giornalista. Prevalse nella
scelta l’opinione della “zarina”, che ormai non sopportava
più Russo. Il solo a difendere Alfio fu Tonino Leonardi,
ch’era però in netta minoranza. Ricordo di aver incontrato
Tonino nella sua casa milanese di via De Marchi, dove mi fece alcune
confidenze e concordò con me che non sarebbe stato facile
sostituire le capacità direzionali e il piglio innovatore
di Russo.
Spadolini fu direttore dal 1968 al 1972. Volle con sé il
redattore capo del Carlino, un suo fedelissimo, Leopoldo Sofisti,
persona assai perbene, sul quale spesso scaricava i suoi cattivi
umori. Assunse non molte persone Spadolini, ma tre o quattro vanno
ricordati: Cesare Zappulli, divenuto l’editorialista più
bravo per l’economia, Luca Goldoni, brillante scrittore, Piero
Ostellino, proveniente da Torino, Antonio Spinosa, mio amico carissimo,
rivelatosi poi prolifico e bravissimo scrittore di biografie storiche.
Spadolini certamente contribuì ad allargare la schiera dei
collaboratori in zona cultura: scrissero per il Corriere Leonardo
Sciascia, Giacomo Devoto, Denis Mack Smith, Leo Valiani, Goffredo
Parise. Furono valorizzati Alberto Sensini, Alfredo Todisco, Alfredo
Pieroni. Spadolini non amava molto gli uomini di Russo. Ottone e
Cavallari finirono per andarsene, il primo a dirigere il Secolo
XIX di Genova, il secondo il Gazzettino di Venezia. Era certamente
uomo con simpatie, antipatie e atteggiamenti che destavano facilmente
irritazioni. Amava la condiscendenza, parlare spesso di se stesso,
a volte intratteneva gli interlocutori leggendo brani di suoi articoli
o esibendo telefonate (trascorreva ore al telefono) a personaggi
importanti o con rampogne ai sottoposti. Divenne senatore del PRI,
poi ministro, presidente del Consiglio e infine presidente del Senato.
Come politico fu all’altezza della fama di storico e saggista.
Interpretò magnificamente il ruolo di statista, cultore e
difensore autorevole delle istituzioni. La sua scomparsa impoverì
certamente la classe politica.
I miei rapporti con lui non furono molto buoni. Ad un certo punto
decisi di andarmene, sollecitato da un’offerta di Renato Angiolillo
per il mio ritorno al Tempo. Più tardi, come politico, ebbi
poi rapporti migliori con Spadolini. Quando me ne andai gli scrissi
una fredda lettera, ma ci fu tra noi una cordiale stretta di mano.
Il Corriere era molto cambiato: se n’era andato Egidio Stagno,
amministratore succeduto a Colli, ed era subentrato Giuseppe Accolla,
che s’era occupato, prima di venire ad amministrare il giornale,
di dadi di brodo. Brava persona, quest’ultimo, ma freddo tecnocrate.
Non c’era più neppure Mottola, deceduto nel luglio 1971.
Ai tempi di Russo ero stato avvicinato dagli editori dell’Arena
di Verona – ebbi con essi un lungo incontro, che accettai perché
ne fui pregato da Egidio Stagno, al quale si erano rivolti –
ma rifiutai la direzione di quel piccolo, solido e anche autorevole
giornale veneto perché non me la sentivo di abbandonare il
Corriere, che consideravo ormai il mio giornale. Ma con la gestione
Spadolini non fu facile trovare un accordo che mi soddisfacesse,
anche se venivo trattato con molto riguardo, soprattutto da Mottola.
Così decisi di tornare a Roma. Ho sempre tenuto alla mia
libertà e al mio decoro.
Fu un’altra tappa del mio giornalismo, tutt’altro che
l’ultima. A Milano dovevo ritornare dopo un anno; per rimanervi
definitivamente e correre altre avventure giornalistiche. La vita,
soprattutto quella di un giornalista, è bella quando è
varia e anche un po’ movimentata: come dice il poeta portoghese
Fernando Pessoa, è un viaggio sperimentale e come tale vale
la pena di viverla.
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