E sempre
come stare
tra vecchi amici,
una sorta di cordata legata dalla storia della vita,
nella sofferenza
di sapersi sperduti
in mezzo a due mari.
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Carmela Sabato è una donna minuta, ben proporzionata, i
muscoli e la carne giustapposti dove madre natura ritiene che lì
debbano stare. Ha sempre, destate e dinverno, dei vestitini
che la fanno apparire un po magra. Il viso, poi, è
sempre tirato al bello. Appena appena incipriato e le labbra quasi
sempre attraversate da unombra fugace di rossetto. Non si
muove a scatti, la signora del fuoco, ma fluisce sul pavimento senza
pesantezze, senza rumori.
Il luogo in cui il marito ha destinato Carmela, nellineludibile
divisione dei compiti familiari allinterno dellosteria,
è quello del camino, quasi sempre acceso su di un lato del
grande bancone laminato e lucido come un paio di scarpe appena uscite
dal calzolaio. Lo spazio del fuoco e delle braci sempre ardenti
è piccolo per i movimenti di una qualsiasi persona. Però,
come per incanto, Carmela Sabato riesce sempre a dominarlo e a gestirselo
con grande perizia. Le sue mani, veloci e dalla presa ferrea, sistemano
carboni, spianano la brace e, continuamente, tolgono o rivoltano
grosse graticole di arrosti.
Si muove con leggerezza la donna del fuoco. Spesso, nessuno si accorge
della sua presenza. Ad eccezione delluomo dei curli, Antonio
Verri, che tutte le volte, appena entrato nellosteria, ancora
prima di salutare loste grande e buono, rivolge le sue attenzioni
proprio alla minuta Carmela accarezzandola quasi con la sua voce
di gufo appena svegliato una mattina di un triste autunno salentino.
«Ciao Carmela, come va la vita?».
«Bene Antonio. Tiriamo avanti. Qualche problema ce labbiamo
pure noi. Non è molto che Vito ha deciso di aprire questo
locale a Sternatia. Per cui, cè tanto da fare, e la
clientela non è ancora abbastanza folta. Comunque speriamo
bene».
Carmela aggiunge legna dolivo antico al fuoco che arde baldanzoso
al centro del camino.
Vito Maniglio, loste grande e buono, quasi sempre lo trovi
dietro il bancone con uno strofinaccio in mano che pulisce e ripulisce
il piano dappoggio. Saluta educatamente, poi, con fare meccanico,
ma lo fa per nascondere la prima timidezza dellincontro, passa
e ripassa il tovagliolo nei pressi del posto del bancone che tu
occupi, a dimostrazione che lì quel posto è ben pulito,
che ti puoi fidare, che puoi stare a tuo agio.
Loste è un uomo indubbiamente bello, una sorta di messapo
antico dal corpo slanciato verso il cielo, le mani forti e i muscoli
ben torniti sulle braccia. E evidente che è un uomo
che non ha paura di affrontare e vincere qualsiasi lotta tra uomo
e uomo, uomini, beninteso, che si intendono di vini del Salento.
Luomo dei curli, Antonio Verri, che a sua volta è un
uomo grande e forte, questo lo sa, per cui cerca di stare a debita
distanza dalle spesse mani di questo oste sternatese, che però
ha sempre il sorriso sulle labbra.
«Ciao Antonio, cosa ti do da bere, il solito rosso?».
«Sì, il solito».
«Quanti siete questa sera, e dove vuoi che ti aggiustiamo
tavola?».
«Sul retro, no?, come sempre! Saremo quattro o cinque. Verrà
il Bevilacqua da Muro, Aldo Bello e sua moglie Ada, Giuseppe Tondi
e Giovanni Pranzo Zaccaria. Poi si vedrà se qualcun altro
si aggiungerà alla compagnia».
Vito Maniglio poggia sul bancone un quartino e lo riempie di un
rosso sangue vivo.
«Guarda Verri, questo vino proviene dalle uve delle campagne
di Magliano. Un vino scelto personalmente da Cesarino De Santis.
E stato stompato e curato alla vecchia maniera, per cui conserva
tuttinteri i profumi e i sapori di un tempo. Assaggialo e
dammi un parere».
Luomo dei curli, Antonio Verri, si porta il bicchiere alle
labbra e sorseggia il vino. Si sporca un po la barba, che
spinosa gli giunge quasi fin dentro alla bocca da un lato sdentata.
Si passa il dorso della mano sulle labbra coperte dai peli della
barba e risponde: «Sì, è vero. E proprio
un buon vino. Ma tu dimmi, perché hai chiamato questo posto
Mocambo?».
«Verri, forse non te lho ancora raccontata la mia storia,
ma verrà il giorno in cui lo farò. Sappi comunque
che Mocambo è un nome che io ho sentito e risentito nei lunghi
anni dellemigrazione in Svizzera, là dove, frequentandomi
con altri lavoratori, soprattutto di lingua spagnola, favoleggiavamo
di questo luogo di gioia, di vino e di buon mangiare. Da qui mi
è nata lidea di dare a questa locanda quel nome. Spero
che mi sia di auspicio».
«Lo sarà di certo. Perché vedi, io amo questo
posto. Amo Sternatia e la sua storia. Cho fatto un libro qui.
Per la verità il mio primo libro, quello a firma di Cesare
De Santis con mie introduzione e cura. Il buon Cesare: un vulcano
di insofferenza, uno che aveva molto sofferto ma che faceva bizze
incredibili. Furono mesi molto belli con lui e i suoi proverbi e
i suoi racconti. Una miniera grica tutta nei cassetti. Il libro
si finì subito. Millecinquecento copie. De Santis si faceva,
con su una panca, tutte le feste de lUnità e dellAvanti.
Litigava con tutti, anche con me, anche col sindaco che aveva speso
un sacco di soldi. E stato quello lunico libro che non
mi è costato. Povero Cesare, gli perdonavo tutto. Era espressione
del mondo magico contadino. E lui ricominciava».
«Conosco questo libro, Verri. E proprio attraverso esso
che ho saputo di te. E, per la verità, leggendolo, sentivo
come se ti avessi conosciuto da sempre. Forse tu non lo rammenti
più, ma ci fu una sera, il 28 novembre 1988, cioè
appena 7 giorni dopo lapertura del locale, che tu arrivasti
in osteria con alcuni tuoi amici per un incontro letterario. Con
te cerano Fernando Bevilacqua, il greco Costas Valetas, Gigi
Specchia, Giuseppe Tarantino, qualche altro amico del luogo, un
amministratore del Comune di nome Spagna. Alla fine della serata,
che io e mia moglie avevamo curato fin nei minimi particolari affinché
sulla tavola nulla mancasse, mi diceste che avevate mangiato e bevuto
bene. Ancora oggi sono orgoglioso di quella sera. Orgoglioso di
me, di Carmela, ma anche della nostra amicizia, Verri, nata in quel
momento come per incanto. Di quellindimenticabile incontro
cè anche una bella foto del Bevilacqua.
Tu, quella sera, non ti accorgesti di nulla, ma io non feci altro
che guardarti e ammirarti. Per me eri quello che aveva ridato vita
alle mie speranze di ex emigrante, che avevi avuto il coraggio di
pubblicare un libro con la mia lingua dentro: il grico della Grecìa
salentina. E poi avevo conosciuto personalmente Cesarino De Santis,
e quel suo libro, da te pubblicato, Col tempo e con la paglia (Storie
rimate e no di un poeta e di un paese), me lo sono letto e riletto
chissà quante volte. In un certo senso è il mio breviario.
La sua copertina, la ricordi Verri?, tutta bianca con le scritte
color seppia, si è oggi un po ingiallita, però
tiene ancora. Tu e Cesare dedicaste quel libro a Gerhard Rohlfs,
il grande studioso tedesco dei dialetti salentini, e a Stephanos
Lambrinos, anchegli docente presso luniversità
di Tübingen, e infine alla cara gente di Sternatia. Che libro,
Verri! Che gran libro! Con tutte quelle lettere di Rohlfs e Lambrinos.
Chi poteva mai sospettare che Cesarino De Santis, un contadino,
uno come noi, avesse tutta quella corrispondenza con personaggi
simili. Qui a Sternatia rimanemmo tutti a bocca aperta. Per la verità
ancora lo siamo. Verri, che cosa volete mangiare questa sera?».
«Mah!, fa un po tu. Gli amici che vengono sono un po
di palato buono. Per cui portaci un po di cose nostre, melanzane
lampagioni peperoni sottolio, un po di alicette marinate,
qualche cipollina allaceto, un po di olive nere salate,
un po di scapece se te la trovi, un po di arrosti della
brava Carmela, e infine il supratavola. Ovviamente il tutto innaffiato
di rosso, che non deve mai mancare».
«Va bene, va bene. Vedrò di fare del mio meglio, per
come potrò».
Intanto Gianni e Rocco De Santis, figli cari del saggio contadino
grico, suonano e cantano canzoni griche al ritmo dolcesalentino.
Per giungere nel retro osteria, occorreva attraversare un corridoio
largo e lungo scoperto, che luomo dei curli, Antonio Verri,
attraversava sempre con un suo modo di camminare tipicamente ondulante.
Guardandolo, francamente, veniva un po da ridere, ma nessuno
si permetteva di farlo, data la grande serietà che egli poneva
in tutte le sue cose, soprattutto quelle riguardanti il senso profondo
della vita. Dunque luomo dei curli, Antonio Verri, camminava
quasi sempre danzando. Poggiava prima un piede, e su di esso adagiava
poi il corpo grande e grosso come quello di un uomo-elefante. Passava
quindi allaltro piede ripetendo così lazione.
Alla fine ne veniva fuori una deambulazione ondulante, un salire
e scendere di un corpo ben fatto sì, ma che non riusciva
a stare sempre ben eretto. Molto tempo dopo che luomo dei
curli, Antonio Verri, era volato via in un posto magico fatato,
qualcuno disse che forse quel suo modo di camminare era dovuto alla
corea, una sorta di sofferenza che dà pure qualche dolore
alla nuca e alle articolazioni.
Luomo dei curli, Antonio Verri, dunque, attraversava il corridoio
largo e lungo del Mocambo con il suo passo coreutico per giungere
infine nelle due stanze del retro osteria. E stato sempre
un luogo ben pulito questo, raccolto e intimo, che subito, a chiunque
vi mettesse piede dava un senso di confidenza, di appartenenza atavica,
di sicurezza. Proprio quella che luomo dei curli, Antonio
Verri, cercava da sempre, da quando cioè aveva sentito forte
il battito profondo del cuore contadino di sua madre Filumena.
«Mamma», diceva luomo dei curli, Antonio Verri,
alla sua nonna-madre, «raccontami un racconto».
La vecchia raccoglitrice di olive nei campi e di culacchi in paese,
saggia e utile come il pane, lasciava le cose di casa, si sedeva
accanto al figlio e iniziava il suo racconto. Pochi i gesti, ma
fortissima lespressività del volto rotondo e bianco
come una pagnottella appena sfornata. Una volta luomo dei
curli, Antonio Verri, ascoltò una storia dalla bocca della
vecchia nonna-madre, che non volle assolutamente perdere dalla memoria.
Così se la annotò col titolo Il pane sotto la neve
(per Otranto, per occasioni).
Era una storia di cui si innamorò tanto. Gli piacque sempre,
fino al punto di pubblicarla (molto ampliata e ri-tagliando solo
qualcosa). Con ciò intese rendere omaggio ai suoi vecchi,
Filumena e Rafele, ma anche a sua moglie Licia, ed infine alle sue
radici antiche. Con questo libro, luomo dei curli, Antonio
Verri, volle fare letteratura, che per lui significava corteggiare,
avvicinarsi al romanzo. «Non può essere diversamente»,
diceva, «la poesia (che non è fuoco minore) la si lascia
per i brutti tempi, per le dolcezze, per le disperazioni, per gli
incanti. Il Pane è una summa di sapore, e non di sapere.
Scrittura contadina (tonfi e incanti a bizzeffe), ma che contiene
in ogni verso lo strazio del figlio che gira per altri inferni.
E nato dai racconti della nonna-madre (quanto bene fa al grano
la neve farinosa!) che... mi spronava, mi sprona ad uscire, a venir
fuori dal mio inferno. Amo la neve e le pigne e il miele. E il pane».
Il tavolo, ben aggiustato con tovaglia di carta bianca, bicchieri
capovolti ed un piccolo bouquet di fiori di campo, che luomo
dei curli, Antonio Verri, sceglieva per sé e i suoi amici
era sempre quello che stava giù, in fondo alla sala. A seconda
del numero degli amici, questo tavolo veniva allungato o allargato
dalloste grande e buono, che con movimenti rapidissimi, in
due minuti, cambiava la situazione.
«Va bene così, Verri?».
«Sì, Vito. Ma adesso abbiamo bisogno di bere. Ci porti
un po di rosso?».
Spesso, anzi sempre, sono i figli di Vito Maniglio, cioè
Vito Mocambo, cioè loste grande e buono,
che servono tavola. Il gioco delle pietanze è un rapido roteare
su se stessi delle figlie, le gemelle Florinda e Lea, due graziose
magnogreche che il vento ha portato nella terra tra i due mari.
Con loro corre e ruota anche Giorgio, il figlio alto e robusto delloste
grande e buono.
Luomo dei curli, Antonio Verri, beve il suo primo quartino
di rosso, accompagnandolo con un brindisi: «Alla salute di
tutti, signori e ... signore!». Svuota così un buon
mezzo bicchiere di rosso bauxitico.
Comincia poi a parlare di un suo vecchio progetto. Fare un quotidiano
per poeti e dei poeti: «I poeti non hanno voce», dice.
«E possibile fare questesperienza. Stampare qui
il giornale e divulgarlo almeno in alcune delle città più
importanti dItalia. E possibile pensare di farlo arrivare
anche in qualche capitale europea».
«Scusa, ma come pensi di stampare un quotidiano di poesia,
quando oggi la stessa poesia non la compra nessuno, neanche gli
stessi autori che se la scrivono?», interviene Aldo Bello,
il giornalista della Rai, tanto amato dai salentini, per via anche
di quella sua splendida creatura, la rivista Sudpuglia, edita dalla
banca omonima.
«Aldo, si può», risponde luomo dei curli,
Antonio Verri. «Ci sono un bel po di amici che lavorerebbero
a gratis per far riuscire il progetto. Ad esempio, per un primo
numero sperimentale, ha dato la sua disponibilità Francesco
Saverio Dòdaro. Ed altri ancora sono pronti a mettersi a
disposizione».
«Io so che se Antonio Verri si è messo in testa un
progetto, è inutile tergiversare. Troverà il modo
comunque di portarlo in porto. Ne so qualcosa io, che mi ha fatto
editare, con mia somma felicità, il periodico On board»,
si introduce nel dibattito Giovanni Pranzo Zaccaria, lamico
di Lecce grande e corpulento che domina la scena con la sua bella
camicia ed il profumo soffice e aereo che si porta dietro.
«Ma per la verità si tratta solo di una sperimentazione.
La prima esperienza di un Quotidiano dei poeti potrà durare
dieci dodici giorni. Non di più. Poi si vedrà».
E questa la risposta immediata delluomo dei curli, Antonio
Verri, che sta assaggiando dei fragranti panzerotti fritti caldi,
che loste grande e buono ha appena portato a tavola.
«Vito, sono proprio buoni questi panzerotti. Perché
non ce ne porti degli altri?», dice rivolto alloste,
che con un grembiule avvolto sulla pancia, adesso se la bea e se
la ride, perché sente degli apprezzamenti che si aspettava.
Daccordo sulla richiesta di nuovi panzerotti anche la candida
Ada Provenzano che, in silenzio, ascolta gli interventi dei commensali.
«Certo che lo faccio», risponde loste grande e
buono. «Arriveranno subito! Ve li mando con mia figlia Florinda,
fin tanto che io vi preparo un altro antipasto». E si allontana,
sorridente e cantilenando una vecchia canzone grica.
Luomo dei curli, Antonio Verri, al Mocambo arriva sempre stracarico
di cordialità, nonostante il suo corpo coreutico e qualche
doloretto alla nuca, che a nessuno fa mai pesare oppure sapere che
esiste. Quel dolore, ma anche laltro, quello forte e disperante,
il sapersi cioè terribilmente solo contro un mondo di cani,
sono lì a tormentarlo, a creargli il suo inferno quotidiano,
la sua disperazione urbana, il suo curvarsi su se stesso e torcersi
nello spasmo di un colpo di tosse mal riuscito. Luomo dei
curli, Antonio Verri, nasconde tutto ciò tirando fuori da
una tasca sempre piena di tante infinite cianfrusaglie, ma mai un
soldo vero, il pacchetto di sigarette, per poi estrarne una, accenderla
e fumarla sbirciando con locchio sbilenco chi sono i presenti
in quel momento nellosteria. Si accorge che cè
sempre qualche volto già visto, già conosciuto. Un
saluto affettuoso. E la solita frase rivolta alloste grande
e buono.
«Vito, ci beviamo un buon rosso, noi e questi amici?».
«Certo, Verri», la risposta pronta delloste, intento
ad aggiustare bicchieri e pietanze dietro al bancone.
Con questo inizio di serata luomo dei curli, Antonio Verri,
riesce sempre a trasfondere negli altri un buon umore. Con lui dentro,
il Mocambo eccezionalmente si anima di un clima magico fatato, un
po di festa e un po di manate amichevoli sulle spalle.
E sempre come stare tra vecchi amici, una sorta di cordata
legata dalla storia della vita, nella sofferenza di sapersi sperduti
in mezzo a due mari, in una «provincia difficile» (Giovanni
Bernardini permettendo) che si sa oltre la quale non è più
possibile andare. Una provincia di periferia, quella di Lecce, guardata
da unItalia che crede spocchiosamente di avere la testa pensante
a Milano Torino Venezia. Luomo dei curli, Antonio Verri, sa
tutto ciò. Per cui si è imposto di non andare più
via dal Salento. Ha già fatto una sua negativissima esperienza
di emigrante, nella Svizzera tedesca, a Zurigo. E di lì è
scappato, è tornato allovile con certi incanti, con
certe stramberie nella testa, ma convintissimo che non sarebbe andato
più via a dare nulla di sé al di fuori del suo ombelico
del mondo, la sua cara, tanto amata Caprarica di Lecce, terra di
capre e di caprifichi, che solo lui sa rintracciare.
Vito Maniglio, cioè Vito Mocambo, cioè loste
grande e buono, ha sempre servito di persona la bella compagnia
di Verri. Ad Ada Donno, vecchia cara amica delluomo dei curli,
Antonio Verri, che affettuosamente chiama Acqua del duemila,
alloste, una sera di un fine estate abbastanza torrido, disse:
«Mia moglie Carmela ed io abbiamo cucinato sempre a Verri
e ai suoi amici non come a dei normali clienti, ma come se fossero
dei conoscenti stretti, dei nostri parenti cari. Per Antonio poi,
abbiamo avuto attenzioni particolari, perché egli ha avuto
sempre una parola dolce per ognuno della mia famiglia. Egli sapeva
apprezzare col cuore le cose che noi cucinavamo. A volte si trattava
di pietanze semplici, cucinate alla contadina, come trippa con le
patate, o pezzetti di cavallo col peperoncino, o ancora fagiolini
bolliti e trattati con laceto. Antonio trovava sempre il modo
per dire una parola buona ed apprezzare questi piatti che non sono
reperibili presso un normale ristorante. Dopo avere assaggiato una
pietanza, Verri esclamava: «Ah!, che buono! Vito, comè
che sei riuscito a crearla?».
«Comprendo», era la risposta di Acqua del duemila.
«Le mie figlie», continuava poi loste grande e
buono, «lo adoravano segretamente e dicevano che era lui la
vera anima del Mocambo. Carmela, quando sapeva che al di là
dello stretto corridoio che collegava la prima stanza al retro bottega
cera lui con i suoi amici, si dava molto da fare sui carboni
accesi del camino a fianco del bancone. A volte si spellava le mani
dal fuoco e il suo viso si infervorava tutto. Ma era felicissima
di sapere che di là Antonio Verri le aveva indirizzato un
«Brava Carmela. Ottimi gli arrosti questa sera. Un premio
particolare alla seppia sulla brace, ma anche alla salsiccia al
profumo di timo di macchia mediterranea».
«Comprendo», annuiva Acqua del duemila,
rammentandosi che, quando a un tavolo del Mocambo capitava accanto
alluomo dei curli, Antonio Verri, tutta intenta e cerimoniosa
a mangiare uninsalata di radicchio rosso innaffiato col succo
di limone, doveva stare attenta a non venire investita da qualche
frattaglia di cibo che sempre sfuggiva alle mani del coreutico poeta
dalla difficile presa.
«Verri, a fine serata», è ancora il commento
delloste grande e buono, «non se ne andava mai senza
aver prima salutato affettuosamente mia moglie, le mie figlie e
mio figlio, il quale, anche lui, a modo suo, adorava Antonio. Non
dimentico e non dimenticherò mai il giorno in cui Gigi Specchia
ci portò la notizia dellincredibile incidente. Tutti
rimanemmo frastornati ed io andai a Caprarica di Lecce a dare lestremo
saluto allamico caro che se ne andava via da questo mondo
per sempre».
Una sera, luomo dei curli, Antonio Verri, si recò con
alcuni amici al vecchio Mocambo. Con lui cerano Aldo De Jaco,
Ennio Bonea, Antonio Errico, i fratelli Cosimo e Salvatore Colazzo,
qualche altro. Festeggiavano la pubblicazione di un libro. Il rituale,
piu o meno, è stato sempre lo stesso: luomo dei curli,
Antonio Verri, che telefonava alloste grande e buono, dicendogli:
«Vito, questa sera vengo con alcuni amici. Ci fai trovare
qualcosa di buono?»
Puntualmente arrivava. Il solito rituale del bancone e i saluti.
Poi andava al tavolo in fondo al retro bottega con chi dei suoi
amici era già arrivato.
Luomo dei curli, Antonio Verri, non voleva mai sapere prima
cosa cera da mangiare. Si affidava sempre alloste grande
e buono.
Appena seduto al suo solito posto di capo tavola, diceva: «Vito,
portaci quello che hai».
«Pasta fatta in casa e polpette di carne di cavallo fritte
al sapore di menta fresca», era spesso la risposta delloste
grande e buono.
Gli amici cominciavano a mangiare in silenzio. Ognuno pensava ai
propri inferni, quando, nel bel mezzo della serata, Antonio Errico
esclamava: «Verri, ma che succede questa sera? Stiamo festeggiando
la pubblicazione di un libro oppure ci siamo riuniti qui solo a
gozzovigliare? Ma ascoltiamo almeno un po di musica».
Luomo dei curli, Antonio Verri, non se lo faceva dire due
volte, e rivolgendosi alloste grande e buono, esclamava: «Vito,
sai sei lUccio cè?».
Vito Maniglio, cioè Vito Mocambo, cioè
loste grande e buono, si avvicinava allora alla parete in
fondo alla sala, quella più vicina agli ospiti e con la mano
faceva toc toc sulla stessa. Appena qualche minuto e subito, da
una porticina su di un lato della parete, appariva il piccolo triste
uomo con la fisarmonica in mano. Era Antonio Sbro, Uccio per gli
amici, un ex carcerato per una storia damore finita male con
un morto ammazzato.
Uccio non amava parlare di quel brutto fatto di sangue, accaduto
due decenni prima. A bastonate aveva ammazzato il marito dellamante.
In paese cerano state sempre diverse versioni su questo delitto.
Comunque, per questo delitto, Uccio Sbro si era fatto pieni pieni
ventanni di carcere. Poi aveva riottenuto la libertà
a causa del suo cattivo stato di salute. Viveva di quel poco che
lo Stato gli passava, appena per comprare un pezzo di pane, e di
qualcosina che amici e parenti gli passavano per compassione. Luomo
dei curli, Antonio Verri, conosceva bene la storia di Uccio Sbro,
anzi, per la verità, conosceva la versione giusta di quel
fatto di sangue che aveva coinvolto quel suo amico sternatese. Per
cui, quando capitava di trovarsi al Mocambo, trovava sempre il modo
per far uscire dalla porticina in fondo alla parete lomino
dagli occhi melanconici e con la fisarmonica a tracolla.
«Uccio, suonaci e cantaci qualcosa!», diceva luomo
dei curli, Antonio Verri.
«Vi canto la canzone Lu carcire te Lecce», rispondeva
Antonio Sbro. «Poi vi racconterò la storia di come
si vive solo abbandonato in una cella amara del penitenziario di
Lecce, i Bo bo».
Così luomo triste e sconsolato cominciava a narrare
storie e culacchi avendo per compagne la vecchia fisarmonica e la
sua vocina non sempre tanto intonata.
Luomo dei curli, Antonio Verri, ascoltava silenzioso. Voleva
che anche gli altri amici ascoltassero la triste storia di quelluomo
sfortunato. Poi, alla fine della serata, si alzava dal suo solito
posto e faceva come una sorta di questua tra gli amici ma anche
tra coloro che in quel momento si trovavano nella locanda. Per il
buon Uccio, che viveva anche di quei pochi soldini, luomo
dei curli, Antonio Verri, faceva la questua.
«Uccio, prendi, questa sera è andata così. Unaltra
volta andrà meglio. Così ti puoi comprare un po
di carne per ingrassare e mettere un po di pancia, perché
ti vedo ancora magro», gli diceva luomo dei curli, Antonio
Verri.
«Grazie, Antonio, grazie. Lu Signore cu te bbenedica»,
era sempre la risposta delluomo triste e sfortunato. Che aggiungeva:
«Posso mangiare qualcosa di quello che avete lasciato nei
vostri piatti?».
«Sì, ma certo», rispondeva luomo dei curli,
Antonio Verri, che avrebbe voluto ridere con la sua bocca alquanto
sdentata. Però non faceva mai in tempo a mettere a disposizione
un posto a tavola, che già loste grande e buono del
Mocambo era arrivato sulla situazione con in mano un buon piatto
di formaggi tagliati freschi per il buon Uccio Sbro. Che nuovamente
dava fiato alla sua fisarmonica:
«Ntunuccio stia a llu lettu pe malatu / e bbera de core
la soa malatia. / Quannu la sippe la soa nnamurata / tutta se mise
de malincunia. / Malinconicu core allegru mai / e cacciala fore
sta malincunia.../ E cacciala fore sta malincunia... / Comu la pozzu
cacciare si già lu sai / e quannu nu core avia lu tiesi a
voi. / E quannu nu core avia lu tiesi a voi. / Lu tiesi a dhu carusieddhu
paru meu / critennu ca era amata e me ngannai. / Critennu
ca era amata e me ngannai».
Forse stava tutta dentro il senso di questa vecchia canzone popolare
salentina la vera storia di Antonio Sbro, detto Uccio per gli amici,
che una mattina presto, ancora alba, se ne partì da questo
mondo senza dire nulla a nessuno.
Il vecchio Mocambo del centro storico di Sternatia sono ormai anni
che non esiste più. Esiste però un nuovo Mocambo,
appena fuori le mura del paesello che diede i natali a Cesare De
Santis e Uccio Sbro. E sempre Vito Maniglio, loste grande
e buono che lo gestisce con sua moglie Carmela Sabato e i suoi figli
Florinda, Lea e Giorgio.
Oggi cè un grande via vai dai tavoli di questo nuovo
vecchio locale. Gente del sud ed anche del nord che
si recano volentieri a gustare le buone pietanze salentine offerte
con semplicità, simpatia e tanto calore umano. E il prezzo
poi, da Vito Mocambo, è sempre alla portata di tutte le tasche.
Non si rischia mai di fare brutta figura.
Chiunque arriva al Mocambo non può però non fare lincontro
particolare con il grande spirito delluomo dei curli, Antonio
Verri, che sempre, giorno e notte, aleggia sui tavoli e sulle pareti
del locale.
Nellestate 2000 capitò al Mocambo lo zallo salentino,
che aveva sentito parlare di quel grande spirito. Per cui, tra un
antipasto ai frutti di mare e un buon piatto di peperoni e melanzane
fritte, chiese alloste grande e buono di avere spiegato il
senso dello spirito che nel locale aleggiava. Vito Maniglio, cioè
Vito Mocambo, cioè loste grande e buono gli portò
un buon bicchierino di grappa ben distillata, uno anche per se stesso,
e disse: «Vedi, egregio signore, lo spirito delluomo
dei curli, Antonio Verri, in primo luogo sta dentro questo bicchierino
che io ora vado a bere. Per cui bevendolo, in un certo senso, introietto
anche un po di quella grande anima del buon Verri. E poi,
egregio signore, non vede quanto estesa sia la sua presenza. Dia
uno sguardo più attento alle pareti del locale. Io le posso
dare una mano a leggerle. Vede, partiamo da questa parete qui, sulla
mia sinistra. Che cè? Cè una bella foto
della splendida Marilen Monroe con le bellissime gambe tutte di
fuori. Era la foto molto amata dalluomo dei curli, Antonio
Verri. Poi vede un tamburello, che io ho messo lì perché
so che al grande spirito sempre piaceva ascoltare il ritmo degli
strumenti salentini, e il tamburo per noi è lo strumento
principe nella danza della taranta. Vede ancora la foto di un grande
artista amico del Verri, Umberto Palamà, mentre si accinge
a oltrepassare la sua porta sfondata che altro non è che
la cornice di un quadro il cui contenuto è ormai caduto ed
è rimasta appunto la cornice che ora lartista oltrepassa
con la sua stessa persona. Vede poi la splendida colombella che
Gigi Specchia fece per una manifestazione per la pace. Alcuni dicono
che in quella colombella ci sia lo spirito delluomo dei curli,
Antonio Verri. Cè poi la foto formato gigante della
pagellina funebre del Verri, firmata Fernando Bevilacqua, ma qui
sono molte altre le foto con questa stessa firma.Vede poi unaltra
bella foto: lo scultore Armando Marrocco, il suo amico Masciullo
e la faccia scolpita del Verri. Altre due foto collettive con Verri
al centro e tanti amici. La splendida foto del 28 novembre 1988
col greco Costas Valetas e altri. La foto con Aldo Bello, Antonio
Errico, Bruno Brancher ed altri ancora. Lopera, bellissima,
di Caterina Gerardi e Mauro Marino, dal titolo La lingua del corpo
n. 8, dedicata ad Antonio Verri. Laltra straordinaria immagine,
a me molto cara: quella che ritrae luomo dei curli, Antonio
Verri, con in mano il manifesto Fate fogli di poesia poeti, con
lui che attraversa la cornice della porta sfondata dello stesso
Palamà. Stranamente vedo quella foto e mi sembra di rivederlo
attraversare il corridoio di comunicazione del vecchio Mocambo,
che risuona della sua voce che per me non si spegne mai. Vede poi
che cè quella grande pittura ad olio: è opera
di Pasquale Pitardi e Guglielmo Scozzi, due pittori che lhanno
dedicata a Verri. E splendida, no? Non mi dica di no! Su quellaltra
foto sono raffigurati i fratelli Gianni e Rocco De Santis che suonano
e cantano. A quellangolo, come vede, cè una bibliotechina
di libri, tra i quali fa bella figura la sua Betissa. Storia composita
delluomo dei curli e di una grassa signora; lo splendido libro
di Salvatore Toma, Forse ci siamo; il suo Pane; cè
poi Anni estivi di Enzo Panareo e il suo splendido Il naviglio innocente;
cè il mascherone di Giuseppe Conte, Luna
alle volte; il libro di Luigi Chiriatti, Come fece, come non fece...;
cè il suo insuperabile Il fabbricante di armonia Antonio
Galateo, e ancora Le carte del Saraceno. Progetti e visualità
della regione Salento; ed altro ancora. Io la rifornisco continuamente
questa bibliotechina, perché capita spesso che qualche cliente
si innamori di un libro e allora me lo porta via. Quando io mi accorgo,
non mi prendo poi tanta pena, perché chi ha fatto quel gesto
lo ha sicuramente fatto per amore del libro, di un qualcosa che
sta in esso e che egli vuole sapere. Mi preoccupo allora di trovare
il modo per rimpiazzarlo. Vede poi cè un altro quadro
dipinto: si tratta di una pittura di Alfredo Chironi, che così
ha voluto interpretare uno dei libri più importanti del Verri,
I trofei della città di Guisnes. Cè poi la forma
di una nottula salentina, a cui Verri teneva. Infine cè
il ritratto del grande Chaplin nelle vesti del Charlot de Il vagabondo.
Alluomo dei curli, Antonio Verri, Charlot piaceva».
«Ma non le sembra che lei abbia un tantino esagerato con questo
Verri?», interviene lo zallo salentino.
Vito Maniglio, cioè Vito Mocambo, cioè loste
grande e buono si fa rosso rosso in viso, si alza dal posto che
occupa, fa per dire una frase sconcia allo zoticone, quando sente
che la porta dingresso del nuovo vecchio Mocambo
si apre e sulla porta appare la maestosa figura di un uomo con una
foltissima barba nera sul volto, un occhio sbilenco che naviga da
solo nelloceano della cornea, le grandi mani sempre in movimento
e unandatura tipicamente coreutica.
«Antonio?!».
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