Giugno 2005

DAI RICORDI DELL’ALLIEVO CLARI'

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“Mannaggia ‘e ffemmene!”
Rosario Amodeo
 
 

 

 

 

Conversammo
con lui il tempo sufficiente per
renderci conto
che Alianello le femmine le aveva conosciute sui libri, come Salgari i mari del sud
e le giungle
dell’Oriente.

 

Primo incontro

Era l’autunno del 1951 quando arrivai alla Nunziatella per frequentarvi il liceo classico. Provenivo da Sambuca, un paesino dell’interno della Sicilia dal quale sostanzialmente non ero mai uscito, e, non c’è dubbio, dovevo avere un’aria goffa, imbranata, come si diceva nel nostro gergo militaresco.
Mi aggiravo un giorno nel cortile piccolo, un gruppetto di anziani notò la mia aria spaesata. «Cappellone, sull’attenti! Chi sei? Come ti chiami? Da dove vieni?». Risposi diligentemente alle domande, alle quali ne seguirono altre. Ad un certo punto della singolare conversazione che, benché le domande fossero indiscrete, non m’imbarazzava – quegli allievi non corrispondevano al cliché degli anziani “terribili” – venne fuori che mio padre era un leader del Partito Socialista in Sicilia sin da prima dell’avvento del fascismo. Ernesto, che del gruppetto sembrava il più pronto e interessato a far seguire una nuova domanda ad ogni risposta, scoppiò in una gran risata, una risata di divertita sorpresa, che comunque, ricordo bene a distanza di oltre quarant’anni, non percepii come di scherno.
«Cappello’, allora sei socialista anche tu?». «Certo!». «E allora canta l’Inno dei Lavoratori!». Ed io, senza disagio, attaccai: «Su fratelli su compagne / su venite in fitta schiera / sulla libera bandiera / splende il sol dell’avvenir...». Dovetti cantarlo più o meno tutto, e forse Ernesto mi chiese di continuare con altri canti della tradizione socialista, mentre mi osservava divertito, prorompendo a tratti in risate omeriche e tuttavia non offensive.
Da quel giorno diventai suo copertone e, col passare del tempo, malgrado la differenza d’età (due anni di differenza tra i quindici e i diciassette non sono pochissimi), il rapporto anziano-copertone, senza che ce ne accorgessimo, si andava trasformando in un rapporto d’amicizia, che – ma allora certo non l’avremmo immaginato – sarebbe durato per la vita, sino a quel 27 aprile del 1994, quando avrei fatto con lui un ultimo viaggio trasportando da Livorno a Roma l’urna con le sue ceneri.
Ernesto aveva un fratello minore, Eugenio, mio compagno di corso, oggi regista teatrale di rinomanza mondiale, con il quale nacque uno di quei rapporti che la vita comune condotta alla Nunziatella rendeva fraterni. Ernesto amava molto il fratellino (Eugenio, a quindici anni, era piccolo di statura, il primo della fila nel plotone, ed io subito dietro di lui nella seconda o terza fila). Anche la mia intimità con Eugenio favoriva la comunicazione con Ernesto.
Mi affezionai a questi due fratelli non comuni per ingegno, per carattere, per storia familiare, e il sodalizio si rivelerà emotivamente e intellettualmente ricco.

Dopo la Nunziatella

Conseguita la maturità nel ‘53 (quando lo conobbi era una cappella ripetente), Ernesto si recò a Losanna a frequentarvi i corsi della scuola alberghiera sino al conseguimento del diploma. Il suo temperamento – vorrei dire la sua biologia – non gli consentiva di intraprendere una carriera “normale”; aveva bisogno di emozioni, di sogni, di vivere esperienze diverse da quelle consuete, e anche – fu un dato permanente della sua personalità – di stupire il mondo, di “épater les bourgeois”. Una carriera alberghiera, che lo avrebbe portato a dirigere grandi alberghi nei cinque continenti, parve a lui la più in armonia col suo temperamento (insisto: con la sua biologia).
Andò quindi a Losanna. Io rimasi ancora un anno alla Nunziatella, durante il quale ci perdemmo di vista: solo Eugenio, di tanto in tanto, mi dava qualche notizia. Poi, nel ‘54, anch’io conseguii la maturità e andai a frequentare l’università a Firenze. A partire da quel momento, credo che poche volte Ernesto sia venuto in Italia senza fermarsi a Firenze per trascorrere qualche ora con me, prima di raggiungere Roma, dov’era la casa della mamma.
Gli anni passavano. Ernesto, dopo Losanna, comincerà a vagare per il mondo, da un albergo all’altro, mentre le mie sedi di lavoro, dopo la laurea, cambiavano: da Verona a Napoli, a Roma, a Firenze, a Milano. E ancora una volta, quasi sempre, quando Ernesto veniva in Italia, ci organizzavamo per incontrarci. Ad ogni incontro, ore di discussione fitta, ad inseguire i nostri fantasmi, a comunicarci le nostre esperienze. Era soprattutto lui a parlare, ad inondarmi dei racconti più diversi, a mettermi a parte delle sue letture e delle sue scoperte. Spesso l’incontro era anche l’occasione per una gita, mai decisa a caso, ma sempre alla ricerca di luoghi e situazioni evocative dei nostri miti, in parte comuni: ma quando tali non erano, io ero capace d’interessarmi ai suoi quanto lui ai miei.

Talora tornavamo delusi o “incazzati” da queste gite, come quando ci recammo sulla vetta del Monte Castello per rendere omaggio ai fratelli Bronzetti e trovammo in condizioni di totale abbandono il monumento-sacrario a Pilade e ai trecento garibaldini che con lui caddero nella battaglia del Volturno. Ma anche in questi casi scoprire che ci “incazzavamo” per le stesse cose era come rinnovare un pegno d’amicizia.
E mentre alla Nunziatella le nostre conversazioni erano state generalmente stitiche, condizionate dai problemi e dagli interessi della vita militare, fuori dalla caserma spaziavamo nei campi più vari: le femmine, la politica, la storia d’Italia e quella del nostro Sud in particolare, l’epopea garibaldina, i Borbone e il Regno delle Due Sicilie, il brigantaggio, la poesia, la letteratura. Credo che trovasse in me uno dei suoi interlocutori più stimolanti e attenti, salvo che per i suoi interessi esoterici, che in lui erano vivi e presenti, ma sui quali io non riuscivo a seguirlo perché il mio atteggiamento mentale razionalista me li rendeva alieni. Lui comprendeva la mia chiusura verso i temi dello ctonio, e su di essi non s’intratteneva, se non brevemente e casualmente. Perciò, e me ne rammarico, non potrò parlare dell’Ernesto esoterico e ctonico.
Furono centinaia i nostri incontri, in Italia e all’estero. Ogni occasione era buona per vederci, come quando l’aereo sul quale viaggiavo fece scalo a Khartum, dove lui dirigeva l’Hotel Méridien. Ernesto mi raggiunse nella hall dell’aeroporto, dove ci trattenemmo in conversazione per il tempo della sosta. E poiché i nostri incontri non erano brevi, abbiamo passato in compagnia centinaia di ore, durante le quali ho conosciuto un uomo, un amico che talora ho percepito quasi come un fratello. Di quest’uomo, di quest’amico e della sua personalità, voglio tratteggiare alcuni aspetti, senza pretesa di esaustività, ma con l’ambizione di arricchire la lettura dei ricordi dell’allievo Clarì.



Mannaggia ‘e ffemmene!

Le femmine. Cos’erano le femmine per lui? Erano le femmine: componente primordiale e indefinibile del mistero dell’universo. Il sesso, l’amore, costituivano solo un “di cui” dell’eterno femminino. Le vamp, donne dal fascino sensuale e violento, non lo attraevano: in esse non c’era mistero. Cercava i suoi archetipi nella mitologia: Cerere, dea delle messi, della fertilità, della riproduzione, portatrice del mistero più grande; Ecate, l’infernale divinità greca, identificata con l’aspetto infero di Artemide, evocante pensieri di morte (la morte, ineludibile polo dialettico dell’eros); Venere no, non l’interessava: era l’antenata delle vamp proposte dal consumismo (il “consumerismo”, diceva lui) americaneggiante.
L’attrazione che egli sentiva per le femmine era anche un modo di penetrare il segreto che ciascuna portava con sé e il mistero ultimo, della vita stessa; e quanto più ammirava il mistero tanto più se ne sentiva attratto. Lo dice, del resto, in una bella poesia inedita, parte di una raccolta manoscritta dedicata a me e a mia moglie. L’occasione poetica è offerta dall’inaugurazione del giardino di un emiro; Ernesto immagina di essere il poeta di corte e così si esprime:

 

“E lì sprofondo
in un pozzo di gelsomini
senza fondo.
E ad ogni livello
un profumo diverso.
Al primo nettare di rose.
Degli altri livelli:
i livelli più bassi
i livelli più rossi
i livelli del caos
Lei sola conosce i segreti”.


Lei sola conosce i segreti. E poiché non esistono due femmine uguali tra loro, egli avrebbe voluto conoscerle tutte, per mettere assieme i pezzetti di verità che ciascuna avrebbe svelato, consentendogli di pervenire ad un livello superiore di conoscenza, di scoprire l’ultimo segreto.
Talora si rendeva conto che questa incessante rincorsa era un’illusione e che, dopo aver posseduto un’ennesima donna, restava ignorante delle cose del mondo quanto prima. E allora diceva di volersi rifugiare nel misticismo e nella castità, mentendo anche a se stesso, e magari per un tratto – quanto breve! – faceva il monaco; ma durava poco, e presto riprendeva la rincorsa, alla ricerca di qualcosa – quale misteriosa cosa? – che non poteva esser trovata.
Ma se questo era il quadro esistenziale che determinava la sua attrazione fatale per le femmine, occorre scendere di livello e aggiungere motivazioni più modeste, ma ugualmente vere.
Ernesto era uomo del Sud; nato e cresciuto (sino alla Nunziatella) in Puglia, proprio nel tacco dello stivale italico proteso nel “lago mediterraneo”, aveva assorbito l’interesse pervasivo per le femmine tipico delle culture sessualmente represse (nei paesi arabi, dove le donne son velate, un lembo di piede scoperto o gli occhi lasciati liberi dal velo son sufficienti per innescare desideri incontenibili) e il mito connesso della virilità, del quale si può dire fosse schiavo. Ernesto era anche un bell’uomo, fisicamente ben costruito e attraente, e perciò facile oggetto di attenzioni da parte dell’altro sesso. A queste attenzioni non sapeva sottrarsi; rispondere ad esse al meglio gli pareva quasi un dovere. E poiché spesso le femmine che incontrava non corrispondevano all’archetipo che egli aveva in mente, s’impegnava a costruire da solo, per uso proprio e di quanti, volendogli bene, erano disposti ad ascoltarlo, un alone di immagini poetiche, e comunque fantasiose, tali da innalzare il livello dell’occasionale oggetto d’amore. A tal proposito voglio raccontare un episodio.
Nel maggio del 1990 andai a trovarlo in Marocco, ad Agadir, dove lavorava. M’installai in un delizioso albergo, scelto da Ernesto, nell’oasi di Taroudant e al mattino del primo giorno di permanenza, mentre facevamo colazione, egli mi disse: «Vuoi cenare stasera con me e la mia ragazza marocchina? È la levatrice d’un paese vicino. Andiamo alla “Gazelle d’or”, uno dei posti più belli del mondo. Come vuoi che venga vestita? All’europea o all’araba?».
Ernesto era anche un grande inventore di storie, talché, quando me ne raccontava una, io non sapevo mai se fosse vera o no. In quel caso, in particolare, mi pareva inverosimile che avesse una relazione con la ragazza d’uno sperduto villaggio del deserto marocchino, dove la repressione sessuale è massima. «Credo sia una delle tue solite balle», risposi, «ma se così non è, ci sto. Falla venire vestita all’araba, nel modo più tradizionale».
La sera arrivò nella hall dell’albergo una donna il cui portamento lasciava intuire la giovane età; ma, vestita di nero sino ai piedi e con un velo che lasciava scoperti solo gli occhi, non riuscivo a definirne l’avvenenza, né ad osservarne il volto, che infatti non ho memorizzato. Consumammo un aperitivo conversando (la ragazza si esprimeva in un accettabile francese) e poi ci trasferimmo al ristorante.
Finita la cena, Ernesto disse: «Accompagnamo la ragazza a casa, e così avrai anche modo di vedere il suo villaggio». Vi arrivammo verso le dieci; il paesino – un’oasi del profondo Marocco – era in festa per qualche ricorrenza; nella grande piazza di terra battuta, al centro dell’oasi, si preparavano canti e danze popolari (i danzatori solo maschi); la popolazione seduta ai bordi – per terra o su sedili improvvisati – in attesa dello spettacolo. Entrammo nella piazza e vi passeggiammo, sotto lo sguardo curioso e attonito dei paesani che osservavano i due europei con una loro donna trasgressiva e deviante. Vedemmo l’inizio dello spettacolo e poi accompagnammo la ragazza a casa, distante un centinaio di metri dalla piazza: la lasciammo sull’uscio e rientrammo.
Lungo il percorso del ritorno in albergo Ernesto non riusciva a nascondere la sua “fiera” felicità. Era evidente che si trattava di una storia d’amore di non grande spessore, ma attorno ad essa egli aveva costruito, ad uso suo e di chi, volendogli bene, lo ascoltava, un castello di fantasie poetiche, oniriche ed eroiche: il “guerriero” bianco, arrivato nel profondo Marocco, aveva sedotto una giovane donna e l’aveva indotta a violare i codici della comunità di appartenenza. La modesta storia d’amore si trasformava così in “epica” conquista; l’interesse dell’eros si alimentava con la trasgressione e con l’incontenibile piacere di penetrare il segreto e il mistero d’una femmina araba.
Solo al lavoro – ma non sempre – riservava energie comparabili a quelle dedicate alle femmine, senza la cui costante – e talora ossessiva – presenza forse la sua vita avrebbe avuto diverso svolgimento. Una volta c’incontrammo a Roma. Avevamo entrambi appena letto L’eredità della priora, un bel romanzo – secondo me misconosciuto – di Carlo Alianello. Gerardo Satriano, il protagonista, un ufficiale borbonico ex allievo della Nunziatella, aveva combattuto sino alla fine contro i garibaldini. Caduta Gaeta, Gerardo è un disoccupato senza prospettive. Un giorno, mentre se ne sta seduto davanti al Caffè d’Europa a Toledo con solo poche monete spicciole in tasca, viene avvicinato da Max, un agente segreto dei servizi borbonici. Max, dopo i preamboli del caso, lo conduce da una donna bellissima e misteriosa, anche lei agente segreto, che convince Gerardo, con raffinate arti femminili, ad impegnarsi nella guerriglia dei briganti contro il nuovo Stato nazionale unitario.
Nel giro di qualche anno l’esercito italiano riesce a reprimere la ribellione dei contadini-briganti e Gerardo, per la seconda volta, si trova “disoccupato”. Una goletta lo imbarca di soppiatto a Salerno e lo porta a Civitavecchia (ancora nello Stato della Chiesa). Mentre era seduto al tavolino d’un piccolo caffè proprio sul porto, di nuovo senza soldi e senza prospettive, viene avvicinato da Caruso, un compagno della Nunziatella, che recluta “volontari” per la guerra civile in corso negli Stati Uniti. Gerardo non respinge la proposta di Caruso, che però avverte qualche riluttanza, qualche resistenza. Si alzano, e Gerardo: «... paga tu. Io non tengo nu... A proposito, stanotte dove dormo?». L’abile Caruso gli offre la soluzione che avrebbe dissolto i dubbi, le ultime resistenze di Gerardo. «Sarai ospite nostro, degli americani. Tutto pagato... Eppoi ci sta un’americanina... americana del sud, una creola... che occhi, che fianchi, che gambe, che petto!... tiene la pelle janca, e l’uocchie nire – pare la luna co’ doie stelle in fronte!». Giusto, giusto, pensava Gerardo. È sempre la stessa trappola. L’antico compagno d’arme t’incontra e t’offre un avvenire brillante e danaroso, quando sanno che sei un pezzente. E poi la bella donna fa il resto e vince le ultime resistenze, se ce ne sono... Intanto andavano avanti, mentre la tramontana incalzava. Gerardo brontolò qualcosa, già consapevole che avrebbe ceduto. Caruso non capì. «Che dici?». «Niente». «Come niente?». «Ho detto», disse Gerardo, «mannaggia ‘e ffemmene!».

Ernesto e io avevamo trovato magistrale la conclusione del romanzo, del quale parlammo a lungo per concludere che l’autore doveva essere uno straordinario conoscitore di femmine e dei percorsi mentali e psicologici della seduzione. Sarebbe interessante parlare con Alianello, ci dicemmo. Sapevamo che abitava a Roma; consultammo l’elenco telefonico e vi trovammo il suo numero. Lo chiamammo. Ci ricevette subito nella sua casa nei pressi, mi pare, della Via Salaria. Trovammo un uomo non più giovane, immerso in uno studio pieno di scartoffie e cimeli borbonici.
Conversammo con lui – egli si prestava ad ascoltare e rispondere – il tempo sufficiente per renderci conto che Alianello le femmine le aveva conosciute sui libri, come Salgari i mari del sud e le giungle dell’Oriente. Quando uscimmo Ernesto era deluso: aveva sperato che il Maestro potesse svelargli qualche mistero, a lui sconosciuto, dell’universo femminino, che sarebbe riuscito a portarlo per mano in meandri inesplorati, poiché questo gl’interessava. Mannaggia ‘e ffemmene!
Alla luce di quanto ho cercato di dire va letto uno dei racconti più belli dell’allievo Clarì: “Gli arcobaleni della Floridiana”. La professoressa de Rossi-Balsamo è la metafora di tutti i suoi miti: la “Femmina ad Alto Livello”, la “Femmina di Gran Classe”, la “Gran Femmina”, la “Femmina Fina” (“fina”, come aveva già detto Federico stupor mundi, la femmina trasgressiva e un po’ perversa che sa intuire le aspettative del giovane allievo ancora inesperto, ma profondamente curioso «de li vizi umani», e lo asseconda compiacendosene: lo invita in un pomeriggio festivo al museo della Floridiana, lo conduce nella sala degli specchi, si denuda e si masturba collocandosi in una posizione che non consente a Clarì di osservarla direttamente, ma solo riflessa dagli specchi, e che alla fine, quando stanno per lasciarsi davanti agli scalini della funicolare centrale, lo saluta porgendogli la mano con la quale si era masturbata: «Allievo Clarì, ma alla Nunziatella non v’hanno insegnato a baciare la mano alle Signore?».

Ernesto e il fascismo

Diceva di essere fascista. Anzi – precisava con compiaciuto e provocatorio puntiglio – nazista. Ma vediamolo più da vicino questo fascismo e questo nazismo.
Rampollo di famiglia patrizia gallipolina, un antenato paterno era stato garibaldino e aveva avuto un ruolo nella politica locale, interessandosi in particolare alla pubblica istruzione e fondando un museo che esiste tuttora. Il padre di Ernesto, Emanuele, volontario e ardito nella Grande Guerra, era stato naturaliter fascista e aveva avuto un ruolo, sia pur periferico, nella lotta politica della sua regione nel primo dopoguerra, tanto da esser citato nella monumentale Storia della rivoluzione fascista del Chiurco. Diventato ufficiale della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, Emanuele concluderà la carriera come console generale della Milizia in Libia. Morirà nel ‘47 per postumi di malattia contratta in guerra. Per parte di madre Ernesto proveniva da una famiglia di militari da più generazioni, più monarchici e conservatori che fascisti, comunque certamente collocabili a destra. Dopo la morte del padre, la nuova Repubblica non riconobbe immediatamente alla vedova il diritto alla pensione: Emanuele, pur avendo servito la Patria, lo aveva fatto nella Milizia del Regime. La famiglia, ovviamente, non poté non considerare un’ingiustizia il ritardato riconoscimento d’un diritto. Questi erano gli umori e la storia familiare che Ernesto respirò dalla nascita. La sua collocazione a destra era quindi “naturale” quanto lo era stata l’adesione del padre al fascismo.
Detto questo, Ernesto fu una delle menti più libere che io abbia conosciuto. Io, peraltro, ero comunista, e nel Partito Comunista italiano per alcuni anni ho militato. Ma mai questa diversa collocazione politica disturbò il nostro rapporto; al contrario, essa costituiva motivo di ulteriore interesse reciproco, e ciascuno raccontava all’altro le sue “cazzaten” trovando un interlocutore curioso e voglioso di comprendere. Certo, volendo a tutti i costi spaccare in due le culture e gli atteggiamenti mentali e collocare necessariamente gli uomini a destra o a sinistra, certo, in questo caso, Ernesto stava a destra, poiché in questa direzione lo sospingevano i suoi interessi per l’esoterismo e lo ctonio, il suo rifiuto viscerale di una lettura materialista della realtà, il suo individualismo sfrenato che lo rendeva sensibile ai miti del superomismo. Ma il suo archetipo di superuomo non era insensibile alla sofferenza degli umili, come dimostra una bella poesia intitolata “Questione meridionale”, tratta dalla sua prima raccolta Sistole & Diastole. Eccone il testo:

 

“Sulla strada di Metaponto
li polizziotti m’anno sparato addosso.
Acciso e sanguinato
per 5 metri ho camminato a sforzo.
In una mano tenevo cicoria
e nell’altra una bandiera rosso.
Poi ho caduto morto sotto un fosso”.

Ma c’è di più. Il superuomo poteva anche essere di sinistra. Da qui l’ammirazione, l’amore vorrei dire, per Che Guevara, al quale dedicò una delle sue poesie più belle, che mi mandò manoscritta e che purtroppo non riesco a ritrovare; ma ne ricordo un verso, che lascia intuire il resto: “Il millennio è tuo”.
E poi ricordo che c’incontrammo poco dopo l’uccisione di Allende. È forse l’unica volta che lo vidi commosso sino alle lacrime. La fine di quell’uomo che aveva difeso La Moneda con l’elmo in testa e un’arma in mano, morendo sul campo dell’onore, lo aveva profondamente turbato. Mi disse: «Il Sud America è pieno di quaquaraquà; ma quando vi nasce un Uomo, ha un paio di coglioni che qui ce li sognamo». E quasi pianse.

Una mente straordinariamente libera e aperta, ho detto. Nasceva anche da qui il suo interesse per gli eretici. Ad un certo punto scoprì Giulio Cesare Vanini, un eretico di Taurisano, in provincia di Lecce (suo corregionale, quindi). Non so come lo scoprì: ma mi scrisse – non ricordo da quale parte del mondo – per saperne di più. Io, che ne ignoravo l’esistenza, colsi l’occasione per documentarmi. Il povero Vanini, che si era rifugiato a Tolosa – dove viveva insegnando – nel tentativo di sottrarsi all’Inquisizione, viene tradito forse da un allievo. Convocato davanti al tribunale per ateismo e bestemmia, cercò di respingere gli addebiti. Ma quando si vide perduto, accettò con coraggio la propria sorte. Sul patibolo gli tagliarono la lingua prima di strangolarlo e bruciarlo.

Ci innamorammo del personaggio, tanto che io mi recai a Taurisano a visitarne la casa natale. Glielo scrissi. Dopo qualche tempo mi mandò da Tolosa una cartolina illustrata; sul retro questa poesia:

 

“Cataro più che perfetto
sobrio, casto, errante
per l’Aquitania, Occitania, Roussillo’
Poi a Place des Salines
la baciai
e abiurai il tutto
‘Mais pourquoi ici’
qu’elle me dit.
‘Car sur cette place
on a brulé un ami
un vieux copain de mon pays’”.

Vanini l’eretico, dunque, un amico, un vecchio compagno del suo paese. (Notare come il ricordo del martire gli fa abiurare “il tutto” e lo induce a rituffarsi nell’eros: valore superiore? Verità maggiore? Riaffermazione di libero vitalismo contro ogni fanatismo?).
Un giorno, in Sicilia, preparandoci a ripercorrere l’itinerario dei Mille, rileggemmo le Noterelle dell’Abba. In mare, il 6 maggio 1860, sul “Lombardo”, Abba scrive: «Vedremo Palermo? Vedremo la piazza dove fu fatto l’Auto da fé di fra Romualdo e di suor Gertrude? Il Padre Canata ce lo lesse nel Colletta in iscuola; e leggendo pareva che schiaffeggiasse la plebe e i grandi, che banchettarono cogli occhi sul rogo».
«Ernestì, ma chi cazzo erano sti Romualdo e Gertrude?». E via a ritrovare il Colletta, a rileggere quella magnifica Storia del Reame di Napoli sino a trovarvi narrata la vicenda tragica dei due. «Ambo folli», – dice il Colletta – «però che il frate... diceva ricever angeli messaggieri da Dio, parlar con essi, esser egli profeta, essere infallibile: e la Geltrude, tener commercio di spirito e corporale con Dio, essere pura e santa, avere inteso dalla Vergine Maria non far peccato godendo in oscenità col confessore; ed altri assai sconvolgimenti di ragione... Chiusi nelle prigioni, la donna per venticinque anni, il frate per diciotto... tollerarono i martori più acerbi, la tortura, il flagello, il digiuno, la sete; e alla fine giunse il sospirato momento del supplicio».
Segue la descrizione particolareggiata dell’atroce supplizio, preceduto da abbondanti libagioni per «la plebe e i grandi», mentre si preparava il rogo. «... prima la donna salì al palco; e due frati manigoldi la legarono al tronco, e diedero fuoco alle chiome, imbiotate innanzi di unguenti resinosi acciò le fiamme durassero vive intorno al capo; indi bruciarono le vesti, anch’esse intrise nel catrame, e partirono... Così fra Romualdo morì nell’altro rogo, dopo aver visto il martirio della compagna». Non ci bastò la lettura del Colletta, e cercammo di saperne di più, in particolare su Gertrude, che mescolava eros ed eresia; e chi scopriva nuove informazioni – e ne trovammo – le comunicava all’altro. E per anni “Ambo folli” diventò quasi una nostra divisa.
Per quanto sin qui detto, ci teneva molto, quando si definiva “fascista”, a distinguere la sua collocazione culturale e politica dalle generiche posizioni di conservazione e/o di moderatismo di destra. Più ancora teneva a dissociarsi dalle dittature militari, in particolare di tipo sudamericano, che aborriva, perché solo preoccupate di difendere gretti interessi di classe o addirittura di casta. Sovviene ancora una volta una sua poesia (“Todo por la patria”, da Sistole & Diastole) ad illustrare – meglio delle mie parole – i suoi sentimenti:

 

“Polizia
con le scarpe pulite
con le unghie alluttate
con i baffi fascisti
con gli occhiali da sole
e uno sputo nel cuore
Messico
Caraibi
America del Sud
America del Centro.
Se una persona mi gusta
se voglio bene a un amico
me lo mettono dentro”.

 

Ernesto e la Nunziatella

La Nunziatella ha in comune con le Istituzioni antiche e consolidate una caratteristica curiosa e interessante al contempo: quasi tutti coloro che le compongono vi trovano ciò che vogliono, vi attingono ciò che a loro serve. Si pensi a una grandissima Istituzione, forse la massima al mondo: la Chiesa cattolica. In essa si riconoscono il Poverello di Assisi e San Luigi di Francia; tradizionalisti, conservatori, vandeani e teologhi della liberazione, e così via. L’Istituzione è una sorta di grande ombrello sotto il quale si rifugiano gli adepti: e l’ombrello tende a dilatarsi per quanto serve a chi ci sta sotto.
Così è anche per la Nunziatella. Ricordo in proposito quanto colpisse me – giovane allievo – il fatto che venissero parimenti onorati l’ex allievo Carlo Pisacane e gli ex allievi che combattevano sull’altro lato della barricata per il re borbone contro l’unità d’Italia. O ancora, in questo dopoguerra, in epoca di guerra fredda, di discriminazioni e di tenaci odi ideologici, come venisse riconosciuto e rivendicato il passato di ex allievo di Mario Palermo, leader comunista di rilievo nazionale.
L’Istituzione è larga, comprensiva ed Ernesto in essa si riconosceva. In essa e attraverso essa faceva rivivere i miti della sua gioventù: e persino i ricordi meno belli di quei quattro anni trascorsi nel Rosso Maniero, col passare degli anni, attraverso un procedimento mitopoietico innescato dalla nostalgia, perdevano la connotazione negativa.
Tante volte abbiamo esaminato assieme cosa rappresentasse la Nunziatella per noi. Io, più freddo e distaccato, mettevo in luce anche gli aspetti non positivi dell’esperienza. Lui ascoltava, forse capiva, ma si chiudeva a riccio ed era evidente il suo intendimento di rimuovere – o almeno di voler ignorare – i miei argomenti. Non si lasciava sfuggire l’occasione per un incontro conviviale con gli ex allievi, o per partecipare – quando poteva – al rito del 18 novembre a Napoli. Benché anch’io non rifuggissi da tali incontri e qualche volta sia stato presente il 18 novembre sulla collina di Pizzofalcone, ero tuttavia meno assiduo di lui. Talora è successo che tornassimo da un incontro – al quale magari lui mi aveva trascinato – un po’ delusi: gli ex allievi convenuti avevano avuto percorsi di vita molto diversi dai nostri, per cui la conversazione – dopo l’ondata iniziale dei “ti ricordi...”, – fluiva con qualche fatica e l’interesse delle retrouvailles scemava. Io glielo facevo notare; lui l’ammetteva; ma alla prima occasione mi riproponeva gli stessi incontri.
Forse, se mi sforzassi, potrei riuscire ad analizzare cosa rappresentava la Nunziatella per lui, al di là delle considerazioni immediate e superficiali, quali il ricordo della gioventù, il calore della solidarietà, gli anni della formazione e della scoperta della vita e del sesso, la tolleranza di un’istituzione che accettava da parte degli allievi scostamenti anche grandi dalla medietà, e sullo sfondo la città di Napoli che, pur ammaccata dalle miserie antiche e del recente dopoguerra, restava straordinariamente affascinante.
Forse, dicevo, potrei riuscire ad andare più a fondo; ma poiché questo libro [allude a Il Chepì dell’allievo Clarì, A.N.N., Napoli 1996, edizione di mille esemplari promossa dagli ex allievi della Scuola Militare Nunziatella di Napoli, il cui editing è stato curato da Maria Jatosti, N.d.R.] verrà letto prevalentemente da ex allievi, penso di poter omettere considerazioni più approfondite. I commilitoni che leggeranno conoscono – e quando non con la testa l’avvertono con la pancia – la natura del nostro legame con la Nunziatella. Natura che emerge dal testo – che a me pare struggente – di questa poesiola, scritta sul retro di una cartolina illustrata, che mi inviò da Khartum per gli auguri di Pasqua ‘76:

 

“Ricordo Napoli,
Principio Primavera.
La divisa leggera, il tenente
Pacchialone
Le celle ancora fredde, la licenza
perduta e la pastiera.

Ricordo Napoli, principio Primavera!”.


Ernesto e l’amicizia

Non mi risulta che avesse moltissimi amici, anche perché – con modalità assolutamente personali – era fortemente selettivo. Ma quando innalzava qualcuno al rango d’amico, mostrava per costui attenzioni comparabili a quelle d’un amante.
È arduo fare un elenco delle suddette attenzioni, poiché esse si manifestavano attraverso piccoli gesti e comportamenti della vita quotidiana di difficile ricostruzione e forse anche di scarso interesse per chi legge. Ma un paio di cose voglio dirle.
Innanzitutto la corrispondenza. Tra un incontro e l’altro, Ernesto non spariva, continuava a essere presente e a dare notizie con lettere, non fittissime, ma regolari. Era un piacere ricevere una sua lettera: mai banale, ognuna conteneva uno scoppiettio di osservazioni acute sulla vita che conduceva, le esperienze che faceva, il mondo che lo circondava. Inoltre, normalmente arricchiva il testo con una poesia estemporanea, qualche calembour, una cartolina illustrata originale, e così via.
Io gli rispondevo regolarmente. Ma le mie lettere non erano come le sue: erano comunicazioni notarili di quanto accadeva nella mia vita. Più volte mi ha scritto “incazzato”: «Se non la smetti di fare il notaio e di inviarmi lettere che somigliano a comunicazioni burocratiche, io smetto di scriverti». Gli replicavo che facevo quel che potevo, e che non ero capace di concepire lettere come le sue. Immagino che leggendo la mia giustificazione lui avrà sorriso e “perdonato”. Di fatto non metteva in atto la “minaccia”, poiché per lui scrivere rappresentava un bisogno personale, oltre che un’attenzione dovuta all’amico.
Purtroppo ho conservato pochissime delle sue lettere, poiché ho sempre avuto l’abitudine di cestinare normalmente la corrispondenza dopo averla evasa. Me ne rammarico molto, poiché oggi l’insieme delle sue lettere cronologicamente ordinate – e magari cucite tra di loro con i necessari raccordi di informazioni – potrebbe costituire un interessante epistolario, degno di essere pubblicato almeno quanto questi ricordi dell’allievo Clarì.
Dicevo sopra della difficoltà – forse dello scarso interesse – di raccontare gli episodi attraverso i quali manifestava la sua attenzione per gli amici. Ma uno lo voglio raccontare, perché si tratta d’un episodio tanto piccolo e modesto in sé quanto significativo.
Un giorno della fine dell’82, parlando di cinema, ricordammo un vecchio film: “Le quai des brumes”. Gli dissi che mi era piaciuto il manifesto di presentazione del film, tanto che l’avevo acquistato. Purtroppo – aggiunsi – in uno dei miei traslochi è andato smarrito. Fu appena un accenno, anche per l’oggettiva scarsa importanza della cosa; e la conversazione continuò divagando su altri temi. Ernesto andò a passare le vacanze di Natale a Parigi: al ritorno mi portò in regalo il manifesto di “Le quai des brumes”. Poiché si trattava d’un vecchio film, uscito dai circuiti commerciali da parecchi anni, lascio immaginare quanto avrà dovuto faticare per trovare un “reperto” che dopo tutto non m’interessava più di tanto, anche se nel corso d’una conversazione gli avevo espresso en passant il disappunto per averlo smarrito.
Certo, un paio di volte nella vita abbiamo anche litigato, perché quando s’“incazzava” poteva inutilmente e impropriamente eccedere. Ma i tempi di “sbollimento” della sua “incazzatura” erano così repentini da suscitare persino sconcerto e da disarmare completamente la persona con la quale l’alterco era nato (altra cosa, ovviamente, quando decideva che qualcuno non meritava la sua stima o il suo affetto: in questo caso semplicemente lo cancellava).
Ernesto e la poesia
Era un poeta autentico, con una vena naturale inesauribile. Un poeta, per intenderci, alla Paul Fort o alla Jacques Prévert. E forse, se avesse scritto in francese e in Francia – Paese più sensibile ad una poesia facile, da chansonnier – sarebbe stato altrettanto noto di Fort o Prévert.
La sua prima raccolta è del ‘73, e l’ho già ricordata: Sistole & Diastole. Aveva messo assieme negli anni tante poesie da giustificare un libro: ma gli costava molto cercarsi un editore. Intanto per orgoglio: non riusciva ad accettare di sottoporsi al giudizio, pur necessario, di un editore o dei suoi consulenti, che magari gli avrebbero richiesto tagli o modifiche. Ma forse c’era anche della pigrizia, poiché – l’ho sperimentato – è proprio faticoso e noioso trovarsi un editore.
Pubblicò così a sue spese per le “Edizioni Siddharta” (da lui “inventate”, e la scelta del nome non è casuale) il frutto della sua fantasia poetica, da regalare agli amici, ai suoi estimatori, ai conoscenti di riguardo. Venne fuori un libretto in carta riso, rilegato in modo elegante e originale, contenente circa centoventi poesie. La pagina successiva alla prima (quella col titolo Sistole & Diastole) così recitava: “Edizione straordinaria per gli amici di Francesco Marra”. Non so perché abbia usato lo pseudonimo di Francesco Marra; purtroppo non ebbi mai la curiosità di chiederglielo, neanche quando uscirà la seconda raccolta con lo stesso pseudonimo. Ma è evidente l’intento di scegliere – come nome d’arte – un cognome inconfondibilmente napoletano.
Quando ebbi il libro e lo lessi, gli scrissi che mi era piaciuto molto e mi aveva emozionato; gli chiesi inoltre perché non aveva cercato un editore italiano in grado di assicurare un minimo di distribuzione nelle librerie. Ai due motivi cui ho fatto cenno – l’orgoglio e la pigrizia – ne aggiunse un terzo: se le poesie valgono qualcosa, prima o dopo qualcuno, magari tra un secolo, finirà con lo scoprirle, in caso contrario, se valgono poco, è giusto che restino solo nelle mani degli amici come ricordo di Ernesto.
Decisi, dopo questa risposta, di tentare io stesso di dar notorietà a Sistole & Diastole. In quegli anni – all’incirca la metà degli anni ‘70 – c’era in Italia un premio letterario del quale era gran patron il filosofo Armando Plebe, in quel momento “maitre à penser” ed esponente culturale di spicco del Movimento Sociale Italiano. Si trattava forse dell’unico premio gestito dalla Destra in Italia. Il libro di Ernesto mi parve degno di essere sottoposto alla giuria. Facevo affidamento innanzitutto, com’è ovvio, sulla qualità complessiva dell’opera. Ma contavo anche sull’effetto che avrebbe potuto fare una poesia (“Lontano a Oriente”, dedicata a Piero Buscaroli) nella quale Ernesto rivendicava di essere fascista. Eccone il testo:

 

 

“Perché non torni in Italia?”
“Perché no”.
“Perché no?”
“Perché sono un fascista”.
“Ma cos’è un fascista?”
“Un fascista
è figlio del Sole
fatto di sangue e di sogno”.


I giurati “nostalgici” andranno in sollucchero – mi dissi – quando la leggeranno. Misi a parte della mia idea la madre di Ernesto, e decidemmo d’impegnarci per far premiare il libro, tanto più che ella avrebbe forse potuto mettere in campo sue relazioni personali, in particolare attraverso l’Associazione famiglie caduti in guerra. A distanza di un ventennio, non ricordo esattamente cosa sia successo: mi pare che il premio non venisse assegnato perché Plebe – non nuovo a repentini cambi di fronte – ancora una volta aveva cambiato i suoi riferimenti politici e ideologici. Fatto sta che il tentativo non andò in porto.
Una dozzina d’anni dopo, uscirà una nuova raccolta – A Sud di Palermo – che s’ispira alle sue esperienze di vita in Sicilia (lavorò nell’isola, anche con importanti incarichi di direzione alberghiera, per alcuni anni). Di nuovo usò lo pseudonimo di Francesco Marra, di nuovo a sue spese, di nuovo per un editore inventato: “Edizione Karma System” (e anche qui la scelta del nome non è casuale).
A mio parere – ma è solo un’opinione personale, e io non sono un esperto – questa seconda raccolta vale meno della prima. Intanto il testo delle poesie è in media più breve, e poi, globalmente, mi sembrano meno ispirate e “sofferte”. Mi pare di avvertirvi il mestiere di chi ha imparato a manipolare le parole per costruire con esse dei versi, magari con l’ausilio di un rimario. E tuttavia si tratta di un buon lavoro, colto e raffinato.
Infine, dall’esperienza in Tibet – la penultima della sua vita professionale – trasse un bel poema. Lo intitolò La Cugina del Lupo e lo presentò come Poemi del VI Dalai Lama tradotti da Francesco Marra. Questa volta decise di non affrontare le spese tipografiche per pubblicare a stampa, e quindi di non inventarsi un editore. Utilizzò un buon personal computer e rilegò le pagine del testo in modo particolarmente elegante: le copertine costituite da tavolette, graziosamente ornate, e il tutto tenuto assieme, anziché dalla tradizionale rilegatura, da un foulard orientale di seta cruda. L’intento di regalare il poema agli amici come regalo di Natale ‘92 è esplicitamente confessato a pagina 1.
Queste sono le tre opere poetiche in qualche modo edite. Personalmente possiedo poi una raccolta manoscritta – Quel Giardino in Sicilia – dedicata a mia moglie e a me, della quale ho già fatto cenno: un dono che ci fece in seguito ad una lunga permanenza, ospite a casa nostra, in Sicilia. E una seconda breve raccolta – a me dedicata – che mi regalò per le feste di fine anno ‘82/‘83. Di queste due raccolte manoscritte forse ho copia solo io, e mi piacerebbe avere l’opportunità di farle pubblicare, perché ritengo ne valga la pena.
Non posso escludere che altri suoi amici – sparsi ai quattro angoli della terra – abbiano ricevuto simili omaggi: è anzi verosimile, e sarebbe auspicabile poterli mettere assieme e conoscerli tutti.
Esistono infine decine di poesie sparse che lui mi inviava (devo supporre non solo a me, ma anche ad altri amici) scrivendole su supporti improvvisati: il retro di una cartolina illustrata, un foglio da lettera d’albergo, talora addirittura un pezzo di carta da imballaggio nel quale era stato avvolto un oggetto. Per quanto riguarda quelle in mio possesso – quelle che non ho smarrito – sono ben custodite, per il piacere di conservarle e perché sarei lieto di renderle note.
In prosa ha scritto poco; nel corso dei decenni mi ha fatto leggere qualche breve racconto; ma niente d’importante. Salvo quest’ultima opera, che esce postuma per i tipi della nostra Fondazione.
Ma Il Chepì dell’allievo Clarì, anche se scritto in prosa, a me pare un’opera poetica, poiché i ricordi dell’ex allievo son filtrati dalla fantasia e dall’immaginazione sino a perdere i connotati del ricordo autobiografico e ancora di più quelli d’un saggio sugli anni della Nunziatella.

Ma chi era Ernesto?
Nella prima poesia del già citato Sistole & Diastole – a mo’ d’introduzione alla raccolta – lui così si descrive:

 

“Francesco Marra
sempre senza una lira
sempre innamorato
colla capo piena di vento
sempre stonato.
Quando morirà seppellitelo
con ‘Il libro dei sogni’
e la coppola in capo”.

Non c’è dubbio che si sia lucidamente autodefinito: aveva sempre “la capo piena di vento”, ed era sempre senza soldi. Vero, verissimo.
E tuttavia io invece lo ricorderei cosi:

 

“...
né dolcezza di figlio, né la pièta
del vecchio padre, né ‘l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
ch’ i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
...
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso”.

Vale, Ernesto.


(Da Il Chepì dell’allievo Clarì, edizione di mille esemplari promossa dagli ex allievi della Scuola Militare Nunziatella di Napoli, 1996).

   
   
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