Marzo 2001

VOCI DALL’ITALIA

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Il sistema vischioso
Micha de Palma
 
 

 

 

 

 

Il vero rischio è che, usciti dal tunnel
dell’emergenza
dei conti pubblici,
si imbocchi quello della crisi
di competitività.

 

Rallenta l’economia mondiale, dal 4,6 per cento del 2000 al 4 per cento del 2001. Rallenta l’economia europea, dal 3,3 per cento al 2,9 per cento, soprattutto per gli aumenti del greggio e per la brusca frenata del gigante americano.
In questo scenario, il nostro Paese, ingabbiato da un’eccessiva rigidità del mercato del lavoro e da un fisco ancora troppo vorace, continua a registrare tassi di crescita inferiori a quelli degli altri Paesi, con un Prodotto interno lordo che dal 2,7 per cento del 2000 si ridurrà al 2,5 per cento nel 2001 e al 2,4 per cento nel 2002. Ed è la competitività a farne le spese, come mostra la caduta di quote di mercato all’export, al 3,6 per cento nel 2000, contro il 4,6 per cento del 1995. Troppo elevato il rapporto tra capitale e lavoro, eccessivi i costi dei servizi pubblici, inefficienti i trasporti, eccessivamente frammentato il sistema produttivo. E così, se si guarda alla redditività del capitale netto, si scopre che nella media del decennio 1989-98 l’Italia presenta un modesto 1,5 per cento, contro il 7 per cento della Francia e della Germania e il 14 per cento degli Stati Uniti.
Ecco perché è necessaria un’autentica svolta, per evitare quello che è stato giustamente definito “il rischio competitività”. Rischio che trova conferma nelle previsioni 2000-2002, che riservano un’attenzione speciale al sistema fiscale italiano; perché è vero che la riforma Visco ha fortemente ridotto le aliquote marginali sugli investimenti, che risultano ora tra le più basse di tutti i Paesi industriali, ma è altrettanto vero che ai fini della competitività è essenziale che siano basse le aliquote medie effettive. Eccoci, dunque, a un passaggio nodale: le aliquote marginali non sono adatte a cogliere le convenienze relative in termini di localizzazione tra diversi Paesi e non tengono conto del valore dell’autofinanziamento rispetto alle fonti esterne.
In altre parole: nonostante la riforma Visco e gli annessi e connessi, il carico fiscale sulle imprese con fatturato superiore a 40 milioni di euro resta troppo elevato: è pari al 53,5 per cento in Italia, contro il 49,5 per cento in Germania, il 33,8 in Francia, il 40,5 negli Stati Uniti. Margini di forte incertezza sono individuabili anche sul fronte dei conti pubblici, con il fabbisogno del settore statale fuori linea per 18.000 miliardi almeno.
Temi, questi, di strettissima attualità, con una Finanziaria ritenuta dagli imprenditori inadeguata ad affrontare le vere sfide del Paese. La sensazione è che si stia in mezzo al guado, mentre invece i tempi dell’economia impongono scelte immediate, proprio al fine di recuperare competitività. I dati, del resto, sono eloquenti: ci troviamo in una situazione di fortissimo ritardo come sistema-Paese. Il vero rischio, se non si fanno le riforme sociali, è che, usciti dal tunnel dell’emergenza dei conti pubblici, si imbocchi quello della crisi di competitività.
Con ogni probabilità, il 2000 è stato uno dei migliori anni del ventennio trascorso. La parabola, ora, purtroppo, è entrata in profilo calante, con le croniche difficoltà italiane incontrate nel tenere il tempo al gran ballo dell’economia mondiale. Proprio questo andare continuamente in affanno, questo rimanere sempre un passo indietro, suggerisce l’idea che la sindrome di cui soffre l’economia italiana non è solo la conseguenza dell’aver dovuto tirare la cinghia per il risanamento dei conti pubblici.
Ci sono anche inefficienze sul lato dell’offerta che, sicuramente, sono state aggravate dalla cura da cavallo imposta, ma che non spariscono al momento in cui la politica di bilancio ritorna neutrale.
In altre parole, resta intatta anche in tempi di vacche relativamente grasse la nota dolente della costituzione gracile della nostra economia, riccamente documentata dalle numerose classifiche mondiali sulla competitività, che vedono il nostro Paese costantemente situato nei bassi ranghi.
L’occupazione non va del tutto male, anche se vi incidono le cifre degli inutilissimi “lavoratori socialmente utili”. Anche con costoro, si è cresciuti dell’1-1,2 per cento. Ma in Europa l’occupazione (senza l’ombrello protettore e assistenziale degli Stati) cresce a un ritmo medio dell’1,7-1,9 per cento. Perché questa differenza? Conta principalmente il fatto che il mercato del lavoro italiano rimane più rigido degli altri. Non per niente uno studio dell’Ocse ricorda che, quanto a grado di rigidità, il nostro Paese si colloca subito al di sotto della Grecia e del Portogallo.
In sintesi: mentre l’economia mondiale scala la marcia, il cambio non è sincronizzato e, come è stato scritto, «manca la frizione». La manovra, perciò, è sempre ad alto rischio. Scenari del 2001 incentrati su tre fronti: quello dell’economia americana, in fase di incerto atterraggio morbido; quello del prezzo del petrolio, che resterà alto; l’ultimo dell’euro, che potrebbe risalire rapidamente con un dollaro in ritirata. Il barometro può segnare bello, stabile o tempesta, ma la nota di fondo resta: il divario di competitività, che fra l’altro è duplice, tra l’Europa e gli Stati Uniti, da un lato, e tra l’Italia e l’Europa, dall’altro. Questo divario si traduce in minore crescita economica, che vuol dire minore capacità di sfruttare le opportunità della nuova economia per creare benessere e occupazione. Così, Eurolandia si attarda rispetto all’America, e l’Italia si attarda rispetto ad Eurolandia.
Queste differenze di competitività sistemiche e quindi di performance macro-economica hanno un preciso riscontro micro-economico nella minore redditività aziendale: in Italia è la metà rispetto alla Francia e alla Germania, Paesi in cui è già la metà rispetto agli Stati Uniti.
Chi non fa abbastanza profitti non può né vuole investire di più, contiene l’allargamento della capacità, contribuisce meno alla crescita della domanda. In questo modo, minori investimenti aggravano il divario competitivo. E finora gli imprenditori italiani hanno continuato a credere nelle proprie aziende, mantenendovi un impegno finanziario non ricompensato dal rendimento. Per interrompere questo circolo vizioso il punto d’attacco è la riduzione del carico fiscale sulle imprese, ma anche sui privati, che non costa poi tanto, può dare parecchio in termini di maggiore sviluppo, e soprattutto fa riferimento (in via necessariamente preliminare) alla riforma dello stato sociale, del mercato del lavoro, delle persistenti vischiosità del sistema-Paese.

   
   
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