Dicembre 2000

AA. VV.

Indietro
Le Giravolte
percorsi per: tonino caputo - florio santini - floriano de santi - ferenc rákóczy - nicola cesari
 
 

 

 

 

 

Mentre nel mezzo le terre rosse e le terre bruciate si scompongono, come le zolle rivoltate, in ocre odorose e gialli dorati.

 

Come luci in un labirinto

Conosco Vincenzo Balsamo da oltre un quarto di secolo. Si va quindi intorno agli anni Settantatré-Settantaquattro, il periodo della mia mostra alla “Galleria Dimensione”. Più giovane io, ancor più giovane di me, lui. Per l’esattezza di due anni più giovane. Ricordo che mi colpì di lui l’irrequietezza culturale, la voglia di sapere, il desiderio di andare oltre, la smania di ricercare. Mi fece l’impressione di un alpinista che appena scalata una vetta, lassù in cima, ne scopre una seconda da conquistare e riparte. Per poi scoprirne una terza. E una quarta. E così via. Incurante della zona di partenza tendeva verso un traguardo, che invece di avvicinarsi si allontanava sempre di più.

Cos’è il traguardo per un pittore? La fama? La notorietà? Il denaro? Niente di tutto questo. Il traguardo per un pittore è di volta in volta l’ultimo quadro che sta dipingendo. E una volta terminato, il traguardo sarà il prossimo. E poi ancora il successivo. E via dicendo, senza una soluzione di continuità. Così Vincenzo Balsamo è passato da una ricerca figurativa all’altra. Dalla corposità di Cezanne all’impeto di Van Gogh (non nell’esecuzione integrale del quadro, ma in alcune sue particolari pennellate), da alcune istanze cubiste e post-cubiste, al disintegrarsi spaziale di un’informalità gestuale, per poi precipitare in un intricatissimo labirinto di linee, e di combustioni o anche di “Corposità innaturali”, come lui stesso titola uno dei suoi quadri. E tutto questo fino agli anni Ottantacinque. Ed intorno a questi anni, dopo averlo perduto di vista per un po’ di tempo, lo ritrovo una sera in via del Babbuino, da Notegen. Dopo aver bevuto qualcosa assieme, mi dice: «Vuoi venire a vedere i miei ultimi lavori?», e insieme ci rechiamo nel suo studio a pochi passi di distanza. E finalmente, dopo paesaggi toscani e laziali, nature morte e fiori, riscopro, in un delizioso dedalo di linee frantumate e colori nati dal sentimento, il Balsamo mio conterraneo. Che anche se ancora non lo avevo detto siamo figli, io e Vincenzo, della stessa madre-matrigna Terra d’Otranto (lui di Brindisi, io di Lecce), che ci costringe ad emigrare per raccogliere un po’ di gloria, o forse soltanto per poter svolgere il nostro lavoro in tranquillità. Perché come tutti i grandi rapporti, anche quello con la nostra terra è fatto di amore-odio, esaltazione-delusione, oblio e ricordo.
Ma in quelle trame deliziose che compongono il tessuto dell’ultima ricerca di Balsamo riaffiorano i ricordi, i colori, i sapori, gli umori della nostra gioventù salentina. Dai celesti agli azzurri, ai blu, che compongono l’Adriatico da una parte e lo Ionio dall’altra del “tacco”, mentre nel mezzo le terre rosse e le terre bruciate si scompongono, come le zolle rivoltate, in ocre odorose e gialli dorati. E non ci serve scomodare Freud o chissà mai altri ancora, caro Vincenzo, per capire che quelle radici che credevamo di aver tagliato in maniera definitiva sono lì, vive ed estese entro il nostro cosiddetto subconscio, in attesa soltanto di una buona occasione, magari pittorica, per riaffiorare in superficie a testimonianza perenne delle nostre origini.

tonino caputo

 

 

 

 

C’è in questa dama austera una bellezza triste dei giorni piovosi, quando dalla pianura sale verso i bastioni una foschia pesante.

 

l’asino arpista racconta

La voglia di partire

Dall’alto della Torre Guinigi, sovrasto la città sottostante, libero i miei pensieri e vedo lontano. Vengo spesso quassù, a crogiolarmi la voglia di partire, per non so dove; da sempre... [Fu uno dei miei primi articoli!].
Di notevole o brutto, a Lucca, mai cosa alcuna succede; quiete e silenzio ovattano certe viuzze annose, silenzio e quiete adombrano l’umida chiesa del Santo a cavallo, Martino, parata in rosso di seta a maggio e a settembre.
Nei giorni di fiera o processione e di mercato, il popolo del fertile contado accorre gaio entro l’angusto poligono frondoso. Tradizione dei secoli belli, Lucca è pur sempre una repubblica antica ove il benessere riposa sull’amor di tranquillezza medievale, dote toccata in sorte a noi dai vecchi saggi, nelle opere presenti, e in leggende strane.
E’ questo che piace ai forestieri. Luogo comune sembra, a Lucca, il cielo azzurro del turismo solare, non da intenditori. C’è in questa dama austera, invece, una bellezza triste dei giorni piovosi, quando dalla pianura sale verso i bastioni una foschia pesante a ristagnarvi, in attesa d’un vento che la ricacci altrove, laggiù dopo il Serchio, verso la Freddana. Non importa se è inverno, Lucca è sempre bella, di una bellezza schiva, da saper trovare. Qualche volta, la cercavo sui tetti delle case, tolte con ardito slancio alla stretta architettura dei vicoli, lontano dai consueti itinerari.
Buie interminabili scale rampano su da screpolate logge, portoni ornati d’insegne religiose o nobiliari testimoniano splendori trascorsi; duri campanelli da tirare, l’un sopra l’altro in fila, invitano a salire. Ecco i monti di Pisa, là dietro le Mura; ecco i paesi sparsi della Brancoleria; ecco un profilo adunco di montagne, che ricorda il viso di un morto e fa pensare alla supina Ilaria; sullo sfondo, le bianche Apuane. Attorno una distesa di tetti verdi di muschio sembra poggiare sopra silenzio di dormienti, ma fuma alacre la vita delle case. I panni fuori ad asciugare, appesi a lunghe funi, stillano immobili, nunzi di prossima pioggia.
Sovrasto tutto dalla balda Torre dei Signori di Lucca con i suoi lecci in cima, saldati alla pietra dallo scherzo di un seme che volava in cerca dell’angolo solitario. Torre senza campane, mattoni rossi con poche e piccole aperture, senza marmi; per significare la potenza dei casati scomparsi, delle storie antiche, degli ideali pure scomparsi. La voglia di partire c’è e resiste; come resiste laggiù, altissimo avanti a noi, sopra i tetti, l’Arcangelo Michele, ritto ad ali aperte sulla magica facciata, spada tesa nell’aria, a proteggere la città sottostante, cioè a cacciarne gl’ignavi, a liberarne gl’irrequieti...
Da sempre avevo sognato d’emigrare, senza conoscere il motivo profondo del forse endemico desiderio. Da anni scrivevo per coloro che mi piaceva chiamar pionieri.
Questo che riproduco è un momento giovanile, che l’irriducibile “asino arpista” mai dimenticò: altri ricordi, sotto forma di citazione integrativa, troveranno spazio allusivo. I vecchi hanno diritto ad un’ultima nostalgia, quella di rileggersi per uso proprio; magari a titolo di testamento spirituale.
D’altra parte credo che gli asini non amino il grigio della loro pelle, dovuto ad una natura priva di fantasia. Quando portano coccarde colorate, sono più svelti; il che significa meno tristi.
Questa nota, oltre ad illustrare una disposizione innata verso il sogno, vorrebbe essere quello che in musica si chiama “divertimento”. Ricordo che scrissi così:

«Quand’oggi sono uscito di casa, il mio passo era svelto e sicuro. Il significato complessivo della mia persona fisica doveva essere autorevole e brillante, se ho notato che mi si ascoltava con insolita, cordiale attenzione. Di conseguenza, il portamento morale ne riceveva lustro inconsueto, mentre un fenomeno di simpatia improvvisa mi circondava di visi sorridenti, ben disposti.
«La verità è questa: quand’oggi sono uscito di casa, sfoggiavo un’autentica cravatta americana, di quelle dal nodo abbondante, di quelle foderate in seta bianca, quelle che fanno pensare ai quadri di Picasso o al surrealismo di Salvador Dalì; cravatte che mettono il buon umore e costringono la gente a notarti per forza, sia chi tu sia.
«Il mio passo era svelto e sicuro anche se gli amici, perplessi, fermavano lo sguardo un palmo sotto il mio naso. Pensavo ch’era invidia e vivevo la mia gran giornata, come non fossi più me stesso, o meglio, come fossi quell’io che mai sono riuscito ad essere. La metamorfosi dell’aspetto mi divertiva e mi portava lontano, in virtù di quel variopinto pezzo di stoffa, pretesto d’un’evasione innocente dal mio vero modo d’essere che consiste, per restare in tema, nelle cravatte in tinta unita, senza disegni, senza ghirigori, senza arabeschi, senza quell’allegria prefabbricata in serie, la quale capisco debba considerarsi ritrovato americano contro le nevrosi della vita moderna».

E’ un fatto che, grazie a tale magia, riuscivo più simpatico agli altri e, ciò che più conta, a me stesso; magari meno serio; ma, signori miei, è l’ora di finirla, a scambiar questa dote sostanziale con la musoneria, con la scontrosità, con la monotonia: le più formali delle virtù inutili.
Capivo molte cose che andavano oltre la moda, l’esotismo; comprendevo che i fabbricanti di quella specie di biglietto da visita da esporsi alla lettura ovunque esista vita civile, cioè vita che comporti l’uso necessario della cravatta fra degni membri d’una comunità, avevano mostrato di conoscere bene il loro prossimo e di saperne curare le manchevolezze del carattere o dell’ambiente o dell’età.
Con una cravatta come la mia, pensavo, un incerto si sente spavaldo, un isolato si sente in compagnia, un vecchio si sente giovane, con una cravatta come quella, si acquistava un’altra cittadinanza, ideale e onoraria, quasi un miracolo, grazie ad un disegnatore impazzito oppure ad un medico psicanalista in vena di liberarvi l’inconscio da complessi d’inferiorità misteriosi. E così continuai a scrivere:

«Ne ha fatta di strada questo lembo colorato d’America, prima di arrivare a me. Ciò dà la sensazione che il mondo sia piccolo; ciò ricorda i primi anni di scuola, quando i ragazzi passavano pomeriggi beati a colorare a pastello i più strani disegni, creando combinazioni e simmetrie geniali, carichi di gioia di vivere, sfruttando i magici poteri dell’estro cromatico infantile. Quand’oggi sono uscito di casa, portavo disinvolto sul petto tre romboidi bianchi e rossi, più altri sei rombi minori bianchi e gialli, il tutto in campo turchino; a guisa di stendardo, sul quale fosse scritto ch’ero un uomo libero. Il mio passo, svelto e sicuro, risuonava sfida al rispetto umano, alla falsa modestia, all’abbigliamento borghese, triste e benpensante.
«Quella cravatta era il simbolo di un pensiero non detto: era un messaggio ottimista, giuntomi da lontano; era un protettore segreto e potente, che mi avrebbe aperto ogni porta col suo sapor di dollari; era un amico rompi-ghiaccio, un filtro stregato da portarsi attorno al collo per aumentare di grado, per animare d’un programma nuovo la propria muta e povera persona.
«Perché, vedete, il gusto è una cosa e il rischio di vivere è un’altra; forse, quella specie di bandiera aveva voluto farmi comprendere che, quando ci sono, le cravatte devono assolutamente farsi vedere da distante un miglio, devono essere fosforescenti come, quando ci sono, le virtù degli individui hanno da esplodere senza ritegno».

Posso dire che l’auspicata seconda vita ebbe inizio da quel mio guardare in basso e attorno, solo e deciso, là, dalla Torre Guinigi, divenuta una specie di “rampa di lancio” per ambizioni e speranze, non più represse. Quel punto d’osservazione, credo il più alto e panoramico della mia grigia Lucca, mi permise di salutare tutto e tutti in una volta sola. La voglia di partire, lecita o illecita che fosse, aveva vinto.

florio santini

 

 

Come se avesse lui solo un passaporto particolarissimo consegnatogli, chissà per quale privilegio, da potenze angeliche o diaboliche.

 

 

La malattia dell’infinito

La pittura, secondo Arthur Schopenhauer, è la meno filosofica delle arti, onde la sua incapacità (se si sta nell’ambito della tradizione platonica) a smembrare l’oggetto inseguendone le nervature per poi dopo abbracciarlo in uno sguardo d’insieme riconducendo tutto a un’unica forma. Che non è la stessa immagine degli oggetti, bensì la loro forma immutabile, la loro essenziale Wahrheit, verità.
E però – come ha annotato un grande poeta come Rainer Maria Rilke – noi si vive di “figure”. E le stesse “figure” tipiche alla pittura si sono così intrecciate alla nostra vicenda esistenziale, parlandoci dal loro mistero. Forse anche per questo lo sforzo dell’arte figurativa, nei movimenti d’avanguardia del secolo (si pensi al Surrealismo), è consistito nella liberazione – surreale, fantasmatica, lirica – di quegli eventi e quei segni che articolandosi negli oggetti dell’arte (e negli oggetti e avvenimenti da essa rappresentati) hanno sommosso e sconvolto ogni fissità.
Qualcosa di simile è intervenuto nelle tele di Luca Dall’Olio. «Mi sento viaggiatore inesausto di ogni parte del mondo conosciuto e non», ha affermato in una sorta di poetica: «un’esplorazione che mi spinge a cogliere nell’oggettività una specie di vita psichica». In effetti, il suo lavoro vecchio e nuovo nasce attraverso una sorta di stratificazione in cui si avvicendano dense coltri di colore – rosa pallidi, violetti lavanda, verdi salvia, gialli dorati, bianchi cotone, rossi scarlatti – e reperti materici di fragile e impalpabile consistenza, trasparenti nuances e fondi dorati, quasi a restituire un significato di un percorso empirico e fortemente connotato in senso psichico, che vive e si rigenera di sedimenti della memoria.
E’ la molla dell’evocazione, tanto quella personale e privata, legata ai ricordi della propria infanzia e alle diverse occasioni della vita, che quella collettiva connessa ai ricordi di episodi e momenti della nostra storia culturale, che ha ispirato a Dall’Olio “magici teatrini” e “favole bizantine”. E’ la molla della rimembranza che a quelle icone ha attribuito il registro formale, ha impresso la cifra stilistica, ha suggerito le soluzioni linguistiche; che ha voluto prevalesse l’horror vacui all’horror pleni, l’assenza sulla presenza, e vi abbondassero le sfocature, le cesure, gli iati, le lacune, i frammenti, che operano non direttamente sulla realtà fenomenica, ma su natura.
Incastonati entro riquadri geometrici, segni arcaici ed elementari affiorano, come tracce corrose dal tempo, sulla trama accidentata della texture pittorica, richiamando in vita immagini leggendarie e simboli mitici attraverso un sistema di citazioni indirette, giocate sulla rete della contaminazione e dell’analogia. Dall’Olio è un inventore di fiabe, di racconti onirici, di sogni impossibili, di figure fantasmagoriche e molto altro ancora; ma sempre, e a base di tutto, è un inventore di spazi cosmici.
Sfrutta la grande libertà che gli è concessa per suscitare con fitti o brevi sintagmi infiniti campi speculari; non conosce limiti, né costrizioni, né ostacoli. Traccia una linea e fa nascere un orizzonte (Verso un nuovo giorno del ‘94); disperde qua e là degli oggetti e fa apparire un’immensa pianura (Ho trovato il pensiero dell’anima del ‘93); dove lui passa onde agitate movimentano il profilo collinare di un paesaggio (Quale banderuola dirigerà la nostra corsa? del ‘93); gruppi di nuvole sfondano una parete di cartapesta (Vortici del ‘94).
Quando dipinge o disegna Dall’Olio non fa che porre argini all’infinito. Vi lascia cadere dentro immagini come pietre in un pozzo, sperando di colmarlo: taglia, suddivide, contrappone le superfici, sognando di limitarlo; e, se non può evitare di fronteggiarlo, lo riflette nel piccolo cerchio della luna o nel triangolo dei tetti o nel rettangolo delle finestre e delle porte, come l’arabesco leggero con cui nell’Estremo Oriente le Chinois au coeur limpide et fin circuiva sulla carta le stelle, gli alberi, i fiori e i pesci. Eppure l’artista sa bene che senza la malattia dell’infinito non potrebbe mai dipingere. Ha bisogno delle sensazioni, delle intuizioni, dei pensieri, delle associazioni, che sgorgano in lui da una fonte distante come la più remota Galassia.
Ma come fare per rappresentare l’infinito con l’aiuto delle sole immagini? Ecco allora – come la più singolare delle esperienze creative – affiorare il miracolo. La mano ferma di Dall’Olio lo temporalizza, lo spazializza, lo chiude, lo nega, lo uccide: ma il suo brivido e il suo presentimento si insinuano dentro la visione, suscitano attorno ad essa degli aloni, creano echi, aprono aperture e precipizi, prolungano la dimensione del testo, sino a fargli perdere ogni confine. Lasciato il fermo suolo del tempo, ora l’artista preferisce abitare nel punto dove tutti i tempi convergono: dove il passato, il presente e il futuro, dove Qubilai Qan e Marco Polo, gli astri e la terra, la luce e le tenebre, dove il gioioso principio e la malinconica fine dei tempi si confondono e si contemplano gli uni negli altri.
Lo spazio di Dall’Olio – come tutti gli altri elementi che lo accompagnano e che contribuiscono a formare quel mondo entro il quale stiamo tentando di entrare – è diviso tra realtà e irrealtà, partecipa contemporaneamente dell’una e dell’altra, le fonde, le confonde. Avviene un fatto magico e decisivo: il giovane pittore bresciano, in tutta la sua produzione grafica e pittorica, e in modo massimo, molto evidente e poetico in quadri del tipo Canto notturno del ‘94 e Sogno d’estate dell’anno seguente, attraversa di continuo, in una direzione e poi in quella opposta, il confine invalicabile, inattraversabile, che divide il territorio del giorno dal territorio della notte. Come se avesse lui solo un passaporto particolarissimo consegnatogli, chissà per quale privilegio, da potenze angeliche o diaboliche.
«Il sogno visionario non si forma che nel viaggio». Non conosco definizione più illuminante di questa di Borges per intendere appieno la vocazione figurativa di Dall’Olio. Egli è un viaggiatore instancabile: attraversa pianure, colline, mari, isole, foreste: attraversa epoche storiche ed epoche artistiche: torna insaziabile a leggere Eraclito e il Tao-Te-Ching. In queste sterminate avventure rimangono impigliati ai suoi abiti e nelle sue bisacce, nei suoi cesti di cercatore di pepite d’oro, ogni sorta di ritagli, di immagini, di ricordi. Con tutti questi l’artista crea le sue opere, ora riproducendoli, ora rifiutandoli, ora modificandoli. Immerge il pennello nel vasto bacino sua Koiné espressiva, e con quella “lingua iridata” disegna un vecchio imperatore che sfoglia le inutili mappe del suo atlante, il riflesso delle perle in fondo al mare di Malabar, il francolino che sfugge felice dalla gabbia negli spazi del cielo.

C’è una vera e propria poesia della metamorfosi nell’opera di Dall’Olio. Se il sogno di Borges uccide lo spazio e il tempo, quello del nostro artista sprofonda nella vertigine: moltissimi tempi e luoghi – Zoroastro ed Eraclito; Amon-Ra e Osiride; Quetzalcoatl, il “Serpente Piumato” e Montezuma; L’Alham-bra di Granada e la Cattedrale di Chartres; Uxmal in Messico e il Tempio di Lingaraja in India; Carpaccio e Klee; Bruegel e Chagall – si confondono, si mescolano, si accavallano vorticosamente nell’istante di tempo, mentre attorno cambiano forma, si restringono, si allargano, turbinano muri invisibili. Sennonché, quando il risveglio si avvicina, scopriamo che non esiste soltanto una metamorfosi del sogno, una memoria delle reveries ad occhi aperti, come quelle di Le mille e una notte, ma anche una metamorfosi dell’Es che apre porte inaspettate, dove, per raggiungere un luogo, dobbiamo voltargli le spalle; dove, per restare fermi, dobbiamo correre; dove, per arrivare in un punto, dobbiamo averlo già superato; e il tempo corre all’indietro: prima il futuro, quindi il presente, infine il passato.

floriano de santi

 

La chemise de lin

  A l’orée des faubourgs, on cueille les herbes guérisseuses
Sous les balcons gonflés de légendes familiales
Toujours on cherche un peu à se prémunir
En vue d’un malheur proche, on prie à voix basse
Ah! on est bien soigneux de sa fleur, avec tendresse.
Puis le tourment arrive, invariable, dans la panique
Hideuse des cliniques mi-closes et les défaillances
Du souffle sur les draps immaculés où l’on s’efforce
De se tenir sans trop trembler alors qu’on sent que monte
Ce froid par le grand trou verdâtre du crépuscule
En se serrant frileusement dans une chemise trop ample.

 

Ce qu’essentiellement nous sommes

  Aujourd’hui, plus pressé que jamais, il n’a pas attendu
Ni le jour et son bruit d’ailes, ni les compagnons de toujours
Autre chose de loin l’appelait, comme un sommeil, qui sait?
Le temps de traverser un peu de nuit, une eau qui court
Plus rapide que nous, plus ombre qu’ombre, cependant
Qu’un vent frais noue sa voix aux hymnes des âmes de passage.

 

Testament intermédiaire

  Je cherche chaque jour le pays inconnu, tout en sachant
Bien entendu, que c’est trop facile, pure perte et tricherie
Par ailleurs, puisque tout débouche sur cette asphyxie
D’opéra maçonnique aux airs de faubourg contradictoires
Comme un homme retaille à genoux le rosier qui fleurit...
Ayant toute licence, on ne choisit pas, c’est peu dire
Les choses pressenties à jamais se dérobent – comme hier
Dans ce long bêlement d’après-minuit devant les roulottes
Désertées des chantiers; et les quinquets des ruffians
N’éclairent que la main tendue au-dessus des fondrières.

 

La servante de Dieu

  Elle aime à évoquer comme elle jetait les pièces
Aux mendiants indistincts attardés sous les fenêtres
De la cure; et la fois où l’évêque tomba, tel un mécréant
De l’échelle dressée dans le cerisier intact, ce qu’elle riait!
A présent, les saisons passent plus lentement, les pattes
D’oie au coin des paupières, on les salue du doigt; on perd
Mémoire, mais ce n’est pas le plus grave: il en restera
Toujours assez pour un brin de causette à la tombée du soir.

 

 

Queste installazioni sono anche un momento significativo di riflessione su forme espressive del nostro patrimonio culturale in stato di abbandono e di incuria.

 

Emozioni tra passato e presente

La mostra di Marcello Seclì, allestita nella mirabile e affascinante cornice del settecentesco convento degli Alcantarini di Parabita, è da considerare momento di sintesi di un percorso artistico articolato e attento alle problematiche della contemporaneità, iniziato dall’artista salentino negli anni settanta e coerentemente sviluppato nel tempo. Nelle loro presentazioni in catalogo, Vincenza Fortuzzi e Massimo Guastalla evidenziano giustamente le connessioni di ordine artistico e sociale fra le installazioni dell’artista e il pregevole contenitore che le ha ospitate.
E’ innegabile, infatti, come tali installazioni, oltre ad offrire al visitatore un saggio di notevole valore artistico, rappresentino anche un momento significativo di riflessione su forme espressive del nostro patrimonio culturale attualmente in stato di abbandono e di incuria. Un momento di riflessione, dunque, che ci spinge a ricercare le nostre radici culturali, a riappropriarci di un passato glorioso che i resti dell’antica struttura del convento degli Alcantarini, pur nella loro decadenza, tenacemente testimoniano.

Le sculture-installazioni di Seclì evidenziano, attraverso la loro rigorosa ricerca “segno-forma”, la possibilità e l’urgenza di stabilire un rapporto del presente col passato, senza il quale, in una società tecnologicamente avanzata e modernamente distratta, l’arte rinuncia ad uno dei suoi princìpi fondamentali, vale a dire quello di mediare fra culture apparentemente distanti, ma inscindibili per la loro capacità di modulare i ritmi dell’evoluzione storico-artistica. Queste modulazioni, sempre presenti nell’opera di Marcello Seclì, prendono corpo attraverso processi progettuali volti al recupero del valore dell’oggetto, valore da ricercarsi sempre nelle energie che l’opera d’arte è in grado di sprigionare tanto nell’ambiente dove è collocata quanto, tramite il rapporto di fruizione, nelle coscienze individuali che volta per volta la assimilano.
Sono princìpi, questi, sempre presenti nell’opera dell’artista, oltre che motivi di fondo che informano le sue molteplici attività, siano esse di natura didattica o professionale: non va infatti dimenticato che Marcello Seclì è docente di discipline artistiche e che dal ‘75 si interessa attivamente di progettazione e di grafica. Princìpi, ancora, che permettono alle sue opere di indicare il graduale passaggio dell’immagine artistica dalla “forma” alla struttura e da questa a norme di comportamento. Si tratta, a ben vedere, di un processo capace di conferire alle opere in mostra molteplici valenze, come l’essenzialità della forma, la percezione dello spazio e la sua valorizzazione, l’impatto emozionale, il recupero della memoria storica; insomma, tutte componenti capaci da sempre di stimolare le sensazioni del fruitore attento e partecipe del messaggio artistico.
Così, di fronte a opere quali “Ritmicità fluida”, costruita con tubolari metallici ondulati dipinti di azzurro che sbucano dall’acqua e svettano verso il cielo, non è difficile abbandonarsi a congetture interpretative che travalicano l’intento dell’artista per divenire momento di personale lettura introspettiva. In definitiva, opere come queste smaterializzano la fredda fisicità della materia, sia essa pietra o ferro, trasformandosi in visioni eteree ove sensazioni composite rimandano al passato, alla propria vicenda personale, al lento trascorrere del tempo, senza tuttavia disancorarsi da un presente da intendere nella giusta dimensione umana.

nicola cesari

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000