Dicembre 2002

COME ERAVAMO

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Angeli schiavi
Ada Provenzano - Tonino Caputo - Alfio Barrese
 
 

 

 

 

 

 

Il meccanismo era sempre lo stesso:
i bambini venivano rastrellati, comprati o presi in affitto, forniti di un topo,
di una scimmia,
o di una marmotta e portati via a Parigi
o a Londra, o
a New York...

 

Erano ottantamila, secondo il New York Times, i nostri bambini venduti che nel 1873 mendicavano nelle strade degli Stati Uniti con la scimmia e l’organetto, o che venivano spinti «sulla strada del vizio». E trentamila sarebbero stati esattamente un secolo dopo, in quegli anni Settanta in cui imperversavano musiche “da sballo”, vacanze cosiddette intelligenti, sfilate di moda inneggianti al lusso e al seminudo, i nostri bambini segregati in Svizzera, chiusi in casa e costretti a frequentare scuole clandestine perché i genitori non potevano legalmente portarseli dietro, a Berna o a Ginevra.
E queste due cifre, terrificanti, eppure quasi del tutto ignote, la dicono lunga su quanto sia stata rimossa l’altra faccia dell’emigrazione italiana. Il tipo di emigrazione che non vogliamo ricordare, che abbiamo voluto rimuovere, ma che un giornalista di razza, Gian Antonio Stella, ha ricostruito col volume L’orda. Quando gli albanesi eravamo noi, edito da Rizzoli: una ricostruzione, dopo tanti colpevoli silenzi, dopo accanite omertà, che è una scoperta, e che lascia di sasso.
Infatti: non ci eravamo raccontata la bubbola che i nostri emigrati erano diversi, erano più simpatici e dunque più amati, erano più puliti, erano insomma i migliori al mondo? Tutt’altro. A fine Ottocento, a New York, 1.324 emigrati italiani vivevano in un edificio di sole 132 stanze: dieci per stanza. Nella belga Lanklaar, fino al 1964, i nostri emigrati erano costretti a vivere nelle baracche di un lager nazista. Le cronache registravano spaventose cacce all’uomo in Argentina, in Australia, in Francia e in America. Negli Stati Uniti gli emigrati italiani sono stati i più linciati, dopo i neri. Non potevano andare alle scuole dei bianchi in Louisiana. Erano bollati come «non palesemente negri» nelle sentenze dei giudici dell’Alabama. Gli si vietava di entrare nella sala d’aspetto di terza classe alla stazione ferroviaria di Basilea, perché i nostri nonni «defecavano sul pavimento».

Dalla filiera delle cronache manichee del tempo: truffavamo mezza Europa raccogliendo quattrini per riscattare inesistenti ostaggi dei pirati saraceni, vendevamo le nostre donne anche ai bordelli africani, seminavamo il terrore anarchico uccidendo capi di Stato e devastando Wall Street (trentatré morti e duecento feriti) prima della comparsa di al-Qaeda, svaligiavamo appartamenti, eravamo facili all’ira e al coltello, rapinavamo donne inermi... E intanto “si giustiziavano” Sacco e Vanzetti, si trucidavano emigrati in Francia, si moriva in massa nelle miniere di Marcinelle, si naufragava con le “bare galleggianti” che trasportavano oltre Atlantico migliaia di disperati. Una storia di infinite storie ha fatto scendere una cortina di ferro su tutto questo. Solo da poco si stanno rileggendo gli anni duri, feroci, dell’emigrazione italiana nel mondo, vissuti allo stesso modo dai cafoni del Nord, del Centro e del Sud. Questi ultimi, in palese maggioranza.
Prediletti erano soprattutto i bambini. A cavallo del Novecento, li si comprava per cento lire ciascuno: costavano precisamente la metà di una macchina da cucire, per il cui acquisto occorrevano duecento lire. E tuttavia, come ricordano le statistiche storiche dell’Istat, con quelle cento lire ci si poteva comprare quattro panetti di burro (2,79 lire l’uno), tre etti di carne (1,06 lire al chilo) e otto etti di fagioli secchi (3,40 lire al chilo) ogni mese, più un chilogrammo di pasta (0,62 lire al chilo) ogni settimana, più due etti di pane comune (0,44 lire al chilo) al giorno; e restavano sedici lire, per acquistare un etto di zucchero (1,55 lire al chilo) la settimana e un bottiglione di vino (0,46 lire al litro) al mese. Punto e basta.
Eppure, scrive Stella, «furono migliaia i genitori che vendettero i figli ai “novelli negrieri”, i quali a loro volta affittavano ai vetrai questi schiavi bambini incassando lo stipendio di tutti. I francesi lo sapevano bene, che un inferno come quello non lasciava scampo. Mica ci mandavano i figli loro. Glieli vendevamo noi». Morivano di cancro, di tisi, di fame.

Italiane erano le famiglie, in particolare delle province di Campobasso e di Caserta, ma anche di Cuneo, di Belluno, di altre regioni della Penisola, che svendevano questi bambini, spinte dalla disperazione. E italiani erano i funzionari che si prestavano a procurare i documenti, a volte veri (come ad Aosta, dove un incettatore trovò le raccomandazioni di un sindaco e di un deputato per sbloccare i passaporti dei suoi piccoli schiavi fermati dalla Prefettura), ma molto più spesso falsificati.
Qualche volta i rastrellatori venivano messi in galera, come accadde a Donato Vozza. Secondo Luca Cafiero, quando lo catturarono mentre rastrellava nel Mezzogiorno nuova merce minorile, aveva già una squadra di tredici bambini. Racconta Stella: come Francesco, Felice o Paolo Fraioli, ceduti come schiavi alla vetreria Legras. Francesco fu il primo a morire. Una mattina che non si reggeva in piedi, dopo giorni e giorni di turni spaventosi, venne obbligato a lavorare lo stesso. Restò davanti alla bocca del forno fino a sera. Quando venne finalmente portato all’ospedale, a mezzanotte, era troppo tardi. Il giorno dei funerali, dopo aver accompagnato in lacrime il fratello al cimitero e averlo seppellito in una bara pagata coi loro soldi da tutti i ragazzini (!), si sentì male anche Felice: «Non si fidava a lavorare», avrebbe deposto al processo il piccolo Giuseppe Polese, un compagno di sventura, «ma Vozza veniva all’officina e l’obbligava a lavorare e due ouvriers con le canne roventi lo torturavano, mentre seduto in un fosso teneva fra le gambe la forma in cui si soffiava la pasta rovente ed egli doveva aprirla e chiuderla...».
Poco più di una settimana dopo, Vozza scriveva ai genitori del piccolo: «Vostro figlio Felice è partito per l’altra vita [...]. Non è stata colpa di nessuno».

Dai vetrai francesi a quelli americani di Pittsburgh, dove la giornalista Amy Bernardy scovò bambini avviati a lavorare all’età di otto anni; ai figurinisti della Garfagnana, che giravano l’Europa a vendere statuine; agli spazzini cuneesi, che nelle notti parigine ripulivano con le ramazze le rive della Senna; alle fornaci della Baviera, dell’Austria, dell’Ungheria, della Croazia, dove i minorenni (dalla sola provincia di Udine, precisa Bruna Bianchi, ne partivano cinquemila l’anno) presentavano spesso documenti «con la data di nascita falsificat» e venivano falcidiati dagli incidenti sul lavoro; e ancora, ai tacherons elvetici, i piccoli imprenditori edili che in pratica lavoravano utilizzando come operai soltanto i bambini; e ai costruttori di Detroit, dove fanciulli di otto-nove anni aiutavano gli adulti nei lavori di scavo di gallerie, trasportando secchi di acqua con un piccolo giogo al collo...
Ma in Italia, nel Paese in cui i figli erano “pezzi di cuore” e le mamme erano non soltanto “uniche”, ma le migliori del mondo, che cosa succedeva, che cosa si diceva, come si reagiva? L’Italia era preoccupatissima, sicuramente, ma solo per il proprio buon nome. Un buon nome messo a repentaglio soprattutto dalla “moralità” di due categorie di ragazzi: i suonatori d’organetto e gli spazzacamini. La “piaga”, quella che secondo il diplomatico Raniero Paulucci de Calboli faceva vergognare il “Giardino d’Europa” rappresentando «una classe che ha le stesse tendenze degli zingari e dei popoli selvaggi», erano i “musicanti”: «Da genitori deficienti di energia morale e fisica sono procreati degli infelici che succhiano col sangue la stessa ripugnanza alla fatica di un lavoro regolare». Dove potesse esserci, il lavoro regolare, in un Paese che agonizzava con un’agricoltura estensiva diffusa, con campagne oppresse da indici demografici terrificanti, (e in presenza di malattie endemiche in ogni regione), il diplomatico si guardava bene dal precisarlo. Ma tant’è.
Il meccanismo era sempre lo stesso, largamente sperimentato: i bambini venivano rastrellati in giro per i paesi, comprati o presi in affitto, forniti di un topo, di una scimmia, o di una marmotta ammaestrati e portati via a Parigi (anche a piedi), o a Londra, o a New York.
Nel Rapporto del 1868 contro la tratta di carne umana, la Société de Bienfaisance di Parigi, (dove in quel momento secondo la polizia c’erano tremila petits italiens, 1.200 dei quali sotto i dieci anni), citava un’inchiesta condotta da un medico napoletano, secondo il quale soltanto il venti per cento dei ragazzi partiti con un organetto verso l’ignoto faceva ritorno; il trenta per cento si stabiliva definitivamente all’estero; il cinquanta per cento moriva «di malattie, di stenti, di maltrattamenti». Tale era lo stato di schiavitù, raccontava Amy Bernardy, che nell’opulenta Chicago «ogni padrone teneva i suoi piccoli suonatori, sciainatori, rivendugnoli, mendicanti, etc... Marchiati all’orecchio come pecore dello stesso armento». Emblematico l’episodio laconicamente raccontato a proposito di Carminello Ada, venduto dai genitori: «Era stato portato dal suo paesino a fare il suonatore ambulante nelle vie londinesi. Ma non rendeva abbastanza. Il padrone lo legò mani e piedi, lo appese al soffitto con una fune e cominciò a morderlo e a picchiarlo. Quando quelli dell’Italian Benevolent Society riuscirono a portarlo all’ospedale era troppo tardi. Pochi giorni e morì». Carminello aveva soltanto cinque anni.
Prima di morire, all’età di 96 anni, un vecchio emigrante della Valle di Scalve, nel Bergamasco, volle scrivere la sua autobiografia. E’ la storia di una vita avventurosa, di fatiche e di sacrifici: le vicende partono dal 1897, quando, all’età di quattordici anni, Tomaso May iniziò a lavorare in miniera. Emigrò quattro anni dopo e restò lontano dall’Italia fino al 1956. Tomaso non aveva avuto la possibilità di studiare, ma sapeva leggere e scrivere (scrivere alla meglio). Ecco un brano del suo “Diario”, testuale.
«Alletà di 14 anni incominciai a lavorare nelle miniere di Schilpario fino alletà di 18 anni, dallora emigrai in Svizzera dove sono rimasto per il periodo di un’anno, onde feci ritorno a Schilpario per il periodo di un’anno, onde andai sul piemonte a lavorare in una galeria che si trovava sul lago Maggiore, in un paese che si chiamava Baveno, fui l’à per un’anno, onde feci ritorno a Schilpario, per un breve periodo di tempo, quando ricevetti una lettera da un mio zio che si chiamava nell’africa chiamata coste d’oro, e con due altri paesani siamo partiti per l’africa, colle speransa di raggiungere mio zio; dopo un mese di viaggio siamo arrivati alla nostra destinasione, con grande delusione mi fu detto che mio zioe un’altro suo compagno erano partiti per andare nel sout america e con brutta sorpresa due mesi dopo o saputo che mio zio quando è arrivato sule frontiere dela francia mio zio è morto della febre malarica che aveva preso nell’africa, prima da partire dunque fra io e i miei due compagni abbiamo preso impiego nelle miniere dopo solo 15 giorni che eravamo l’à, siamo stati colti dalla febre malarica, e da allora in avanti siamo stati sempre suggetti dalla febre in poche parole abbiamo passato 5 mesi d’inferno, appena vevo la moneta limitata di andare negli stati uniti, siamo partiti tutti assieme, eravamo in sei da Schilpario e cinque altri della valle seriana, il Bastimento era diretto per Londra inghilterra, tutti gli altri andavano in Italia, acettuato uno che veniva con me negli stati uniti. Siamo arrivati a new york, da lì abbiamo preso il treno – 75 chilometri di viaggio raggiunto il mio zio nella città di Bridgeport Stato del Conneticut, incominciai a lavorare per una misera paga, dieci ore al giorno e in cattive condisioni di salute, dopo di un’anno lasiai Bridgeport andai nello stato di new Jersey per poco tempo, da lì andai a new york dove o lavorato per un periodo di cinque mesi poi feci ritorno a Bridgeport ove trovai impiego in una fattoria dopo di un’anno feci conosiensa con un organisattore del pugilato, il quale mi induce a fare squola di pugilato, dopo di un’anno di squola finalmente fui messo professionista a combattere, ma la febre mi tormentava di quando in quando, feci cinque combattimenti dove le o vinti tutti prima del limite ma purtroppo io sapevo che non potevo continuare perche la febre malarica mi tormentava sempre, perciò o dovuto smettere la cariera e tornare in Italia. Poi di nuovo sono partito con sei altri compagni, quando siamo arrivati a new york due dei compagni sono andati assieme con un certo Bortolo Batalia quei altri paesani che erano con me, sensa sapere una parola di inglese mi anno supplicato da non lasiarli e cosi per farle piacere a loro siamo partiti siamo andati più per l’uest e siamo andati in uno stato del nevada dove trovai impiego per loro e anche per me in una miniera, lavorai lì per il periodo di 20 mesi, e poi sono partito con altri tre compagni per andare in alaska...».

Nei primi cento anni dell’Italia unita, trenta milioni di italiani scelsero, per lavorare e per vivere, la via dell’emigrazione, dando vita al più imponente fenomeno sociale e demografico della nostra storia contemporanea. Nella sua fase iniziale (i decenni a cavallo del ‘900), il movimento migratorio si diresse di preferenza verso le terre dai grandi spazi e dalle abbondanti risorse non ancora utilizzate: Stati Uniti e America latina. Nel secondo dopoguerra, si indirizzò per lo più verso i Paesi industrializzati dell’Europa centro-settentrionale.
Il fenomeno conobbe una svolta significativa negli anni Ottanta dell’Ottocento. Prima di allora, la media annuale degli espatri, rivolti ancora in larga misura ai Paesi europei e mediterranei, si aggirava sulle 120 mila unità. Fu nel penultimo decennio di quel secolo che il numero degli emigranti superò i 150 mila all’anno, e continuò a crescere, fino a oltrepassare a fine secolo i 300 mila, diretti prevalentemente oltreoceano e anche in Australia. L’incremento continuò, sia pure con un andamento più irregolare, nei primi anni del Novecento: 511 mila unità all’anno nel 1901-1904; 739 mila nel 1905-1907; fino al picco del 1913, quando emigrarono ben 872.598 italiani, su una popolazione che non raggiungeva i trentasei milioni di abitanti.
L’emigrazione temporanea e stagionale di vecchia tradizione – proveniente dalle zone alpine e prealpine e diretta verso i Paesi confinanti (Francia, Svizzera) – fu superata, in termini quantitativi, dopo il 1880, da un’emigrazione stabile, o comunque di lunga durata, che interessò soprattutto il Mezzogiorno e altre regioni particolarmente colpite dalla crisi agraria, come il Veneto. La crisi che colpì l’agricoltura italiana, dopo quella europea, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta del XIX secolo, il ritardo nel processo di industrializzazione e lo sviluppo dualistico, vale a dire fortemente differenziato nei modi e nei tempi fra Nord e Sud, furono le cause strutturali dell’emigrazione italiana e delle grandi proporzioni che essa assunse, specialmente all’inizio del XX secolo. L’emigrazione, per contro, allentando la pressione demografica e la conseguente rigidità del mercato del lavoro, fu una delle condizioni di base dello sviluppo economico dell’Italia, almeno in due momenti-chiave: quello del “decollo industriale” e delle successive crisi di assestamento (1896-1914), e quello della crescita e del “boom” economico, dalla fine della ricostruzione nel secondo dopoguerra all’inizio degli anni Sessanta.

Ma quali furono i costi individuali e collettivi, sotto il profilo sociale e culturale, di questo grande movimento? Sull’emigrazione sono state scritte, in un secolo, migliaia di pagine, ma solo di recente la storiografia ha cominciato a prendere in considerazione le fonti dirette e “povere”, costituite dalle memorie, dai diari e in primo luogo dalle lettere degli emigranti alle famiglie: testimonianze immediate ed efficacissime delle conseguenze dell’impatto con le nuove realtà, delle difficoltà d’inserimento e di comunicazione, dei conflitti insorgenti nell’incontro/scontro fra culture diverse.
Le lettere, in particolare, vennero utilizzate in due direzioni: da una parte, dai fautori dell’emigrazione, classi dirigenti, amministratori pubblici, giornali delle zone interessate, agenti di viaggio; dall’altra, dai contrari, circoli agrari e stampa ad essi collegata, che paventavano di non poter più disporre di un bracciantato a basso costo.
Riportiamo dai documenti dell’epoca. 1878, Nanni Partenio, da Rosario di Santa Fe, Argentina: «La gente più infelice di questo mondo sono quelle povere famiglie, che vendetero tutte le sue sostanze, in Italia per venire tradirsi su queste terre. Vengono sclamati infelici da tutto il popolo, beffeggiati dimandandogli, se la provincia del Friuli hanno impazzito, a venire su queste terre, e con che scopo sono venuti con le famiglie, ora non sano dove andare, perché le promesse furon false. Il terreno è a gratis, ma quel terreno pericoloso e soggetto agli indiani, e ancora non danno vito e bestiami come avevano promesso». E Nanni Partenio, che vive suonando la fisarmonica, deplora che «le rivoluzioni continue» danneggiano i commerci, e che si è dovuto adeguare a una realtà dominata dall’illegalità e dalla violenza, in una terra dove «amazano per un quatrino, perciò si deve stare sempre armato di “revolver” e girare dove vengo invitato, e compagnato dai miei compagni». E’ contento di «poter vedere tutte queste stranierietà», ma precisa che occorrono «buon occhio, buone armi e buoni compagni». E conclude che sarebbe «un bel vivere», se non fosse per la labilità del sistema giudiziario: «Se io amazo uno fose anche a presenza del publico, con cento centocinquanta franchi li porto al presidente, perdonato, e se non è danari mi cambio di provincia, perdonato...».

Oggi emigra materia grigia, espulsa da università e centri di ricerca italiani bistrattati dalla politica nazionale. Ogni tanto, qualcuno torna col Premio Nobel, allora riemerge il problema irrisolto dei “cervelli in fuga”, ma per il solo spazio d’un mattino. E di nuovo, silenzio.
L’ultimo, l’astrofisico Riccardo Giacconi, classe 1931, è cittadino statunitense dal 1977. Era genovese. E’ un ex italiano. C’è chi gli ha chiesto: qualche rimpianto? Risposta: «Assolutamente no. Non mi sono mai pentito di aver fatto la scelta di andarmene. Ho solo nostalgia dell’Italia del 1955, molto diversa da quella di oggi. Ma la mia nostalgia è legata all’ambiente, alle Alpi che ho sempre amato, ai paesaggi della Sicilia piena di sole».
Quando partì non era un bambino, e non lasciò l’Italia a bordo di una “bara galleggiante”. L’Atlantico era molto più stretto, con gli aerei. Ma meno stretto del suo Paese, dove per ricercare avrebbe dovuto chiedere l’elemosina ai burosauri ministeriali. Magari senza il topo, o la scimmia o la marmotta, ammaestrati, che furono compagni di schiavitù di tanti angeli senza nome svaniti oltre gli orizzonti liquidi, oltre i confini rupestri del Bel Paese. Ma con dietro, e dentro, la memoria di una terra, di linguaggi, di colori, di suoni, che furono radici, e che sentono inaridita la linfa e infiochita l’eco, ora, di quanto era stato familiare. Un secolo fa, la fuga come ragione di speranza. Adesso, la fuga come negazione di ogni speranza. Che Paese è stato, che Paese è?

   
   
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