Il meccanismo era sempre lo stesso:
i bambini venivano rastrellati, comprati o presi in affitto, forniti
di un topo,
di una scimmia,
o di una marmotta e portati via a Parigi
o a Londra, o
a New York...
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Erano ottantamila, secondo il New York Times, i nostri bambini
venduti che nel 1873 mendicavano nelle strade degli Stati Uniti
con la scimmia e lorganetto, o che venivano spinti «sulla
strada del vizio». E trentamila sarebbero stati esattamente
un secolo dopo, in quegli anni Settanta in cui imperversavano musiche
da sballo, vacanze cosiddette intelligenti, sfilate
di moda inneggianti al lusso e al seminudo, i nostri bambini segregati
in Svizzera, chiusi in casa e costretti a frequentare scuole clandestine
perché i genitori non potevano legalmente portarseli dietro,
a Berna o a Ginevra.
E queste due cifre, terrificanti, eppure quasi del tutto ignote,
la dicono lunga su quanto sia stata rimossa laltra faccia
dellemigrazione italiana. Il tipo di emigrazione che non vogliamo
ricordare, che abbiamo voluto rimuovere, ma che un giornalista di
razza, Gian Antonio Stella, ha ricostruito col volume Lorda.
Quando gli albanesi eravamo noi, edito da Rizzoli: una ricostruzione,
dopo tanti colpevoli silenzi, dopo accanite omertà, che è
una scoperta, e che lascia di sasso.
Infatti: non ci eravamo raccontata la bubbola che i nostri emigrati
erano diversi, erano più simpatici e dunque più amati,
erano più puliti, erano insomma i migliori al mondo? Tuttaltro.
A fine Ottocento, a New York, 1.324 emigrati italiani vivevano in
un edificio di sole 132 stanze: dieci per stanza. Nella belga Lanklaar,
fino al 1964, i nostri emigrati erano costretti a vivere nelle baracche
di un lager nazista. Le cronache registravano spaventose cacce alluomo
in Argentina, in Australia, in Francia e in America. Negli Stati
Uniti gli emigrati italiani sono stati i più linciati, dopo
i neri. Non potevano andare alle scuole dei bianchi in Louisiana.
Erano bollati come «non palesemente negri» nelle sentenze
dei giudici dellAlabama. Gli si vietava di entrare nella sala
daspetto di terza classe alla stazione ferroviaria di Basilea,
perché i nostri nonni «defecavano sul pavimento».
Dalla filiera delle cronache manichee del tempo: truffavamo mezza
Europa raccogliendo quattrini per riscattare inesistenti ostaggi
dei pirati saraceni, vendevamo le nostre donne anche ai bordelli
africani, seminavamo il terrore anarchico uccidendo capi di Stato
e devastando Wall Street (trentatré morti e duecento feriti)
prima della comparsa di al-Qaeda, svaligiavamo appartamenti, eravamo
facili allira e al coltello, rapinavamo donne inermi... E
intanto si giustiziavano Sacco e Vanzetti, si trucidavano
emigrati in Francia, si moriva in massa nelle miniere di Marcinelle,
si naufragava con le bare galleggianti che trasportavano
oltre Atlantico migliaia di disperati. Una storia di infinite storie
ha fatto scendere una cortina di ferro su tutto questo. Solo da
poco si stanno rileggendo gli anni duri, feroci, dellemigrazione
italiana nel mondo, vissuti allo stesso modo dai cafoni del Nord,
del Centro e del Sud. Questi ultimi, in palese maggioranza.
Prediletti erano soprattutto i bambini. A cavallo del Novecento,
li si comprava per cento lire ciascuno: costavano precisamente la
metà di una macchina da cucire, per il cui acquisto occorrevano
duecento lire. E tuttavia, come ricordano le statistiche storiche
dellIstat, con quelle cento lire ci si poteva comprare quattro
panetti di burro (2,79 lire luno), tre etti di carne (1,06
lire al chilo) e otto etti di fagioli secchi (3,40 lire al chilo)
ogni mese, più un chilogrammo di pasta (0,62 lire al chilo)
ogni settimana, più due etti di pane comune (0,44 lire al
chilo) al giorno; e restavano sedici lire, per acquistare un etto
di zucchero (1,55 lire al chilo) la settimana e un bottiglione di
vino (0,46 lire al litro) al mese. Punto e basta.
Eppure, scrive Stella, «furono migliaia i genitori che vendettero
i figli ai novelli negrieri, i quali a loro volta affittavano
ai vetrai questi schiavi bambini incassando lo stipendio di tutti.
I francesi lo sapevano bene, che un inferno come quello non lasciava
scampo. Mica ci mandavano i figli loro. Glieli vendevamo noi».
Morivano di cancro, di tisi, di fame.
Italiane erano le famiglie, in particolare delle province di Campobasso
e di Caserta, ma anche di Cuneo, di Belluno, di altre regioni della
Penisola, che svendevano questi bambini, spinte dalla disperazione.
E italiani erano i funzionari che si prestavano a procurare i documenti,
a volte veri (come ad Aosta, dove un incettatore trovò le
raccomandazioni di un sindaco e di un deputato per sbloccare i passaporti
dei suoi piccoli schiavi fermati dalla Prefettura), ma molto più
spesso falsificati.
Qualche volta i rastrellatori venivano messi in galera, come accadde
a Donato Vozza. Secondo Luca Cafiero, quando lo catturarono mentre
rastrellava nel Mezzogiorno nuova merce minorile, aveva già
una squadra di tredici bambini. Racconta Stella: come Francesco,
Felice o Paolo Fraioli, ceduti come schiavi alla vetreria Legras.
Francesco fu il primo a morire. Una mattina che non si reggeva in
piedi, dopo giorni e giorni di turni spaventosi, venne obbligato
a lavorare lo stesso. Restò davanti alla bocca del forno
fino a sera. Quando venne finalmente portato allospedale,
a mezzanotte, era troppo tardi. Il giorno dei funerali, dopo aver
accompagnato in lacrime il fratello al cimitero e averlo seppellito
in una bara pagata coi loro soldi da tutti i ragazzini (!), si sentì
male anche Felice: «Non si fidava a lavorare», avrebbe
deposto al processo il piccolo Giuseppe Polese, un compagno di sventura,
«ma Vozza veniva allofficina e lobbligava a lavorare
e due ouvriers con le canne roventi lo torturavano, mentre seduto
in un fosso teneva fra le gambe la forma in cui si soffiava la pasta
rovente ed egli doveva aprirla e chiuderla...».
Poco più di una settimana dopo, Vozza scriveva ai genitori
del piccolo: «Vostro figlio Felice è partito per laltra
vita [...]. Non è stata colpa di nessuno».
Dai vetrai francesi a quelli americani di Pittsburgh, dove la giornalista
Amy Bernardy scovò bambini avviati a lavorare alletà
di otto anni; ai figurinisti della Garfagnana, che giravano lEuropa
a vendere statuine; agli spazzini cuneesi, che nelle notti parigine
ripulivano con le ramazze le rive della Senna; alle fornaci della
Baviera, dellAustria, dellUngheria, della Croazia, dove
i minorenni (dalla sola provincia di Udine, precisa Bruna Bianchi,
ne partivano cinquemila lanno) presentavano spesso documenti
«con la data di nascita falsificat» e venivano falcidiati
dagli incidenti sul lavoro; e ancora, ai tacherons elvetici, i piccoli
imprenditori edili che in pratica lavoravano utilizzando come operai
soltanto i bambini; e ai costruttori di Detroit, dove fanciulli
di otto-nove anni aiutavano gli adulti nei lavori di scavo di gallerie,
trasportando secchi di acqua con un piccolo giogo al collo...
Ma in Italia, nel Paese in cui i figli erano pezzi di cuore
e le mamme erano non soltanto uniche, ma le migliori
del mondo, che cosa succedeva, che cosa si diceva, come si reagiva?
LItalia era preoccupatissima, sicuramente, ma solo per il
proprio buon nome. Un buon nome messo a repentaglio soprattutto
dalla moralità di due categorie di ragazzi: i
suonatori dorganetto e gli spazzacamini. La piaga,
quella che secondo il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli faceva
vergognare il Giardino dEuropa rappresentando
«una classe che ha le stesse tendenze degli zingari e dei
popoli selvaggi», erano i musicanti: «Da
genitori deficienti di energia morale e fisica sono procreati degli
infelici che succhiano col sangue la stessa ripugnanza alla fatica
di un lavoro regolare». Dove potesse esserci, il lavoro regolare,
in un Paese che agonizzava con unagricoltura estensiva diffusa,
con campagne oppresse da indici demografici terrificanti, (e in
presenza di malattie endemiche in ogni regione), il diplomatico
si guardava bene dal precisarlo. Ma tantè.
Il meccanismo era sempre lo stesso, largamente sperimentato: i bambini
venivano rastrellati in giro per i paesi, comprati o presi in affitto,
forniti di un topo, di una scimmia, o di una marmotta ammaestrati
e portati via a Parigi (anche a piedi), o a Londra, o a New York.
Nel Rapporto del 1868 contro la tratta di carne umana, la Société
de Bienfaisance di Parigi, (dove in quel momento secondo la polizia
cerano tremila petits italiens, 1.200 dei quali sotto i dieci
anni), citava uninchiesta condotta da un medico napoletano,
secondo il quale soltanto il venti per cento dei ragazzi partiti
con un organetto verso lignoto faceva ritorno; il trenta per
cento si stabiliva definitivamente allestero; il cinquanta
per cento moriva «di malattie, di stenti, di maltrattamenti».
Tale era lo stato di schiavitù, raccontava Amy Bernardy,
che nellopulenta Chicago «ogni padrone teneva i suoi
piccoli suonatori, sciainatori, rivendugnoli, mendicanti, etc...
Marchiati allorecchio come pecore dello stesso armento».
Emblematico lepisodio laconicamente raccontato a proposito
di Carminello Ada, venduto dai genitori: «Era stato portato
dal suo paesino a fare il suonatore ambulante nelle vie londinesi.
Ma non rendeva abbastanza. Il padrone lo legò mani e piedi,
lo appese al soffitto con una fune e cominciò a morderlo
e a picchiarlo. Quando quelli dellItalian Benevolent Society
riuscirono a portarlo allospedale era troppo tardi. Pochi
giorni e morì». Carminello aveva soltanto cinque anni.
Prima di morire, alletà di 96 anni, un vecchio emigrante
della Valle di Scalve, nel Bergamasco, volle scrivere la sua autobiografia.
E la storia di una vita avventurosa, di fatiche e di sacrifici:
le vicende partono dal 1897, quando, alletà di quattordici
anni, Tomaso May iniziò a lavorare in miniera. Emigrò
quattro anni dopo e restò lontano dallItalia fino al
1956. Tomaso non aveva avuto la possibilità di studiare,
ma sapeva leggere e scrivere (scrivere alla meglio). Ecco un brano
del suo Diario, testuale.
«Alletà di 14 anni incominciai a lavorare nelle miniere
di Schilpario fino alletà di 18 anni, dallora emigrai in
Svizzera dove sono rimasto per il periodo di unanno, onde
feci ritorno a Schilpario per il periodo di unanno, onde andai
sul piemonte a lavorare in una galeria che si trovava sul lago Maggiore,
in un paese che si chiamava Baveno, fui là per unanno,
onde feci ritorno a Schilpario, per un breve periodo di tempo, quando
ricevetti una lettera da un mio zio che si chiamava nellafrica
chiamata coste doro, e con due altri paesani siamo partiti
per lafrica, colle speransa di raggiungere mio zio; dopo un
mese di viaggio siamo arrivati alla nostra destinasione, con grande
delusione mi fu detto che mio zioe unaltro suo compagno erano
partiti per andare nel sout america e con brutta sorpresa due mesi
dopo o saputo che mio zio quando è arrivato sule frontiere
dela francia mio zio è morto della febre malarica che aveva
preso nellafrica, prima da partire dunque fra io e i miei
due compagni abbiamo preso impiego nelle miniere dopo solo 15 giorni
che eravamo là, siamo stati colti dalla febre malarica,
e da allora in avanti siamo stati sempre suggetti dalla febre in
poche parole abbiamo passato 5 mesi dinferno, appena vevo
la moneta limitata di andare negli stati uniti, siamo partiti tutti
assieme, eravamo in sei da Schilpario e cinque altri della valle
seriana, il Bastimento era diretto per Londra inghilterra, tutti
gli altri andavano in Italia, acettuato uno che veniva con me negli
stati uniti. Siamo arrivati a new york, da lì abbiamo preso
il treno 75 chilometri di viaggio raggiunto il mio zio nella
città di Bridgeport Stato del Conneticut, incominciai a lavorare
per una misera paga, dieci ore al giorno e in cattive condisioni
di salute, dopo di unanno lasiai Bridgeport andai nello stato
di new Jersey per poco tempo, da lì andai a new york dove
o lavorato per un periodo di cinque mesi poi feci ritorno a Bridgeport
ove trovai impiego in una fattoria dopo di unanno feci conosiensa
con un organisattore del pugilato, il quale mi induce a fare squola
di pugilato, dopo di unanno di squola finalmente fui messo
professionista a combattere, ma la febre mi tormentava di quando
in quando, feci cinque combattimenti dove le o vinti tutti prima
del limite ma purtroppo io sapevo che non potevo continuare perche
la febre malarica mi tormentava sempre, perciò o dovuto smettere
la cariera e tornare in Italia. Poi di nuovo sono partito con sei
altri compagni, quando siamo arrivati a new york due dei compagni
sono andati assieme con un certo Bortolo Batalia quei altri paesani
che erano con me, sensa sapere una parola di inglese mi anno supplicato
da non lasiarli e cosi per farle piacere a loro siamo partiti siamo
andati più per luest e siamo andati in uno stato del
nevada dove trovai impiego per loro e anche per me in una miniera,
lavorai lì per il periodo di 20 mesi, e poi sono partito
con altri tre compagni per andare in alaska...».
Nei primi cento anni dellItalia unita, trenta milioni di
italiani scelsero, per lavorare e per vivere, la via dellemigrazione,
dando vita al più imponente fenomeno sociale e demografico
della nostra storia contemporanea. Nella sua fase iniziale (i decenni
a cavallo del 900), il movimento migratorio si diresse di
preferenza verso le terre dai grandi spazi e dalle abbondanti risorse
non ancora utilizzate: Stati Uniti e America latina. Nel secondo
dopoguerra, si indirizzò per lo più verso i Paesi
industrializzati dellEuropa centro-settentrionale.
Il fenomeno conobbe una svolta significativa negli anni Ottanta
dellOttocento. Prima di allora, la media annuale degli espatri,
rivolti ancora in larga misura ai Paesi europei e mediterranei,
si aggirava sulle 120 mila unità. Fu nel penultimo decennio
di quel secolo che il numero degli emigranti superò i 150
mila allanno, e continuò a crescere, fino a oltrepassare
a fine secolo i 300 mila, diretti prevalentemente oltreoceano e
anche in Australia. Lincremento continuò, sia pure
con un andamento più irregolare, nei primi anni del Novecento:
511 mila unità allanno nel 1901-1904; 739 mila nel
1905-1907; fino al picco del 1913, quando emigrarono ben 872.598
italiani, su una popolazione che non raggiungeva i trentasei milioni
di abitanti.
Lemigrazione temporanea e stagionale di vecchia tradizione
proveniente dalle zone alpine e prealpine e diretta verso
i Paesi confinanti (Francia, Svizzera) fu superata, in termini
quantitativi, dopo il 1880, da unemigrazione stabile, o comunque
di lunga durata, che interessò soprattutto il Mezzogiorno
e altre regioni particolarmente colpite dalla crisi agraria, come
il Veneto. La crisi che colpì lagricoltura italiana,
dopo quella europea, tra la fine degli anni Settanta e la metà
degli anni Novanta del XIX secolo, il ritardo nel processo di industrializzazione
e lo sviluppo dualistico, vale a dire fortemente differenziato nei
modi e nei tempi fra Nord e Sud, furono le cause strutturali dellemigrazione
italiana e delle grandi proporzioni che essa assunse, specialmente
allinizio del XX secolo. Lemigrazione, per contro, allentando
la pressione demografica e la conseguente rigidità del mercato
del lavoro, fu una delle condizioni di base dello sviluppo economico
dellItalia, almeno in due momenti-chiave: quello del decollo
industriale e delle successive crisi di assestamento (1896-1914),
e quello della crescita e del boom economico, dalla
fine della ricostruzione nel secondo dopoguerra allinizio
degli anni Sessanta.
Ma quali furono i costi individuali e collettivi, sotto il profilo
sociale e culturale, di questo grande movimento? Sullemigrazione
sono state scritte, in un secolo, migliaia di pagine, ma solo di
recente la storiografia ha cominciato a prendere in considerazione
le fonti dirette e povere, costituite dalle memorie,
dai diari e in primo luogo dalle lettere degli emigranti alle famiglie:
testimonianze immediate ed efficacissime delle conseguenze dellimpatto
con le nuove realtà, delle difficoltà dinserimento
e di comunicazione, dei conflitti insorgenti nellincontro/scontro
fra culture diverse.
Le lettere, in particolare, vennero utilizzate in due direzioni:
da una parte, dai fautori dellemigrazione, classi dirigenti,
amministratori pubblici, giornali delle zone interessate, agenti
di viaggio; dallaltra, dai contrari, circoli agrari e stampa
ad essi collegata, che paventavano di non poter più disporre
di un bracciantato a basso costo.
Riportiamo dai documenti dellepoca. 1878, Nanni Partenio,
da Rosario di Santa Fe, Argentina: «La gente più infelice
di questo mondo sono quelle povere famiglie, che vendetero tutte
le sue sostanze, in Italia per venire tradirsi su queste terre.
Vengono sclamati infelici da tutto il popolo, beffeggiati dimandandogli,
se la provincia del Friuli hanno impazzito, a venire su queste terre,
e con che scopo sono venuti con le famiglie, ora non sano dove andare,
perché le promesse furon false. Il terreno è a gratis,
ma quel terreno pericoloso e soggetto agli indiani, e ancora non
danno vito e bestiami come avevano promesso». E Nanni Partenio,
che vive suonando la fisarmonica, deplora che «le rivoluzioni
continue» danneggiano i commerci, e che si è dovuto
adeguare a una realtà dominata dallillegalità
e dalla violenza, in una terra dove «amazano per un quatrino,
perciò si deve stare sempre armato di revolver
e girare dove vengo invitato, e compagnato dai miei compagni».
E contento di «poter vedere tutte queste stranierietà»,
ma precisa che occorrono «buon occhio, buone armi e buoni
compagni». E conclude che sarebbe «un bel vivere»,
se non fosse per la labilità del sistema giudiziario: «Se
io amazo uno fose anche a presenza del publico, con cento centocinquanta
franchi li porto al presidente, perdonato, e se non è danari
mi cambio di provincia, perdonato...».
Oggi emigra materia grigia, espulsa da università e centri
di ricerca italiani bistrattati dalla politica nazionale. Ogni tanto,
qualcuno torna col Premio Nobel, allora riemerge il problema irrisolto
dei cervelli in fuga, ma per il solo spazio dun
mattino. E di nuovo, silenzio.
Lultimo, lastrofisico Riccardo Giacconi, classe 1931,
è cittadino statunitense dal 1977. Era genovese. E
un ex italiano. Cè chi gli ha chiesto: qualche rimpianto?
Risposta: «Assolutamente no. Non mi sono mai pentito di aver
fatto la scelta di andarmene. Ho solo nostalgia dellItalia
del 1955, molto diversa da quella di oggi. Ma la mia nostalgia è
legata allambiente, alle Alpi che ho sempre amato, ai paesaggi
della Sicilia piena di sole».
Quando partì non era un bambino, e non lasciò lItalia
a bordo di una bara galleggiante. LAtlantico era
molto più stretto, con gli aerei. Ma meno stretto del suo
Paese, dove per ricercare avrebbe dovuto chiedere lelemosina
ai burosauri ministeriali. Magari senza il topo, o la scimmia o
la marmotta, ammaestrati, che furono compagni di schiavitù
di tanti angeli senza nome svaniti oltre gli orizzonti liquidi,
oltre i confini rupestri del Bel Paese. Ma con dietro, e dentro,
la memoria di una terra, di linguaggi, di colori, di suoni, che
furono radici, e che sentono inaridita la linfa e infiochita leco,
ora, di quanto era stato familiare. Un secolo fa, la fuga come ragione
di speranza. Adesso, la fuga come negazione di ogni speranza. Che
Paese è stato, che Paese è?
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