Giugno 2001

DOCUMENTI DI FEDELTÀ

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Io e Lecce
Mario Marti
 
 

Allocuzione letta nella Sala Consiliare
del Comune di Lecce
in occasione
del conferimento della cittadinanza onoraria.

 

Autorità, Signore e Signori,

Prima di tutto desidero formulare tutti i miei più vivi ringraziamenti ed esprimere la mia più profonda gratitudine, per il gratificante e lusinghevole riconoscimento che mi è stato conferito, a tutta l’Amministrazione Comunale della città di Lecce: al Consiglio che, presieduto da Carlo Belfiore, all’unanimità ha approvato la relativa delibera; a Stefano Salvemini, che per primo ha avanzato l’idea e ha formulato la proposta; al Sindaco della città, Adriana Poli Bortone, un tempo già mia allieva, che l’ha fatta subito propria e ne ha disposto e curato la realizzazione. Il mio più cordiale ringraziamento vada anche agli organizzatori di questo convegno leccese sulla letteratura barocca, i quali hanno pensato di inserire questa fra le altre manifestazioni del convegno, d’accordo con le Autorità cittadine. E ovviamente grazie anche a tutti gli intervenuti, che hanno voluto onorarmi della loro presenza.
Nella relazione che accompagna la delibera comunale allo scopo di motivarla, si parla delle mie ricerche nel campo della critica letteraria italiana e dei risultati ottenuti. E’ vero: esse mi sono molto care almeno per due ragioni: la prima è che testimoniano sessanta anni di lavoro nel quadro e nell’àmbito della critica letteraria e dell’attività accademica; la seconda è che esse rispecchiano, nel bene e nel male, l’itinerario dell’anima mia e la progressiva maturazione della mia mente. Io sono partito da brevi annunzi e segnalazioni nel sansoniano “Leonardo” del 1943, gli uni e le altre di acerbissimo sapore; e ora sto ormai concludendo sui miei grandi autori di sempre, ma insieme sui valori umani e letterari della mia patria leccese e salentina, in questa sorta di risorgimento locale, ormai così palese, e al quale ho cercato di partecipare col modesto contributo della mia personale attività e dei miei scritti.
Dunque, in tutto questo, la città di Lecce c’entra soltanto in parte. Varrebbe tutt’al più la considerazione che la mia produzione anteriore al ‘63 mi permise di vincere il concorso che si concluse appunto in quell’anno, onde la mia condizione giuridica si tramutò da professore incaricato a professore di ruolo. Io ero Incaricato di Letteratura italiana nella Facoltà di Lettere fin dalla sua fondazione qui a Lecce (1956); ma appena vinto il concorso, mi giunse un telegramma da un mio amico e collega dell’Università di Messina, il quale mi informava che quel Consiglio di Facoltà era pronto a chiamarmi, se avessi accettato, facendomi anche notare che l’Università di Lecce era solo parificata, mentre quella di Messina era statale. Notevole la differenza, anche sul piano della tradizione accademica. Fu quello il mio primo atto di fedeltà a Lecce, dove volli rimanere e continuare, per amore della città e della mia piccola patria salentina. Abitavo a Roma allora; e se, da una parte, non ho mai mancato ai miei doveri didattici pur dimorando così lontano da Lecce, Roma, dall’altra, mi offriva tutte le sue grandi possibilità per lo studio e la ricerca. Ma qui a Lecce mi crescevano intorno giovani speranze, che mi sembrava ingiusto deludere, nella prospettiva programmatica – cui mi sono sempre attenuto anche da Preside e da Rettore – di incoraggiare e salvaguardare le promesse locali, quando se ne rivelassero degne nei loro lavori.
A questa fedeltà credo davvero di non essere mai venuto meno. Qualche anno dopo, infatti, mi giunse da Salvatore Battaglia l’invito a sdoppiare con lui la cattedra napoletana, con una bella lettera che tuttora conservo. Poi ricevetti sollecitazioni da Pisa e l’invito a presentarmi, dopo che Bigi s’era trasferito a Milano, con due lettere distinte da parte di Mario Fubini (che mi volle Condirettore del “Giornale Storico”) per il settore, diciamo così, laico; e da Tristano Bolelli, già mio compagno alla Normale di Pisa, per il settore cattolico. Tralascio di ricordare altre occasioni meno concrete.

Ecco: questi sono i documenti della mia fedeltà all’Università e alla città di Lecce, dei quali, senza alcuna falsa modestia, posso menar vanto. Vero è che l’una e l’altra, l’Università e la città, hanno ricambiato con tanta stima e con affetto cordiale, riconoscendo via via sempre di più i miei sforzi volti al recupero dei valori locali e al loro trasferimento, rigorosamente, sul piano della cultura nazionale, fuori da ogni secca e improduttiva erudizione e da ogni esagerazione campanilistica e provincialesca. Fu così e per questo che, accanto alle collezioni da me fondate e dirette prima per l’editore Milella e poi per l’editore Congedo, prese corpo e importanza la mia “Biblioteca salentina di cultura”, per una rifondazione della storia della cultura letteraria, in senso ampio, locale. Non una raccolta di scritti critici, tante volte superflui e ripetitivi, ma testi, testi e poi ancora testi, storicamente selezionati, criticamente introdotti e annotati, e arricchiti da indici d’ogni genere. Mi è doveroso ricordare i componenti della redazione: insieme con me hanno tanto lavorato Donato Valli, Gino Rizzo e Antonio Mangione, cui si aggiunse in un secondo momento Giovanni Papuli. Così sono state recuperate figure di scrittori nati e operanti nel Salento oppure salentini operanti altrove, non indegne di essere presenti nelle storie letterarie d’Italia. Io stesso mi sono occupato di Rogeri De Pacienza, di Antonino Lenio, di Secondo Tarentino, degli scrittori di pietà fra Cinque e Settecento (fra i quali figurano fior di personaggi, come Fulgenzio Gemma, Serafino Dalle Grottaglie, Alessandro Tomaso Arcudi) e dei testi dialettali del Settecento. Donato Valli, dei nostri letterati fra Otto e Novecento, con la scoperta di un poeta di tutto rilievo come Vincenzo Ampolo, e dei testi dialettali dell’Otto e del Novecento. Rizzo dei suoi cari poeti barocchi (Battista, Bruni, Donno, Maia Materdona). Mangione dei narratori dell’Ottocento e di Ascanio Grandi. Papuli di Giulio Cesare Vanini. Ora si attende un Ammirato, cui si è pazientemente e generosamente sobbarcato il mio amico Martino Capucci qui presente. Altri volumi sono dovuti ad Aldo Vallone, a Enzo Esposito, e a Raul Mordenti. Sostenitrice dell’iniziativa, la Banca Piccolo Credito Salentino, all’origine, con l’istituzione di un’apposita “Fondazione”. Tutto in città e fuori dell’Università.
Come si vede, la mia fedeltà a Lecce, pur se lodevole di per sé stessa, non è stata passiva ed inerte, bensì attiva e operosa; e, se non erro, efficacemente operosa. Tanto più che all’inizio lo studio della locale fenomenologia della letteratura e della cultura, anche sotto il profilo didattico (esplorazione bibliografica, tesi di laurea, ecc.), era snobbato e considerato come studio di serie B; giudizio che poi divenne addirittura aperta accusa di mentalità retrograda e angustamente provinciale; accusa e condanna lanciate sia nel recinto accademico, sia al di fuori di esso, specialmente negli anni del Sessantottismo. Al contrario, a me era assai comodo approfittare della condirezione del “Giornale Storico”, per prospettarvi e discutervi argomenti riguardanti il Salento e la sua tradizione letteraria, e farli conoscere al vastissimo pubblico dei lettori di quella rivista, su scala mondiale; onde su quella gloriosa e autorevole rassegna, diretta prima da Fubini e poi da Bonora come responsabili, apparvero miei studi sulla Rassa a bute, sulla Iuneide, su Fulgenzio Gemma, sull’Arcudi, a prescindere da varie recensioni; così come non mi feci sfuggire l’occasione di pubblicare in edizione critica il Viaggio de Leuche di Geronimo Marciano negli Studi in onore di Gianfranco Folena. Taccio di altri miei interventi, pur essi raccolti nel mio volume miratamente intitolato Dalla regione per la nazione e pubblicato (1987) presso Morano a Napoli.
Veniva così, anno dopo anno, a realizzarsi uno degli scopi principali della mia scelta accademica, quella cioè di restare nella Facoltà di Lettere di Lecce. E francamente godo ora di vedere quanti progressi sono stati compiuti da parte dei vari Dipartimenti di scienze umane, nel campo degli studi d’argomento locale; fino a una ben importante Storia di Lecce in tre volumi presso il Laterza di Bari (1992-5), curata dal Dipartimento di studi storici dell’Università, e alla quale anch’io ho collaborato. Ma un altro tipo di attività mi permetteva di avvicinare maggiormente e di conoscere meglio il tessuto socio-culturale di Lecce e del Salento: quello delle conferenze pubbliche, della presentazione di specifici libri con successiva discussione, della collaborazione anche ai giornali, giornaletti, e riviste, rivistine locali, degli interventi in pubbliche riunioni su argomenti umanistici e anche non umanistici, nei quali mi riconoscessi una qualche competenza. Mi sono battuto per il recupero e il riscatto del liberty leccese e salentino (sul che è stata poi allestita una magnifica mostra); mi sono battuto affinché la Fontana dell’armonia ritornasse alla sua originaria collocazione (il che è poi avvenuto); così come in questa occasione ripeto il mio augurio che la pensilina liberty della cosiddetta “piazza coperta” ritorni al suo posto, come documento storico di un momento assai produttivo e felice della vita comunale. E proprio per il grande amore a questa bella e cara città ho partecipato per ore e ore alle riunioni – spesso del tutto sterili e inconcludenti – delle consulte culturali dell’amministrazione comunale e di quella provinciale, per via del recupero e della utilizzazione del Castello, ad esempio, o dell’allestimento di una mostra, o della ristrutturazione e della difesa del “Premio Salento”, e via dicendo.
Tutto ciò, e altro ancora, consegnato alle mie Occasioni salentine dell’86 e alle mie Storie e memorie del mio Salento del ‘99, certamente concerne il mio feeling con la città di Lecce, assai più che i miei studi sui Giocosi o sugli Stilnovisti, oppure su Dante o su Leopardi. Ma ci sono ancora due mie esperienze leccesi, che mi hanno segnato nel profondo: alludo agli anni in cui ebbi la presidenza della locale “Dante Alighieri”, e a quelli durante i quali ho tenuto fervidi e stretti contatti con l’Università della Terza Età, sul cui atto costitutivo compare anche la mia firma.
Non narrerò partitamente la mia vicenda per la “Dante” e con la “Dante”, risorta a nuova vita dopo la morte dell’attivo Mario Moscardino e dopo un lungo periodo di letargo. Ricorderò solo due episodi. Il primo riguarda l’approntamento e la realizzazione di una manifestazione, durante la quale furono messi all’asta dei quadri offerti gratuitamente dai pittori di Lecce e della provincia, a beneficio della “Società”. Brillante e simpatico battitore fu Ennio Bonea, nell’elegante salone dell’Hotel Risorgimento, anch’esso gratuitamente messo a disposizione. Il successo fu pieno e fruttuoso. Il secondo riguarda la splendida “Sala Dante” dell’Istituto Tecnico, miseramente ridotta in stato di abbandono, mentre fino agli anni Cinquanta era stata non solo la sede di tutte le manifestazioni della “Dante”, ma era diventata addirittura un centro di aggregazione culturale. Essa fu restaurata e riadattata in grazia delle mie tenaci, pazienti e perfino proterve insistenze presso l’allora responsabile Assessore del Comune di Lecce. E fu restituita alla città.
Quanto all’Università della Terza Età, io ebbi l’onore di partecipare alla sua costituzione, come ho già accennato, fermamente voluta dalla signora Maria Rosaria Muratore e dall’Associazione delle Mogli dei Medici. Poi, anno dopo anno – e questo è ormai il diciassettesimo – m’è stato assegnato il compito di formulare il tema generale, di pronunziare la prima orazione inaugurale (poi messa alle stampe), e di tenere sistematicamente, anno dopo anno, le prime cinque lezioni. E’ stata ed è tuttora un’esperienza davvero appagante, la quale, permettendomi il contatto personale e duraturo con tante persone mature e ricche di umana interiorità, mi ha veramente avvicinato al cuore più intimo della città. Perciò quell’istituzione m’è cara, come mi è stato caro offrire ad essa la mia poca dottrina e il mio tanto entusiasmo.

E infine, oltre a quello della mia fedeltà accademica; a quello dell’inserimento delle ricerche “locali” entro il quadro nazionale, nel giuoco dialettico regione-nazione; e oltre a quello della mia partecipazione, sempre disinteressata e gratuita, alla vita della città e delle sue istituzioni, c’è un altro aspetto più intimo e segreto del mio amore alla città: i ricordi della mia Lecce dei primissimi anni Venti, tanto piccola e domestica, che io, già a meno di sei anni, potevo percorrerne almeno tutta la parte orientale senza pericolo alcuno, da Fulgenzio, dove poi mi recavo la mattina a servir messa, alla Piazza. Abitavamo in Via di Casanello al n. 19 e poi al n. 21, una via che allora era un tronco chiuso da un muretto a secco, di là dal quale si estendeva l’ubertosa campagna coltivata; la caserma di Santa Rosa era isolata, sul fianco di un viottolo in terra battuta, che io e i miei compagni percorrevamo, per giocare poi a palla di pezza nei larghi campi incoltivati, che si aprivano subito dopo, odorosi di timo e di mentastro. La via di Casanello: dove ho giocato alla trottola, o con la lippa e il bastoncello, o alla campana; dove, noi ragazzi, a sera ci sedevamo sui gradini di casa, a raccontarci stranissime e singolari favole; e dove ci riposavamo dopo le corse fatte nei campi, e a sassaiola conclusa. E poi la minuscola banda cittadina, della quale anch’io, con mio padre e mio fratello, facevo parte suonando il genis; il mio lavoro al biliardo, gestito da mio padre, alle spalle del vecchio Banco di Napoli, raddrizzando i birilli e segnando i punti della bàzzica (intervenivano Facilli, Ribelle, Alvino, Personé, nomi di giovani, allora, leccesi impressi per la vita); il clandestino ingresso nella villa comunale per vedere la lupa e girovagare un po’; le rose rubate per poter a casa festeggiare la Pentecoste, cioè la Pasqua delle rose, con i petali mescolati con l’acqua della bacinella... I miei primi dieci anni di vita, trascorsi in questa incantevole città, dalla quale ebbi poi ad allontanarmi.
Ora Lecce mi onora, e io le sono immensamente grato; anche perché mi sento, invece, di doverla io ringraziare per quegli indimenticabili anni di felicità, e poi per questi decenni di esperienza e di passione, durante i quali, se poco ho dato, molto, e assai di più, ho ricevuto.

   
   
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