Settembre 2005

Famiglia, istruzione e ricchezza delle nazioni

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Il valore
del capitale umano
Gary S. Becker Premio Nobel per l’Economia
 
 

 

 

 

 

Il successo
dipende
dalla capacità di una nazione
di utilizzare la sua gente: se una quota significativa della popolazione viene trascurata,
qualunque nazione fallirà nel mondo moderno, per quanti macchinari possieda.

 

Il capitale umano ha a che fare con le competenze, l’istruzione, la salute e la formazione degli individui. Si tratta di capitale perché tale competenza o istruzione è parte integrante di noi ed è qualcosa che dura, al modo in cui dura un macchinario, un impianto o una fabbrica.
Fino all’Ottocento, l’investimento sistematico in capitale umano non ebbe particolare importanza in nessun Paese. Le spese in istruzione, formazione e altri tipi di investimento erano molto ridotte. Le cose cominciarono a cambiare radicalmente nel corso del nuovo secolo, con l’applicazione della scienza allo sviluppo di moderni beni e di metodi di produzione più efficienti, prima in Gran Bretagna e poi gradatamente negli altri Paesi.
Nel Novecento, istruzione, competenze, conoscenze in genere diventano determinanti cruciali della produttività di individui e nazioni. Il Ventesimo secolo può essere addirittura definito come l’età del capitale umano, nel senso che fattore primario del livello di vita di un Paese è la sua capacità di sviluppare e utilizzare competenze, conoscenze, salute, usi e costumi dei suoi abitanti.
Secondo alcune stime, negli Stati Uniti e in altre società avanzate il capitale umano – istruzione, formazione nei suoi diversi aspetti e salute – rappresenterebbe l’80 per cento del capitale, ossia della ricchezza totale del Paese. Quand’anche tali stime siano esagerate – e non credo che, nel caso, lo siano di molto – esse indicano comunque con chiarezza che un Paese che trascura il capitale umano lo fa a suo rischio e pericolo.
L’importanza del capitale umano per la crescita economica è dimostrata in maniera persino enfatica dai risultati brillanti di Giappone, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud e altre economie asiatiche (l’India, la Cina) in rapido sviluppo. Si tratta peraltro di esempi in qualche misura ovvi, in quanto molti di questi Paesi sono privi di risorse naturali – tipicamente assai sovrastimate come determinanti del successo economico – e devono fare i conti con le barriere all’importazione che l’Occidente pone ai loro prodotti. Ciò nonostante, sono riusciti a svilupparsi in tempi estremamente veloci, e questo è dovuto in misura significativa al fatto di avere una forza lavoro istruita, aggiornata e laboriosa, ma anche famiglie che si occupano molto dei figli.

Ogni cultura è capace di produrre nazioni in grado di svilupparsi con successo: vale per l’Asia come per l’America Latina, dove si possono citare ad esempio il Cile e forse anche il Brasile. Non è la cultura ad avere impedito all’Africa di crescere, bensì le politiche che i governi hanno inflitto ai loro popoli. Con politiche sane, nulla nella cultura africana impedirebbe a quelle nazioni di unirsi in numero crescente ai Paesi economicamente avanzati del mondo.
Gli economisti hanno analizzato la crescita di più di cento Paesi a partire dal 1950 e si sono chiesti perché alcuni di essi, come la Corea o Taiwan, partiti da livelli bassissimi, sono ora decisamente ricchi, mentre altri, come la Nigeria e altri Paesi africani, i cui livelli di partenza erano analoghi, sono rimasti economicamente stagnanti o sono addirittura regrediti. E perché una nazione come l’Argentina, un tempo una delle più ricche del mondo, ha imboccato un percorso di declino che dura da oltre sessant’anni? Quasi tutti questi studi mettono in luce che l’utilizzazione dell’istruzione e della salute (misurata dalle attese di vita) è un fattore determinante.
Non sto dicendo che la dotazione in impianti e capitale fisico sia, in un’economia moderna, irrilevante. È ovvio che macchinari, attrezzature e impianti sono necessari: ma per utilizzare in maniera efficace questi strumenti sono necessari anche lavoratori e manager esperti e imprenditori innovativi. Vi sono molti esempi di nazioni che hanno importato le attrezzature migliori e hanno ottenuto risultati non più che deludenti. La crescita risulta impossibile in assenza di una solida base di capitale umano. Il successo dipende dalla capacità di una nazione di utilizzare la sua gente. Se la gente è trattata male, se si lascia che le persone investano troppo poco su se stesse, se una quota significativa della popolazione viene trascurata, qualunque nazione fallirà nel mondo moderno, per quanti macchinari possieda.

Istruzione e formazione promuovono la crescita e l’efficienza, ma non solo: possono ridurre la diseguaglianza e le conseguenza negative di un ambiente di provenienza svantaggiato. Per i giovani capaci e poveri, l’istruzione è lo strumento più efficace per salire nella gerarchia economica: per il 90 per cento della popolazione, infatti, proprio il capitale umano rappresenta il bene principale di cui sia in possesso. È per questo che in un Paese la diseguaglianza dei redditi è maggiore quando maggiore è la diseguaglianza nell’istruzione. Di fatto, e in via generale, la diseguaglianza dei redditi è correlata alla diseguaglianza nel possesso delle diverse forme di capitale umano: dalla formazione sul lavoro alla salute e all’istruzione scolastica.
Non sorprende, dunque, che l’accresciuta diseguaglianza dei redditi negli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni Settanta sia stata provocata in buona parte dalle remunerazioni crescenti collegate a migliori livelli di istruzione e formazione; e che molti Paesi, come il Messico e il Brasile, abbiano grandi sacche di povertà collegate a disparità regionali nelle opportunità di istruzione.
Da dove proviene il capitale umano? Che cosa costituisce un investimento di successo in capitale umano, a livello individuale o nazionale? Si deve cominciare dalla famiglia, che è il fondamento di una società buona e del successo economico. Le famiglie sono cambiate nel tempo, ma sono ancora molto importanti nell’economia moderna. Per capire che cos’è e come si forma il capitale umano, bisogna tornare alle famiglie: cioè a chi si prende cura dei bambini e tenta, con tutte le risorse di cui dispone, di dar loro educazione e princìpi. In tutte le società la famiglia è una delle istituzioni più importanti: alleva i giovani e inculca i valori nella generazione successiva, produce cibo, vestiario, ecc., interviene nelle emergenze e assiste gli anziani.

La famiglia, naturalmente, non è rimasta inalterata nel tempo. La famiglia tipica è oggi per molti aspetti assai diversa da quella che era qualche secolo fa. Per un certo tempo, in Europa e in Nordamerica il ritmo del cambiamento è stato lento. Nel XX secolo, però, e soprattutto negli ultimi quarant’anni, ha fortemente accelerato. Di fatto, i mutamenti sono stati più rivoluzionari nella seconda metà del secolo scorso che in qualunque periodo comparabile della storia moderna.
Nell’Ottocento, anche negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa, nella famiglia tipica c’erano da quattro a sei nascite. I tassi di natalità sono andati declinando lungo tutto il XX secolo, sicché oggi in molti Paesi la fertilità è molto scarsa per sostituire la popolazione. Il tasso di fertilità è inferiore a quello di sostituzione in Italia, Germania, Spagna, Portogallo, Corea del Sud, Giappone, e in parecchie altre aree.
Al contrarsi dei tassi di natalità, è cresciuta la quota delle nascite da donne non sposate. Negli Stati Uniti, più del 30 per cento del totale delle nascite avvengono da donne non sposate; le percentuali sono inferiori, ma confrontabili in Gran Bretagna e in Scandinavia, e tendono a crescere in molte altre nazioni.
Nei primi del Novecento, molte donne di famiglia contadina lavoravano in campagna, e nelle città le donne a volte lavoravano a pagamento a domicilio, ma quelle che entravano a far parte della forza lavoro erano relativamente poche. Oggi i tassi di partecipazione alla forza lavoro sono altissimi anche per le donne sposate.
La quota della popolazione sopra i sessant’anni è cresciuta rapidamente e continuerà a salire, per due ragioni: la fertilità è bassa e tende a declinare ulteriormente, la mortalità si riduce nelle classi di età più anziane.
Fino agli anni Sessanta del secolo scorso, divorzio e separazione sono stati fenomeni irrilevanti nei Paesi occidentali, sebbene anche in passato molte coppie smettessero di vivere insieme e finissero per separarsi. Ma i mutamenti intervenuti a partire da quegli anni hanno rappresentato una rivoluzione dei modelli di convivenza familiare. Oggi negli Stati Uniti, in Svezia, nel Regno Unito e in Russia quasi la metà dei primi matrimoni culmina in un divorzio, e il tasso di fallimento dei matrimoni è alto anche nelle altre nazioni, pur non dando sempre luogo a divorzi.
È possibile invertire il corso di questa tendenza? Soprattutto, si può prevenire la patologia sociale manifestata da tante famiglie? È un tema stimolante, una sfida di estrema importanza.

Nella misura in cui i cambiamenti della famiglia riflettono tendenze di fondo delle economie moderne, non sarà facile modificarne radicalmente il corso. Per esempio, se si tiene conto dei diversi fattori sopra citati, non ci si può attendere un capovolgimento della tendenza al contrarsi delle dimensioni delle famiglie. Nelle società moderne, i genitori vogliono avere relativamente pochi bambini, bene educati, sani e istruiti. Allo stesso modo, la partecipazione delle donne sposate alla forza lavoro è destinata a rimanere alta, perché le donne con pochi bambini hanno molto tempo libero, e le donne istruite vogliono allocare parte del loro tempo ad attività di lavoro in un’economia che può utilizzare le loro competenze.
Le famiglie, però, sono cambiate anche per effetto di incentivi artificiali creati dal moderno Stato del benessere. Questi possono essere effettivamente modificati senza danneggiare la vita economica e sociale moderna. Ritengo, in verità, che molte correzioni possibili delle politiche pubbliche avrebbero enormi vantaggi. Farò qualche esempio.
1. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Svezia e come loro molte altre nazioni occidentali assicurano redditi generosi alle madri nubili. Tali pagamenti legittimano in qualche modo il loro comportamento, e perciò stesso incoraggiano uomini e donne ad aver figli fuori dal matrimonio. Questo tipo di benefici assistenziali è distruttivo rispetto ai valori fondamentali della famiglia ed è anche dannoso per i bambini interessati. Può e dev’essere radicalmente riformato.
2. Nelle nazioni occidentali sono diffusi i sistemi di previdenza sociale cosiddetti “a ripartizione”, nei quali cioè i giovani vengono tassati per finanziare l’assistenza agli anziani. Un sistema migliore è stato adottato in Cile, Argentina, Perù, Singapore, recentemente in Messico e in pochi altri Paesi. Si tratta degli schemi cosiddetti “a capitalizzazione individuale”, in cui ciascun lavoratore risparmia parte dei suoi guadagni per la vecchiaia e spende i suoi risparmi al momento della pensione. Poiché in questo caso il meccanismo è quello di accantonamenti individuali, il funzionamento di tali sistemi è assai meno sensibile alla crescita del numero degli anziani e al ridursi del numero dei giovani di quanto lo siano i sistemi a ripartizione.
I sistemi a ripartizione, inoltre, spingono i genitori ad avere meno figli, perché le tasse imposte ai lavoratori giovani fanno salire il costo dell’avere bambini. Tale effetto sulla fertilità si ridurrebbe nel sistema a capitalizzazione, che rende gli individui responsabili del proprio sostentamento in vecchiaia.
3. I problemi più complicati hanno a che fare con le politiche pubbliche in materia di assistenza all’infanzia, permessi per le madri con bambini piccoli, e simili. Per un verso, se lo Stato finanzia massicciamente questo tipo di politiche, incoraggia un maggior numero di donne a lavorare, e queste dedicano meno tempo alla cura dei propri figli, (una quota delle donne che lavorano, in realtà, si occupa dei figli di altre donne che lavorano). È improbabile che ciò produca un rafforzamento dei legami familiari.
Per altro verso, tuttavia, se tali servizi o possibilità di assentarsi dal lavoro non esistessero, i bambini potrebbero essere trascurati da donne che lavorano e non organizzano adeguatamente l’assistenza di cui i loro figli hanno bisogno. In linea di massima, ritengo che sia meglio non esser troppo generosi in fatto di sussidi, di modo che le donne scelgano se lavorare oppure no in base a considerazioni più sostanziali.
4. Nella maggior parte dei Paesi, il sistema di istruzione fino alla media superiore è dominato da scuole pubbliche per le quali non si pagano tasse di iscrizione: negli Stati Uniti, per esempio, il 90 per cento degli studenti frequenta scuole elementari e medie pubbliche. Le persone di solito decidono la scuola da frequentare sulla base del solo criterio della vicinanza geografica. Curriculum e programmi sono decisi politicamente. Le scuole non hanno alcun bisogno di competere per attrarre studenti, offrendo programmi migliori o tasse d’iscrizione più basse, perché l’utenza di una scuole è in larga misura data.
Il sistema funziona ragionevolmente bene per gli studenti di classe media ed elevata, perché i loro genitori esercitano un considerevole controllo sui percorsi scolastici dei figli. Quando questi genitori sono insoddisfatti della scuola pubblica, iscrivono i figli alle scuole private, o possono trasferirsi a vivere in comunità le cui scuole pubbliche giudichino migliori. Di fatto, in molti Paesi sviluppati le comunità suburbane competono per i residenti, in parte, con la qualità delle loro scuole pubbliche. I residenti, per così dire, votano con i piedi se non apprezzano le scuole pubbliche dei dintorni.
Questo sistema però non rende giustizia alla domanda di istruzione delle famiglie più povere, che hanno bisogno di buone scuole per superare lo svantaggio della scarsa istruzione e formazione familiare. Le famiglie svantaggiate non possono permettersi i corsi delle scuole private e ben di rado possono trasferirsi a vivere in zone che abbiano scuole pubbliche migliori. Di solito, devono accontentarsi delle scuole pubbliche più vicine, per cattive che siano.
Un modo per rimediare a questi difetti è quello di dare agli studenti dei vouchers, ossia dei buoni che possono utilizzare per pagare la loro istruzione in qualunque scuola, privata o pubblica, li accetti. Il sistema è stato parzialmente applicato, con diverse varianti, in Svezia, in Danimarca, in Cile, e, su piccola scala, negli Stati Uniti.
Due studi recenti condotti presso l’Università di Chicago mostrano che negli Usa la frequenza alle scuole cattoliche è positivamente correlata al reddito da lavoro e ad altri indicatori di successo; e il risultato si conferma pur applicando in maniera meticolosa correzioni di selettività che tengano conto delle caratteristiche non osservate degli studenti che frequentano le scuole private. Rispetto al punto centrale della mia argomentazione, è importante soprattutto che questi studi dimostrano come siano gli studenti provenienti da ambienti svantaggiati quelli che tendono maggiormente a giovarsi dell’aver frequentato scuole private. E questo non sorprende, considerata l’assai più ampia scelta disponibile agli studenti di classe media e ricchi.
Tutto ciò induce a concludere che lo Stato assistenziale ha “nazionalizzato” la famiglia, affidando al settore pubblico responsabilità che erano in precedenza della famiglia. Ho proposto qualche esempio degli effetti dannosi che questo ha avuto sulle famiglie contemporanee. Molti altri se ne potrebbero fare.

 

   
   
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