Tensione
nostalgica verso una terra solare
e rugosa,
magnogreca,
messapica,
borbonica come la luna di Bodini, assente, ma non per
sua vocazione, dalla storia...
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Sul crinale dei rapporti culturali
intercorsi fra Salento e Napoli nellambito del Novecento, si
distingue un cospicuo contributo di Vittorio Pagano al periodico partenopeo
Lapprodo del Sud di Mario Moles. Contributo ancor
più significativo ove si pensi che a far da tramite fra i due
luoghi maggiormente rappresentativi dellesperienza artistica
e letteraria del Mezzogiorno peninsulare era un artista (scultore-pittore)
oggi dimenticato, Giuseppe Ferraro (Castrignano del Capo 1902-Genova
1966), leccese-novolese dadozione, testimone delle vicende storico-culturali
di Terra dOtranto comprese nel periodo 1923-1966, ossia fra
lesordio di Fede, la rivista di Pietro Marti, e
la chiusura del Critone di Vittorio Pagano. Il quale,
pur frequentando e ammirando Vincenzo Ciardo, il maggiore e più
noto fra i salentini di ascendenza artistica partenopea, volle assumere
in Pittura e scultura di Pippi Ferraro (un lungo articolo apparso
sul citato Approdo nel marzo 1954, a. II, n. 10-11, pp.
1-4) proprio lattività creativa di questultimo
a segno di un nuovo corso storico, nonché di unantropologia
culturale che aveva ormai «in una sorta di appassionato mitologismo
caratteristico della gente del Sud» le sue più recenti
e «necessarie» motivazioni.
Ferraro, che aveva studiato a Napoli, nel Regio Istituto darte,
dove si era trasferito dopo il leccese discepolato nellomonima
scuola, appariva a Pagano come uno dei più emblematici rappresentanti
di una generazione (iuniore rispetto a quella dei precursori e maestri
Vincenzo Ciardo, Geremia Re, Antonio DAndrea) che, riguardo
alle arti figurative del secondo dopoguerra, ne lastricava di nuove
ideologie e di nuovi linguaggi il sentiero, in un clima di universale
rinnovamento e di riesplose passioni civili. Scriveva, infatti:
Lavvenuto risveglio [
] può già condurre
a una precisa individuazione di valori, può già comporsi
in un quadro storico-critico di puntualissima rispondenza e rappresentatività.
Risentito nelle varie esperienze del tonalismo, dellimpressionismo,
dellastrattismo, dellespressionismo, del cubismo, del
realismo [
], per esempio, il paesaggio salentino
risulta del tutto sottratto «alla convenzionalità generica
e scolastica del cartolinismo di prima». Ebbene, aggiungeva
Pagano, «Pippi Ferraro, pittore-scultore, è a questi
effetti che ci va interessando», e rimarcava quanto segue:
Egli conta quarantanni di lavoro (fin dalladolescenza)
ed ora ci induce ad affermare che il suo tirocinio è stato
lungo e paziente. Ma, intendiamoci, lungo e paziente, solo se consideriamo
come più valida e significativa la fase attuale in cui lo
si trova. Infatti, cè chi lo giudica maturo e formato
da un bel pezzo, da quando le sue statue (specialmente i busti)
cominciarono a imporsi in virtù duna severa e disciplinata
impostazione, duna classica olimpicità, duna
sempre espertissima tecnica [
]. Siamo noi, personalmente,
a preferire lultimo Ferraro [
] per essersi deciso ad
una ricerca come quella dianzi [v. supra: il «risveglio»]
messa a fuoco e che ci preme al momento più dogni altra
cosa [
] per ragioni extrartistiche o comunque collaterali
allarte, ma importanti, tremendamente importanti, per la rinascita
e la vita della più mortificata terra dItalia [scil.
il Salento].
Vero è che il Ferraro aveva esordito come scultore negli
anni Venti del Novecento (la sua prima opera ufficiale
data 1923) ottenendo notevoli consensi di critica e di pubblico
nel decennio successivo. Furono, dunque, gli anni ruggenti del Fascismo
quelli che ne consacrarono la fama sottesa a moduli espressivi tardo-decò,
influenzati dalla maniera bortoniana, intrisi di intenti celebrativi
legati alle occasioni (memorialismo, biografismo, attivismo, decorativismo,
calligrafismo le coordinate che ispiravano la selezione dei soggetti
rappresentati), oppure a una committenza borghese e nazionalpopolare,
al punto che Bottai in persona volle scoprire il busto
di Mario Nacci, realizzato da Ferraro nel 1940-41, allorché,
dopo il matrimonio con la gallipolina Gelsomina Spano, questi si
era trasferito a Supersano, quindi a Novoli dove soggiornò
fino allultimo tempo di sua vita e dove visse anche lunico
suo figlio, Ippazio, che ne conservò inconcussa e pietosa
memoria.
In questa prima stagione, compresa fra il 1923 e il 1945, Ferraro
opera intensamente: busti, statue, monumenti funebri ne costituiscono
il repertorio ufficiale. Attività frenetica, conciliata,
poi, con la docenza presso la Scuola darte a Lecce, quindi
a Galatina (al G. Toma), infine a Lecce dove insegnò
Discipline plastiche e progettazione ceramica fino al 1965. E fu,
forse, la contiguità alla cultura letteraria leccese e ai
suoi fermenti novatori, emersi da Libera voce, da Lesperienza
poetica, dal Campo, dal Critone e
da altri fogli come la Voce del Sud di Ernesto Alvino
o La zagaglia ad orientare Giuseppe Ferraro verso nuove
esperienze tecnico-formali-ideologiche.
Anche se di questa temperie non restano tracce documentali ad avvalorare
le ragioni della evoluzione espressiva di Ferraro a partire dal
1945 (mancano i carteggi, né potevano esserci, data la comune
appartenenza, dellartista e dei suoi interlocutori, a un medesimo
territorio) comunque essa evoluzione rimane un fatto concreto e
storicamente documentabile. La scansione critica di Pagano, ossia
il riferimento a un prima (il tirocinio anni Trenta)
e a un dopo (la produzione ferrariana anni Cinquanta), la stessa,
entusiastica attenzione del poeta dei Privilegi al nuovo corso dellamico
pittore-scultore autorizzano una chiave di lettura in questo senso.
Una conferma ulteriore ci viene dalla esplosiva, improvvisa scelta
di campo, fatta da Ferraro, a partire dal 1946 (bisettrice che apre
il secondo tempo), ossia quella di esperire un nuovo
spazio creativo: la pittura. Esperienza, questa, che vieppiù
lo soggiogava tormentandolo, fino allossessione, quasi che
egli vi avesse scoperto una via più intimistica, più
duttile, più autenticamente speculare allinsorgere
di remote, inattinte, misteriose risonanze esistenziali che lo proiettavano
nelle plaghe ancestrali e oscure della memoria mitica e primordiale
di antica matrice leucadia, organizzata intorno a figure, a paesaggi,
a stagioni che assumevano in lui fattezze di mitici lemuri o di
indistinte e perdute radici.
Tutto cospirava alla palingenesi delluomo e dellartista.
Le sue solitudini, i suoi umori sospesi fra cupe, segrete, impenetrabili
ombre da un lato e luci improvvise, dallaltro, per balenanti
impennate, giocose o polemiche, semantizzavano il novello disagio
dellio, sorpreso dalla storia e dai tempi nei suoi attardati
compiacimenti formali (la verosimiglianza, la classicità,
la composta perfezione del finito), ma già proiettato
nei gorghi del non-finito, dellespressionismo
liricamente risentito e proposto, del soggettivismo ancorato a suggestioni
proustiane, mistico-decadenti (fauvismo, cubismo, surrealismo),
nonché alla bergsoniana percezione dei dati immediati della
coscienza. Donde la spasmodica, inesausta, torrentizia vena creativa
che si materializzava nel colore, proteiforme, infinito strumento
di epifania, ma anche, per lui, nuovo terreno di scavo, di indagine,
di esperienza, in quanto materia vitale destinata a
subire pazientemente le impronte accorate, inquiete e dolenti di
unanima che nel cromatismo riversava, significandole, le proprie,
inappagate, sofferte ricerche di luce e di senso.
Insomma, il tormento dellio si rinverginava sorvegliato e
trasfuso nellaccanito tormento delle forme e del segno, il
quale vieppiù drammatico, mosso, vibrante dava vita a espressioni
dinamizzate nei gesti, negli sguardi, nei rilievi dei volti o delle
figure olosome di ppòppeti che in questa fase popolano il
suo repertorio.
Anche la scultura, mi sembra, risente in misura notevole dei benèfici
influssi della ricerca pittorica, coloristica, figurativa. Volti
rugosi di ascendenza georgica, terragna, veterosalentina, maternità
sofferte e dolenti di umana sacertà o arcane muliebrità
per orientali, bizantine, brune fattezze messapiche,
direi, e perciò millenarie per lacronia categoriale
che le sussume insieme con la terra di loro onirica referenza, scenari
paesistici idillico-tragici (assente ogni traccia di calligrafismo)
racchiudono ormai lossimorica, contrastata, dialettica dimensione
interiore del nuovo Ferraro. Il suo isolamento, il suo
istintivo, non letterario né consapevolmente assimilato accostamento
alle voci della cultura militante, insomma il superamento dellantica
stagione realistica e ornamentale sono ora il segno
della dimensione interiore che lo insidia fino alla nevrosi, da
intendere come agonismo esasperato fra lartista e la materia
della sua arte.
Tensioni culturali (neorealismo, bodinismo, astrattismo, sociologismo),
tempi nuovi (democrazia, liberalismo, socialismo), umori personali
(distanza austera e sdegnosa dal clientelismo, dal servilismo, dallovazione
conformistica al nuovo costume politico della recente
repubblica), dissapori e conflitti sul versante della professione
didattica, ripiegamenti interiori, nostalgici di purezza per insularità
di memorie e di piccole patrie (Castrignano, Leuca) perdute a fronte
della nuova dimora cittadina e metropolitana giustificano codesta
sua risemantizzata concezione dellarte come tormento e non
ornamento.
A ben focalizzare la metamorfosi di Ferraro, o meglio la recente
maturità emersa fra il 1946 e il 1960, intrinseca al secondo
tempo della sua produzione, soccorre un luminoso articolo di Luigi
Manna pubblicato, di spalla, nella prima pagina de Lapprodo
del Sud e giustapposto al contributo di Vittorio Pagano:
[
] Risalta subito [
] un taglio netto, una cesura profonda
fra i due tempi del suo lavoro di scultore. La sua prima esperienza,
il suo, se preferite, tirocinio di artista è tutto teso ad
inseguire [
] i moduli classici; a fermare nella creta i solidi
e fermi volumi di una ritrattistica verosimiglianza. Egli [
]
cerca [
] nella fedeltà al modello, nella intima aderenza
alla viva espressività del soggetto, nella perfezione assoluta
dei contorni, una meta esemplare da prefiggersi e raggiungere. Ma
come in tutti gli artisti più vigili e coscienti, che della
propria esperienza fanno costante itinerario alla ricerca di se
stessi, quando una meta è raggiunta, sopravviene, lungamente
covato o improvviso, il tedio della maniera acquisita [
],
Ferraro maturava una diversione dei suoi moduli classici [
].
Così una nuova, più ricca polla di motivi [
]
urge alla fantasia. Essi si affollano nella sua mente e pretendono
di venire alla luce, di concretarsi nellarte.
Ed ecco lassillante inchiesta tecnico-sperimentale dei primi
anni Cinquanta, lanelito convulsamente avvertito di adeguare
spiriti e forme, il furor espressivo di turbamenti fino ad allora
inattinti e adesso febbrili, semantici di una nuova giovinezza interiore.
A Ferraro, la mano che plasma o lo scalpello che toglie
non bastavano più a raccontare le infere geografie
delle dimore vitali, «a lui occorreva il gioco delle luci
e delle gamme cromatiche, la fluidità del segno e lallucinata
geometria dei piani prospettici, sì che dipingere gli è
poi diventato un integrare, un risolvere lo scolpire, un appagare
lansia nuova e prepotente» (V. Pagano).
Il risultato plastico cede il passo alleffetto dinamico della
soluzione coloristica, vibrante, che non fissa listante, ma
lo prolunga replicandolo nella prospettiva e nel gioco delle linee
cromatiche o del disegno mosso e chiaroscurato talché «noi
vediamo come dipinti anche i bianchi e neri che dovrebbero chiamarsi
praticamente disegni [
], ma la cui pastosa morbidezza, la
cui radente illuminazione è così fatta da stemperarli
in un colore senza colori, nel colore del Salento [
]: gialli,
neri, verdi, viola e grigi si sprigionano [nei dipinti] in funzione
dei bianchi [
] e vi attingono pace e brivido, sostanza e inconsistenza,
vigore e annientamento nella scansione dun idillio tragico
che può ben rendere la qualità dellepos di questo
Sud [
], specchio trasfigurante [
] il mondo e lanima
salentina».
Questo il giudizio di Pagano, che mi sento di condividere non da
critico darte (ché tale non sono, né potrei
essere), ma da semplice lettore del segno (letterario,
artistico, pragmatico che sia) nellordine della comunicazione
non verbale, ossia di quellintricato sistema di segni che
rimanda alluomo-individuo epperò interno alla polis,
alla società epocale, alla storia di sua appartenenza. Il
testo (scritto o figurato) non è che un tramite per attingere
il sisma di unanima. E lanima del poeta o pittore (ut
pictura poesis) si offre più di altre a segno di verità
(in chi crea) e di conoscenza in chi interpreta e ne risillaba il
fondo oscuro e, a prima vista, impenetrabile. Tale il gioco fra
lartista e il suo lettore. In questa luce vanno
lette, dunque, queste mie impressioni che non presumono di quantificare
la misura del valore dellarte di Giuseppe Ferraro cui altri,
a lui più vicini, espressero consensi di umana simpatia e
di critica tecnicamente consapevole.
E mi riferisco alla fortuna che Ferraro sperimentò
presso intellettuali e critici a lui contemporanei. Ernesto Alvino
(di cui fu sodale nelle atmosfere intriganti e raffinate dellomonimo
Caffè leccese): «Pippi Ferraro ha raggiunto
uno stile unitario e un linguaggio così inconfondibile da
metterci in condizione di individuare un suo lavoro anche alla lontana».
Gli articoli dora in poi citati non sono corredati di data
e pagina della stampa periodica che li ospitò perché
gli originali non sono stati ritrovati nellarchivio della
famiglia Ferraro. I passi qui riportati sono tratti da microcataloghi
di corredo ad alcune mostre realizzate in vita dallo stesso Ferraro,
in particolare dal fascicolo Dipinti di Pippi Ferraro, a cura dellAccademia
salentina di lettere scienze ed arti di Lecce, per lesposizione
di quaranta opere dellartista nel salone del leccese Circolo
cittadino, il 19 giugno 1958, pp. 5-11. Giuseppe Pensabene (Secolo
dItalia): «[
] Pippi Ferraro del Capo di
Leuca [
] nei suoi paesaggi, nei suoi ritratti e soprattutto
nei suoi bellissimi fiori rievoca lesuberanza e il mistero
[
]. Tutto in unatmosfera cupa e calda [
] densa
e pastosa [
]. Niente che ricordi neppure lontanamente unarte
già realizzata, ma una interpretazione nuova». Nuances
fatte, dunque, di colori cupi, smorzati, intensi e speculari al
nuovo stato danimo del pittore neofita, convertito al colore
che riscalda la sua tensione nostalgica verso una terra solare e
rugosa, magnogreca, messapica, borbonica come la luna
di Bodini, assente (ma non per sua vocazione) dalla storia fatta
da altri, eppure gravida di sofferenza e di antica umanità
nei suoi segni iconici, antropologici, paesistici dei quali i volti
rugosi e terragni simbolizzano il trascorrere lento e uguale dei
secoli e dei millenni.
Una terra che oggi non cè più, ma che vive solo
nellarte e nel canto dei suoi figli migliori, come il Ferraro
e altri più grandi di lui. E di «arcaismo», di
«intense, dorate tonalità» semantiche di un procedere
à rebours nelle retrovie della memoria edenica, dalla «calda,
silente atmosfera di antica umanità» vè
traccia nella lettura critica di uomini che non conoscevano il Salento,
come Bruno Morini (Giornale dItalia), ma ne coglievano
lanima attraverso la pittura del nostro. Si aggiungano Giuseppe
Rosati (Il Tempo: «colori densi [
] composizioni
di arcaica fissità e stupori infantili di fiaba [
],
smorzato il fulgore cromatico») e i nostri, eccellenti, Carlo
Barbieri («E un solitario, al quale è difficile
trovar parentela pur nellambito della sua regione»,
Il Mattino e, ancora, «taluni paesaggi risentono
del giottismo attraverso linterpretazione di Carrà»,
intervista rilasciata alla RAI), Fernando Manno, elzevirista non
comune («la pittura di Ferraro plasticizza [
] figure
aggruppate in cadenze lineari [
], attonite e inerti in una
pensosità antica e perplessa [
]. Una filigrana doro
antico divide i gruppi compositivi che le accomunano. E un
balenio fosforico, come di gioielli antichi» in Cinzia),
Nullo DAmato («[
] E in questo operare per
sensibilità versato senza richiami a correnti o accostamenti
a maestri che traspare la proposizione pittorica» di Giuseppe
Ferraro, in Voce del Sud).
E ancora, Valerio Mariani (RAI): «nella pittura di Pippi
Ferraro cè un fondo atavico, popolaresco, orientalizzante;
la materia pittorica è affine allencausto, i colori
sono sempre immersi in un fondo aureo, bizantino»; Paolo Ricci
(lUnità): «[
] originale elaborazione
[
] quando egli affronta il paesaggio autentico del suo paese
e le atmosfere sospese e calde della terra pugliese»; Romeo
Roncali, (in Le tout Rome): «Disoccupati, fiori,
ulivi e figure del Salento, case e mucche impastate di ocra e luce
[
]; il pittore ha incontrato i suoi personaggi in un limbo,
che non è cielo, né terra, dove tutto è patetico
senza dramma, misterioso senza angoscia. Con questa mostra Pippi
Ferraro ha conquistato Roma»; Franco Paolo Catalano (in Auditorium):
«[
] lo sfondo è arcaico, bizantineggiante, a
mosaico quasi. Il tono principale è il rosso dorato con accordi
in blu, giallo, verde eccetera»; Renzo DAndrea (Roma):
«[
] la pittura di Pippi Ferraro ha un certo accostamento
alla pittura bizantina [
] nelle espressioni ieratiche delle
immagini e specialmente dei volti femminili, nei contrasti delle
tinte [
], nellassenza ancora di quella
parte classica della linea che contorna la figura, delimitata, invece,
da una pennellata rude e spontanea»; A.T. Prete (La
voce del marzo 1958): «La malta cromatica è pertanto
da considerarsi un ritrovato tutto di Pippi Ferraro che ne resta
ideatore ed abilissimo esecutore [
] facendo esulare la sua
arte dal ristretto campo provinciale»; Franco Miele (La
Giustizia): «[
] una materia densa, a volte addirittura
cupa, caratterizza queste creazioni ove un primitivismo di sapore
quasi bizantino affiora [
] da uno ieratico senso delle cose
che spinge lartista a riportare in un clima arcaico atteggiamenti
umani e descrizioni di natura»; Giuseppe Russo (Luomo
qualunque): «[
] le sue composizioni nascono quasi
da un clima spontaneo di sapore bizantino, saturo di sensibilità,
di accorgimenti, di intelligente studio»; Raffaello Leccisi
(in Libera arte): «[
] travaglio che, attraverso
molteplici esperienze, lo ha portato alla graduale affermazione
di una personalità pittorica inconfondibile»; e, infine,
omettendo altri, Giacomo Etna (dal Giornale del Mezzogiorno)
il cui giudizio qui si riporta integralmente:
Le immagini dalla linea flautata si staccano da fondali crepuscolari
con una dolcezza di Madonna riportandoci alle icone che costellano
le strade del Tavoliere e delle Murge. I paesaggi popolati di ulivi
e di armenti ci riportano pure a quelle strade con un sapore arcaico,
una poesia che sconfina nei miti del Levante con la sua malinconia,
quella tristezza doro a cui fa cenno il Manno,
che hanno i mosaici di Santa Sofia nello splendore decadente di
Bisanzio.
E di questo «splendore decadente» Ferraro inconsapevolmente,
credo, sente lultima traccia nella sua terra (il Salento)
e nellanima, dove la solarità mediterranea del paesaggio
si copula con oscure sensazioni di dolore e di morte.
Emergono, dunque, per corale, concorde ammissione, tutte le isobare
dellarte di Ferraro: arcaismo, bizantinismo, ieratismo, primitivismo,
giottismo che temperano in chiave onirico-simbolica il realismo
sociale, diffuso in quegli anni da artisti come Migneco, Guttuso,
Levi, Geremia Re e altri. Chiave originale, cui somministrano alimento
sia lurgenza espressiva dei turbamenti emotivi, sia lindole
pensosa, ribelle, impaziente dellautore, sia, infine, la distanza
da ogni scuola epocale, sicché nellarte
di Ferraro «non cè niente di meditato e riflesso,
nessuna esperienza, nel senso corrente, di letture e
vagabondaggi grammaticali e stilistici» (F. Manno). Una cifra,
dunque, tutta sua, elementare per inopia di orpelli e di prestiti,
immediata epperò perplessa, ossia risentita e ridiscussa
continuamente dalla coscienza scoscesa dartista che cerca
un filo tutto suo da dipanare e poi avvolgere, da trasferire, insomma,
dallinconscio, dalla memoria involontaria alle
forme. Istinto e tecnica con prevalenza (mi sembra) del primo elemento
sul secondo per certa immediatezza di tratteggi e di linee cui non
fa velo il ricercato effetto del colore rossastro e terragno nella
sua fondamentale parvenza.
E codesto suo giottismo, trapunto di primitivismo,
tradiva un sentimento tragico della vita che lo indusse nellultimo
e più succinto tempo della sua arte (il terzo,
compreso fra il 1960 e il 1966) a sentirsi inappagato fino al cupio
dissolvi che si manifestava (lo dicono i familiari) nella distruzione-devastazione
impetuosa degli ultimi suoi manufatti (pitture e sculture). Era
forse il tedio che nasceva dal superamento dellesperienza
pregressa, dal rifiuto di manierare, indugiandovi sopra, cifre cromatiche
e prospettiche, soggetti, figure olosome o soltanto i volti. Si
riducevano le mostre, un tempo febbrilmente allestite in ogni parte
dItalia (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 1953; Lecce 1954-55-56-57;
Napoli, 1957; Taranto 1958 e, nello stesso anno, Roma, ecc.) ma
restavano, tuttavia, numerose (1961: Novara, Milano Verritre,
Pescara, Chieti; 1962: Lecce, Bari; 1963: Bari; 1965: Zurigo, Sanremo).
Si susseguivano i premi, i riconoscimenti, le committenze. Si consolidavano
antiche e nuove corrispondenze intellettuali (fra il 1946 e il 1966
ricordiamo quelle con Antonio DAndrea, Nullo DAmato,
Raffaele Spizzico e poi Orfeo Tamburi, Domenico Purificato, Remo
Brindisi, Cesare Pani fino ai più giovani Lino Suppressa
e Lionello Mandorino), si incrementava il successo nazionale, per
lampio, diffuso consenso, epperò crescevano simmetricamente
lisolamento esistenziale, il malumore, i sintomi ominosi del
male che ne cagionò la morte.
In parallelo, si incupiva il segno sotto la specie del colore, sempre
più denso e direi quasi monocromo, si affacciavano soggetti
cristologici e mariani, urgeva il furore autodistruttivo fino alla
devastazione da lui compiuta del suo studio (testimone sgomenta
la nuora, Lina). Poi, il calvario
Genova. E laddio muto
delle sue statue, dei suoi dipinti, non meno assorto e dolente di
quello dei suoi cari che lo hanno ricordato nel centenario della
nascita insieme con la città di Lecce, (11-26 maggio 2002),
nella splendida cornice del Convento dei Teatini.
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