Giugno 2002

DAI REAMI DI BISANZIO E DEI BORBONI

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La “tristezza d’oro”
nell’arte di Ferraro
Gino Pisanò
 
 

 

 

 

Tensione
nostalgica verso una terra solare
e rugosa,
magnogreca,
messapica,
“borbonica” come la luna di Bodini, assente, ma non per sua vocazione, dalla storia...

  Sul crinale dei rapporti culturali intercorsi fra Salento e Napoli nell’ambito del Novecento, si distingue un cospicuo contributo di Vittorio Pagano al periodico partenopeo “L’approdo del Sud” di Mario Moles. Contributo ancor più significativo ove si pensi che a far da tramite fra i due luoghi maggiormente rappresentativi dell’esperienza artistica e letteraria del Mezzogiorno peninsulare era un artista (scultore-pittore) oggi dimenticato, Giuseppe Ferraro (Castrignano del Capo 1902-Genova 1966), leccese-novolese d’adozione, testimone delle vicende storico-culturali di Terra d’Otranto comprese nel periodo 1923-1966, ossia fra l’esordio di “Fede”, la rivista di Pietro Marti, e la chiusura del “Critone” di Vittorio Pagano. Il quale, pur frequentando e ammirando Vincenzo Ciardo, il maggiore e più noto fra i salentini di ascendenza artistica partenopea, volle assumere in Pittura e scultura di Pippi Ferraro (un lungo articolo apparso sul citato “Approdo” nel marzo 1954, a. II, n. 10-11, pp. 1-4) proprio l’attività creativa di quest’ultimo a segno di un nuovo corso storico, nonché di un’antropologia culturale che aveva ormai «in una sorta di appassionato mitologismo caratteristico della gente del Sud» le sue più recenti e «necessarie» motivazioni.
Ferraro, che aveva studiato a Napoli, nel Regio Istituto d’arte, dove si era trasferito dopo il leccese discepolato nell’omonima scuola, appariva a Pagano come uno dei più emblematici rappresentanti di una generazione (iuniore rispetto a quella dei precursori e maestri Vincenzo Ciardo, Geremia Re, Antonio D’Andrea) che, riguardo alle arti figurative del secondo dopoguerra, ne lastricava di nuove ideologie e di nuovi linguaggi il sentiero, in un clima di universale rinnovamento e di riesplose passioni civili. Scriveva, infatti:

L’avvenuto risveglio […] può già condurre a una precisa individuazione di valori, può già comporsi in un quadro storico-critico di puntualissima rispondenza e rappresentatività. Risentito nelle varie esperienze del tonalismo, dell’impressionismo, dell’astrattismo, dell’espressionismo, del cubismo, del realismo […], per esempio, il paesaggio salentino
risulta del tutto sottratto «alla convenzionalità generica e scolastica del cartolinismo di prima». Ebbene, aggiungeva Pagano, «Pippi Ferraro, pittore-scultore, è a questi effetti che ci va interessando», e rimarcava quanto segue:


Egli conta quarant’anni di lavoro (fin dall’adolescenza) ed ora ci induce ad affermare che il suo tirocinio è stato lungo e paziente. Ma, intendiamoci, lungo e paziente, solo se consideriamo come più valida e significativa la fase attuale in cui lo si trova. Infatti, c’è chi lo giudica maturo e formato da un bel pezzo, da quando le sue statue (specialmente i busti) cominciarono a imporsi in virtù d’una severa e disciplinata impostazione, d’una classica olimpicità, d’una sempre espertissima tecnica […]. Siamo noi, personalmente, a preferire l’ultimo Ferraro […] per essersi deciso ad una ricerca come quella dianzi [v. supra: il «risveglio»] messa a fuoco e che ci preme al momento più d’ogni altra cosa […] per ragioni extrartistiche o comunque collaterali all’arte, ma importanti, tremendamente importanti, per la rinascita e la vita della più mortificata terra d’Italia [scil. il Salento].

Vero è che il Ferraro aveva esordito come scultore negli anni Venti del Novecento (la sua prima opera “ufficiale” data 1923) ottenendo notevoli consensi di critica e di pubblico nel decennio successivo. Furono, dunque, gli anni ruggenti del Fascismo quelli che ne consacrarono la fama sottesa a moduli espressivi tardo-decò, influenzati dalla maniera bortoniana, intrisi di intenti celebrativi legati alle occasioni (memorialismo, biografismo, attivismo, decorativismo, calligrafismo le coordinate che ispiravano la selezione dei soggetti rappresentati), oppure a una committenza borghese e nazionalpopolare, al punto che Bottai in persona volle “scoprire” il busto di Mario Nacci, realizzato da Ferraro nel 1940-41, allorché, dopo il matrimonio con la gallipolina Gelsomina Spano, questi si era trasferito a Supersano, quindi a Novoli dove soggiornò fino all’ultimo tempo di sua vita e dove visse anche l’unico suo figlio, Ippazio, che ne conservò inconcussa e pietosa memoria.
In questa prima stagione, compresa fra il 1923 e il 1945, Ferraro opera intensamente: busti, statue, monumenti funebri ne costituiscono il repertorio ufficiale. Attività frenetica, conciliata, poi, con la docenza presso la Scuola d’arte a Lecce, quindi a Galatina (al “G. Toma”), infine a Lecce dove insegnò Discipline plastiche e progettazione ceramica fino al 1965. E fu, forse, la contiguità alla cultura letteraria leccese e ai suoi fermenti novatori, emersi da “Libera voce”, da “L’esperienza poetica”, dal “Campo”, dal “Critone” e da altri fogli come la “Voce del Sud” di Ernesto Alvino o “La zagaglia” ad orientare Giuseppe Ferraro verso nuove esperienze tecnico-formali-ideologiche.
Anche se di questa temperie non restano tracce documentali ad avvalorare le ragioni della evoluzione espressiva di Ferraro a partire dal 1945 (mancano i carteggi, né potevano esserci, data la comune appartenenza, dell’artista e dei suoi interlocutori, a un medesimo territorio) comunque essa evoluzione rimane un fatto concreto e storicamente documentabile. La scansione critica di Pagano, ossia il riferimento a un prima (il “tirocinio” anni Trenta) e a un dopo (la produzione ferrariana anni Cinquanta), la stessa, entusiastica attenzione del poeta dei Privilegi al nuovo corso dell’amico pittore-scultore autorizzano una chiave di lettura in questo senso.

Una conferma ulteriore ci viene dalla esplosiva, improvvisa scelta di campo, fatta da Ferraro, a partire dal 1946 (bisettrice che apre il “secondo” tempo), ossia quella di esperire un nuovo spazio creativo: la pittura. Esperienza, questa, che vieppiù lo soggiogava tormentandolo, fino all’ossessione, quasi che egli vi avesse scoperto una via più intimistica, più duttile, più autenticamente speculare all’insorgere di remote, inattinte, misteriose risonanze esistenziali che lo proiettavano nelle plaghe ancestrali e oscure della memoria mitica e primordiale di antica matrice leucadia, organizzata intorno a figure, a paesaggi, a stagioni che assumevano in lui fattezze di mitici lemuri o di indistinte e perdute radici.
Tutto cospirava alla palingenesi dell’uomo e dell’artista. Le sue solitudini, i suoi umori sospesi fra cupe, segrete, impenetrabili ombre da un lato e luci improvvise, dall’altro, per balenanti impennate, giocose o polemiche, semantizzavano il novello disagio dell’io, sorpreso dalla storia e dai tempi nei suoi attardati compiacimenti formali (la verosimiglianza, la classicità, la composta perfezione del “finito”), ma già proiettato nei gorghi del “non-finito”, dell’espressionismo liricamente risentito e proposto, del soggettivismo ancorato a suggestioni proustiane, mistico-decadenti (fauvismo, cubismo, surrealismo), nonché alla bergsoniana percezione dei dati immediati della coscienza. Donde la spasmodica, inesausta, torrentizia vena creativa che si materializzava nel colore, proteiforme, infinito strumento di epifania, ma anche, per lui, nuovo terreno di scavo, di indagine, di esperienza, in quanto materia “vitale” destinata a subire pazientemente le impronte accorate, inquiete e dolenti di un’anima che nel cromatismo riversava, significandole, le proprie, inappagate, sofferte ricerche di luce e di senso.
Insomma, il tormento dell’io si rinverginava sorvegliato e trasfuso nell’accanito tormento delle forme e del segno, il quale vieppiù drammatico, mosso, vibrante dava vita a espressioni dinamizzate nei gesti, negli sguardi, nei rilievi dei volti o delle figure olosome di ppòppeti che in questa fase popolano il suo repertorio.
Anche la scultura, mi sembra, risente in misura notevole dei benèfici influssi della ricerca pittorica, coloristica, figurativa. Volti rugosi di ascendenza georgica, terragna, veterosalentina, “maternità” sofferte e dolenti di umana sacertà o arcane muliebrità per orientali, “bizantine”, brune fattezze messapiche, direi, e perciò millenarie per l’acronia categoriale che le sussume insieme con la terra di loro onirica referenza, scenari paesistici idillico-tragici (assente ogni traccia di calligrafismo) racchiudono ormai l’ossimorica, contrastata, dialettica dimensione interiore del “nuovo” Ferraro. Il suo isolamento, il suo istintivo, non letterario né consapevolmente assimilato accostamento alle voci della cultura militante, insomma il superamento dell’antica stagione realistica e “ornamentale” sono ora il segno della dimensione interiore che lo insidia fino alla nevrosi, da intendere come agonismo esasperato fra l’artista e la materia della sua arte.
Tensioni culturali (neorealismo, bodinismo, astrattismo, sociologismo), tempi nuovi (democrazia, liberalismo, socialismo), umori personali (distanza austera e sdegnosa dal clientelismo, dal servilismo, dall’ovazione conformistica al nuovo costume politico della “recente” repubblica), dissapori e conflitti sul versante della professione didattica, ripiegamenti interiori, nostalgici di purezza per insularità di memorie e di piccole patrie (Castrignano, Leuca) perdute a fronte della nuova dimora cittadina e metropolitana giustificano codesta sua risemantizzata concezione dell’arte come tormento e non ornamento.
A ben focalizzare la metamorfosi di Ferraro, o meglio la recente maturità emersa fra il 1946 e il 1960, intrinseca al secondo tempo della sua produzione, soccorre un luminoso articolo di Luigi Manna pubblicato, di spalla, nella prima pagina de “L’approdo del Sud” e giustapposto al contributo di Vittorio Pagano:

[…] Risalta subito […] un taglio netto, una cesura profonda fra i due tempi del suo lavoro di scultore. La sua prima esperienza, il suo, se preferite, tirocinio di artista è tutto teso ad inseguire […] i moduli classici; a fermare nella creta i solidi e fermi volumi di una ritrattistica verosimiglianza. Egli […] cerca […] nella fedeltà al modello, nella intima aderenza alla viva espressività del soggetto, nella perfezione assoluta dei contorni, una meta esemplare da prefiggersi e raggiungere. Ma come in tutti gli artisti più vigili e coscienti, che della propria esperienza fanno costante itinerario alla ricerca di se stessi, quando una meta è raggiunta, sopravviene, lungamente covato o improvviso, il tedio della maniera acquisita […], Ferraro maturava una diversione dei suoi moduli classici […]. Così una nuova, più ricca polla di motivi […] urge alla fantasia. Essi si affollano nella sua mente e pretendono di venire alla luce, di concretarsi nell’arte.

Ed ecco l’assillante inchiesta tecnico-sperimentale dei primi anni Cinquanta, l’anelito convulsamente avvertito di adeguare spiriti e forme, il furor espressivo di turbamenti fino ad allora inattinti e adesso febbrili, semantici di una nuova giovinezza interiore. A Ferraro, la mano che plasma o lo scalpello che “toglie” non bastavano più a “raccontare” le infere geografie delle dimore vitali, «a lui occorreva il gioco delle luci e delle gamme cromatiche, la fluidità del segno e l’allucinata geometria dei piani prospettici, sì che dipingere gli è poi diventato un integrare, un risolvere lo scolpire, un appagare l’ansia nuova e prepotente» (V. Pagano).

Il risultato plastico cede il passo all’effetto dinamico della soluzione coloristica, vibrante, che non fissa l’istante, ma lo prolunga replicandolo nella prospettiva e nel gioco delle linee cromatiche o del disegno mosso e chiaroscurato talché «noi vediamo come dipinti anche i bianchi e neri che dovrebbero chiamarsi praticamente disegni […], ma la cui pastosa morbidezza, la cui radente illuminazione è così fatta da stemperarli in un colore senza colori, nel colore del Salento […]: gialli, neri, verdi, viola e grigi si sprigionano [nei dipinti] in funzione dei bianchi […] e vi attingono pace e brivido, sostanza e inconsistenza, vigore e annientamento nella scansione d’un idillio tragico che può ben rendere la qualità dell’epos di questo Sud […], specchio trasfigurante […] il mondo e l’anima salentina».
Questo il giudizio di Pagano, che mi sento di condividere non da critico d’arte (ché tale non sono, né potrei essere), ma da semplice “lettore” del segno (letterario, artistico, pragmatico che sia) nell’ordine della comunicazione non verbale, ossia di quell’intricato sistema di segni che rimanda all’uomo-individuo epperò interno alla polis, alla società epocale, alla storia di sua appartenenza. Il testo (scritto o figurato) non è che un tramite per attingere il sisma di un’anima. E l’anima del poeta o pittore (ut pictura poesis) si offre più di altre a segno di verità (in chi crea) e di conoscenza in chi interpreta e ne risillaba il fondo oscuro e, a prima vista, impenetrabile. Tale il gioco fra l’artista e il suo ‘lettore’. In questa luce vanno lette, dunque, queste mie impressioni che non presumono di quantificare la misura del valore dell’arte di Giuseppe Ferraro cui altri, a lui più vicini, espressero consensi di umana simpatia e di critica tecnicamente consapevole.
E mi riferisco alla “fortuna” che Ferraro sperimentò presso intellettuali e critici a lui contemporanei. Ernesto Alvino (di cui fu sodale nelle atmosfere intriganti e raffinate dell’omonimo “Caffè” leccese): «Pippi Ferraro ha raggiunto uno stile unitario e un linguaggio così inconfondibile da metterci in condizione di individuare un suo lavoro anche alla lontana». Gli articoli d’ora in poi citati non sono corredati di data e pagina della stampa periodica che li ospitò perché gli originali non sono stati ritrovati nell’archivio della famiglia Ferraro. I passi qui riportati sono tratti da microcataloghi di corredo ad alcune mostre realizzate in vita dallo stesso Ferraro, in particolare dal fascicolo Dipinti di Pippi Ferraro, a cura dell’Accademia salentina di lettere scienze ed arti di Lecce, per l’esposizione di quaranta opere dell’artista nel salone del leccese Circolo cittadino, il 19 giugno 1958, pp. 5-11. Giuseppe Pensabene (“Secolo d’Italia”): «[…] Pippi Ferraro del Capo di Leuca […] nei suoi paesaggi, nei suoi ritratti e soprattutto nei suoi bellissimi fiori rievoca l’esuberanza e il mistero […]. Tutto in un’atmosfera cupa e calda […] densa e pastosa […]. Niente che ricordi neppure lontanamente un’arte già realizzata, ma una interpretazione nuova». Nuances fatte, dunque, di colori cupi, smorzati, intensi e speculari al nuovo stato d’animo del pittore neofita, convertito al colore che riscalda la sua tensione nostalgica verso una terra solare e rugosa, magnogreca, messapica, “borbonica” come la luna di Bodini, assente (ma non per sua vocazione) dalla storia fatta da altri, eppure gravida di sofferenza e di antica umanità nei suoi segni iconici, antropologici, paesistici dei quali i volti rugosi e terragni simbolizzano il trascorrere lento e uguale dei secoli e dei millenni.
Una terra che oggi non c’è più, ma che vive solo nell’arte e nel canto dei suoi figli migliori, come il Ferraro e altri più grandi di lui. E di «arcaismo», di «intense, dorate tonalità» semantiche di un procedere à rebours nelle retrovie della memoria edenica, dalla «calda, silente atmosfera di antica umanità» v’è traccia nella lettura critica di uomini che non conoscevano il Salento, come Bruno Morini (“Giornale d’Italia”), ma ne coglievano l’anima attraverso la pittura del nostro. Si aggiungano Giuseppe Rosati (“Il Tempo”: «colori densi […] composizioni di arcaica fissità e stupori infantili di fiaba […], smorzato il fulgore cromatico») e i nostri, eccellenti, Carlo Barbieri («E’ un solitario, al quale è difficile trovar parentela pur nell’ambito della sua regione», “Il Mattino” e, ancora, «taluni paesaggi risentono del giottismo attraverso l’interpretazione di Carrà», intervista rilasciata alla RAI), Fernando Manno, elzevirista non comune («la pittura di Ferraro plasticizza […] figure aggruppate in cadenze lineari […], attonite e inerti in una pensosità antica e perplessa […]. Una filigrana d’oro antico divide i gruppi compositivi che le accomunano. E’ un balenio fosforico, come di gioielli antichi» in “Cinzia”), Nullo D’Amato («[…] E’ in questo operare per sensibilità versato senza richiami a correnti o accostamenti a maestri che traspare la proposizione pittorica» di Giuseppe Ferraro, in “Voce del Sud”).

E ancora, Valerio Mariani (RAI): «nella pittura di Pippi Ferraro c’è un fondo atavico, popolaresco, orientalizzante; la materia pittorica è affine all’encausto, i colori sono sempre immersi in un fondo aureo, bizantino»; Paolo Ricci (“l’Unità”): «[…] originale elaborazione […] quando egli affronta il paesaggio autentico del suo paese e le atmosfere sospese e calde della terra pugliese»; Romeo Roncali, (in “Le tout Rome”): «Disoccupati, fiori, ulivi e figure del Salento, case e mucche impastate di ocra e luce […]; il pittore ha incontrato i suoi personaggi in un limbo, che non è cielo, né terra, dove tutto è patetico senza dramma, misterioso senza angoscia. Con questa mostra Pippi Ferraro ha conquistato Roma»; Franco Paolo Catalano (in “Auditorium”): «[…] lo sfondo è arcaico, bizantineggiante, a mosaico quasi. Il tono principale è il rosso dorato con accordi in blu, giallo, verde eccetera»; Renzo D’Andrea (“Roma”): «[…] la pittura di Pippi Ferraro ha un certo accostamento alla pittura bizantina […] nelle espressioni ieratiche delle immagini e specialmente dei volti femminili, nei contrasti delle tinte […], nell’assenza – ancora – di quella parte classica della linea che contorna la figura, delimitata, invece, da una pennellata rude e spontanea»; A.T. Prete (“La voce” del marzo 1958): «La malta cromatica è pertanto da considerarsi un ritrovato tutto di Pippi Ferraro che ne resta ideatore ed abilissimo esecutore […] facendo esulare la sua arte dal ristretto campo provinciale»; Franco Miele (“La Giustizia”): «[…] una materia densa, a volte addirittura cupa, caratterizza queste creazioni ove un primitivismo di sapore quasi bizantino affiora […] da uno ieratico senso delle cose che spinge l’artista a riportare in un clima arcaico atteggiamenti umani e descrizioni di natura»; Giuseppe Russo (“L’uomo qualunque”): «[…] le sue composizioni nascono quasi da un clima spontaneo di sapore bizantino, saturo di sensibilità, di accorgimenti, di intelligente studio»; Raffaello Leccisi (in “Libera arte”): «[…] travaglio che, attraverso molteplici esperienze, lo ha portato alla graduale affermazione di una personalità pittorica inconfondibile»; e, infine, omettendo altri, Giacomo Etna (dal “Giornale del Mezzogiorno”) il cui giudizio qui si riporta integralmente:

Le immagini dalla linea flautata si staccano da fondali crepuscolari con una dolcezza di Madonna riportandoci alle icone che costellano le strade del Tavoliere e delle Murge. I paesaggi popolati di ulivi e di armenti ci riportano pure a quelle strade con un sapore arcaico, una poesia che sconfina nei miti del Levante con la sua malinconia, quella “tristezza d’oro” a cui fa cenno il Manno, che hanno i mosaici di Santa Sofia nello splendore decadente di Bisanzio.
E di questo «splendore decadente» Ferraro inconsapevolmente, credo, sente l’ultima traccia nella sua terra (il Salento) e nell’anima, dove la solarità mediterranea del paesaggio si copula con oscure sensazioni di dolore e di morte.
Emergono, dunque, per corale, concorde ammissione, tutte le isobare dell’arte di Ferraro: arcaismo, bizantinismo, ieratismo, primitivismo, giottismo che temperano in chiave onirico-simbolica il “realismo sociale”, diffuso in quegli anni da artisti come Migneco, Guttuso, Levi, Geremia Re e altri. Chiave originale, cui somministrano alimento sia l’urgenza espressiva dei turbamenti emotivi, sia l’indole pensosa, ribelle, impaziente dell’autore, sia, infine, la distanza da ogni “scuola” epocale, sicché nell’arte di Ferraro «non c’è niente di meditato e riflesso, nessuna “esperienza”, nel senso corrente, di letture e vagabondaggi grammaticali e stilistici» (F. Manno). Una cifra, dunque, tutta sua, elementare per inopia di orpelli e di prestiti, immediata epperò perplessa, ossia risentita e ridiscussa continuamente dalla coscienza scoscesa d’artista che cerca un filo tutto suo da dipanare e poi avvolgere, da trasferire, insomma, dall’inconscio, dalla “memoria involontaria” alle forme. Istinto e tecnica con prevalenza (mi sembra) del primo elemento sul secondo per certa immediatezza di tratteggi e di linee cui non fa velo il ricercato effetto del colore rossastro e terragno nella sua fondamentale parvenza.

E codesto suo “giottismo”, trapunto di primitivismo, tradiva un sentimento tragico della vita che lo indusse nell’ultimo e più succinto tempo della sua arte (il “terzo”, compreso fra il 1960 e il 1966) a sentirsi inappagato fino al cupio dissolvi che si manifestava (lo dicono i familiari) nella distruzione-devastazione impetuosa degli ultimi suoi manufatti (pitture e sculture). Era forse il tedio che nasceva dal superamento dell’esperienza pregressa, dal rifiuto di manierare, indugiandovi sopra, cifre cromatiche e prospettiche, soggetti, figure olosome o soltanto i volti. Si riducevano le mostre, un tempo febbrilmente allestite in ogni parte d’Italia (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1953; Lecce 1954-55-56-57; Napoli, 1957; Taranto 1958 e, nello stesso anno, Roma, ecc.) ma restavano, tuttavia, numerose (1961: Novara, Milano “Verritre”, Pescara, Chieti; 1962: Lecce, Bari; 1963: Bari; 1965: Zurigo, Sanremo). Si susseguivano i premi, i riconoscimenti, le committenze. Si consolidavano antiche e nuove corrispondenze intellettuali (fra il 1946 e il 1966 ricordiamo quelle con Antonio D’Andrea, Nullo D’Amato, Raffaele Spizzico e poi Orfeo Tamburi, Domenico Purificato, Remo Brindisi, Cesare Pani fino ai più giovani Lino Suppressa e Lionello Mandorino), si incrementava il successo nazionale, per l’ampio, diffuso consenso, epperò crescevano simmetricamente l’isolamento esistenziale, il malumore, i sintomi ominosi del male che ne cagionò la morte.
In parallelo, si incupiva il segno sotto la specie del colore, sempre più denso e direi quasi monocromo, si affacciavano soggetti cristologici e mariani, urgeva il furore autodistruttivo fino alla devastazione da lui compiuta del suo studio (testimone sgomenta la nuora, Lina). Poi, il calvario… Genova. E l’addio muto delle sue statue, dei suoi dipinti, non meno assorto e dolente di quello dei suoi cari che lo hanno ricordato nel centenario della nascita insieme con la città di Lecce, (11-26 maggio 2002), nella splendida cornice del Convento dei Teatini.

   
   
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