Marzo 2006

(S)PARLANDO DELLA DONNA

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Dea-madre nel Paleolitico. Poi fu misoginia
Tonino Caputo - Pierluigi Loy - Renato Orlando
 
 

 

 

 

 

Rimane da
spiegare perché
le Veneri siano in genere più svestite che vestite,
sebbene le donne dell’epoca
vivessero in un clima più rigido dell’attuale.

 

L’osservazione è molto intrigante, ed è stata formulata di recente: «Vestiti fatti per mostrare quello che non coprono». È quel che viene in mente guardando le Dee-madri, le Veneri preistoriche, le statuette del Paleolitico che raffigurano donne dalle forme spesso sovrabbondanti, quasi sempre generosamente scoperte. Così scoperte da far pensare che in quei tempi lontani gli abiti non esistessero affatto. Ma non è proprio così: i vestiti c’erano! Erano fatti di tessuti fini come il nostro lino, oppure di morbide pellicce, ed erano di “taglio” diverso, secondo le aree geografiche. E pare accertato che i più antichi risalgano almeno a trentamila anni fa.

Questo è ciò che ci dicono gli archeologi, anche se dai loro scavi vestiti così non sono emersi perché, essendo costituiti di materiali facilmente deperibili, sono stati del tutto dissolti dal tempo. Ma riportando alla luce i siti degli accampamenti preistorici di Dolni Vestonice, nella Repubblica Ceca, gli studiosi hanno recuperato migliaia di piccoli grumi d’argilla secca o cotta dal calore dei focolari, che riportano impronte di tessuti venuti casualmente a contatto con l’argilla fresca che ne ha conservato l’immagine impressa, filo per filo, nodo per nodo, piega per piega.
Fatta questa scoperta, gli archeologi americani hanno ripreso in esame le decine di statuette di Veneri, realizzate fra i 15 mila e i 27 mila anni fa, verificando che spesso indossavano abiti di fibre intrecciate e berretti che sembrano fatti all’uncinetto, oltre ad eleganti tute di pelliccia, con cappuccio, simili a quelle usate dagli eschimesi fino a un paio di secoli fa. Questi particolari erano evidenti già a prima vista, ma finora nessuno aveva avuto l’ardire di riconoscerli per quel che erano. Era opinione comune, infatti, che la tessitura fosse stata inventata almeno 20 mila anni dopo dagli agricoltori del Neolitico.
Le statuette dimostrano che gonne di stoffa finemente tessuta, portate molto basse sui fianchi, erano già di gran moda 23 mila anni fa. La ricerca è tuttora in corso, ma gli autori avevano fatto il punto dei loro studi in una pubblicazione scientifica dell’ottobre 2000, nella quale sottolineavano che mentre la più antica testimonianza indiretta dell’esistenza dei tessuti (le impronte sull’argilla) sfiora i 31 mila anni, la più vecchia prova diretta ha 18 mila anni ed è rappresentata da un minuscolo frammento di tessuto rinvenuto inglobato in un sottile strato di carbonato in uno scavo preistorico francese, mentre la più antica cordicella intrecciata arrivata fino a noi ha 19 mila anni.
Uno degli studiosi statunitensi, James M. Adovasio, ritiene che la tessitura abbia avuto origine 40 mila anni fa, se non prima. Appurata l’esistenza di stoffe già nel Paleolitico, rimane da spiegare perché le Veneri siano in genere più svestite che vestite, sebbene le donne dell’epoca vivessero in un clima più rigido dell’attuale. In passato, alcuni studiosi avevano ipotizzato che le popolazioni dell’età della pietra non avessero abiti e affrontassero il freddo a corpo nudo, come hanno fatto fino a un paio di secoli fa le donne delle tribù della Terra del Fuoco, che si tuffavano nelle gelide acque dell’oceano a caccia di molluschi.

Ora questa ipotesi è esplicitamente bocciata dalla scoperta di tessuti risalenti all’epoca paleolitica e questo rende ancora più enigmatici i corpi seminudi delle Veneri. È possibile, comunque, che i succinti abiti visibili sulle statuette fossero indumenti cerimoniali e non i “vestiti di tutti i giorni”, che difficilmente venivano raffigurati in opere di carattere simbolico o rituale. Probabilmente, affermano ancora gli studiosi, abiti e copricapi raffigurati erano simboli di status, indossati più per dimostrare l’abilità di chi li aveva confezionati e li indossava, che per coprire il corpo o per ripararlo dalle intemperie. Ma la loro stessa esistenza dimostra che le donne erano in grado di realizzare tessuti e vestiti.
Insomma, queste nostre antichissime antenate erano in grado di evidenziare il loro fascino in vari modi. Facciamo alcuni esempi. A Kostienki, in Russia, sono venute alla luce statuette di Veneri (23-21 mila anni fa) caratterizzate da alte cinture e bretelle-reggiseno, che sembrano fatte di cordicelle intrecciate; il resto del corpo è nudo; i capelli sembrano raccolti in reticelle. La più celebre delle Veneri preistoriche francesi, quella di Lespugue, (23 mila anni fa), indossa una lunga gonna a frangia, che copre soltanto la parte posteriore del corpo e lascia scoperti i glutei: gonne simili vengono ancora oggi indossate dalle donne Zulu e della Papua-Nuova Guinea.
In Siberia, (Venere di Malta, 15 mila anni fa), gli archeologi hanno rinvenuto piccole figure d’avorio di mammut vestite con tute provviste di cappuccio, come quelle utilizzate dagli eschimesi. In epoca più recente, come si vede su un ciottolo di 9 mila anni fa scoperto in Olanda, è stata incisa l’immagine di una donna che indossa un piccolo “tanga” con motivi geometrici e frange laterali: abbigliamento senza dubbio sexy, anticipatore di tempi lunghissimi nel futuro dell’evoluzione femminile. Si pensi, in proposito, all’acconciatura della celeberrima Venere di Willendorf, in Germania, che è sempre stata ritenuta una pettinatura a ricciolini, mentre in realtà, vista dall’alto, la statuetta mostra chiaramente di avere in testa una cuffia simile a quelle dei giovani giamaicani.
Come cucivano? Una delle testimonianze dirette dell’esistenza degli abiti è data dai numerosissimi aghi preistorici scoperti dagli archeologi, come quelli di osso, con cruna, ritrovati in Ucraina: erano generalmente realizzati con ossi di piede di cavallo.
Qualcuno forse un giorno ci spiegherà che cosa è accaduto, nel corso dei millenni, visto che la figura della donna (Dea-madre, Venere, comunque Entità Femminile in grado di garantire la progenie che ha popolato il mondo) ha di volta in volta perso la rilevanza sacrale e si è ritrovata in tutt’altra condizione, e in una rappresentazione del tutto negativa, come se avesse registrato una sorta di ridimensionamento radicale nel contesto della società di tutti i tempi.
Qualcuno ci dirà perché la donna è entrata in una sfera di giudizi negativi, e quando questo è accaduto, se dopo un’epoca di matriarcato oppure no, se per il sopravvento dell’uomo agricoltore, dunque stanziale (il “cacciatore” aveva minori possibilità di esercitare una “patriarcalità”, dovendo muoversi sul territorio, lontano dalla grotta o dalla capanna in cui dominava la donna), se per altri e finora non conosciuti motivi. Sta di fatto che alle rappresentazioni in pietra, in osso, in terracotta, o su pitture e incisioni, di una donna quasi esclusiva immagine di età remote, si è sostituita una parabola discendente, concettuale intanto, poi sempre più esplicita e marginalizzante. A partire dall’alba della storia.
In principio, infatti, fu già la Bibbia. Il Genesi spiega tutto in materia: quando il Signore plasmò la donna con la costola che aveva tolto all’uomo, Adamo sentenziò: «Essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa. La si chiamerà donna, perché all’uomo è stata tolta». È il maschio a dare il nome alla femmina, una sua emanazione anche dal punto di vista linguistico: in ebraico, ‘ishsha, “donna”, deriva da ‘ish, “uomo”. Pochi versetti più avanti, a proposito di Eva, recita ancora il Genesi: «Verso tuo marito varrà il tuo istinto, ma egli ti dominerà». Lapidario. L’idea del predominio maschile è già consolidata. Quella della femmina come “perversione” e causa della caduta dell’uomo sarà solo una (inevitabile) conseguenza.
Poi fu Aristotele. «La femmina è femmina per una certa assenza di qualità. Dobbiamo considerare il carattere delle donne come naturalmente difettoso e manchevole». Così, il principio della donna come “essere inferiore” ha trovato la sua auctoritas. Un’istintiva e irrazionale discriminazione, sulla scorta degli insegnamenti del filosofo greco, è destinata a trasformarsi ben presto in una verità indiscutibile.
Ancora tra IV e V secolo è Sant’Agostino ad affermare due princìpi etico-religiosi destinati a pesare come macigni, fino a poco tempo fa, sui comportamenti sessuali dell’intero Occidente. Uno: il peccato originale è lasciato in retaggio all’umanità attraverso l’atto sessuale. Due: a trasmetterlo di generazione in generazione è la concupiscenza. La carne di Eva è il veicolo di diabolica seduzione. Non solo: suscita paura e genera vergogna. Oddone, abate di Cluny, ammoniva i suoi monaci: «La bellezza del corpo sta solo nella pelle. In realtà, se gli uomini potessero vedere ciò che sta sotto la pelle, la vista delle donne darebbe loro la nausea. Mentre non sopportiamo di toccare uno sputo o un escremento con la punta delle dita, come possiamo abbracciare questo sacco di escrementi?».
La misoginia medioevale e rinascimentale vivrà di un’infinita e ripetuta elaborazione delle sentenze dei Padri della Chiesa. Saranno l’Illuminismo e la Rivoluzione francese a riscattare (temporaneamente) 1’“altra metà del cielo”: “egalité” significava anche una nuova uguaglianza tra uomo e donna, nei diritti, nella proprietà, nella successione dei beni. Ma ad arginare la “minacciosa” emancipazione femminile scenderà ben presto in campo un’agguerrita schiera di intellettuali. Prima filosofi e romanzieri: si consiglia qualche pagina di Jules Michelet (la chiusura della donna tra le pareti domestiche non è una segregazione, ma la protezione di una sottospecie in pericolo), o dell’“involontario misogino” August Comte; ma anche, più tardi, dei nostri Filippo Tommaso Marinetti o Gabriele D’Annunzio, tanto per citare alcuni. Poi sarà la volta dei criminologi, degli psicanalisti e dei sessuologi.
A partire dalla fine dell’Ottocento, con le tremende pagine antiuxorie di Cesare Lombroso, di Sigmund Freud e di Otto Weininger, la pretesa superiorità culturale dell’universo maschile su quello femminile si appoggia ormai su solide basi (pseudo) scientifiche. Fu Charles Darwin, del resto, a sentenziare che la donna si è arrestata ad uno stadio primitivo di sviluppo.
Insomma, una lunga storia che non piacerà alle signore, anche se forse si divertiranno di nascosto ad ascoltarla. La racconta, in un saggio molto documentato, un compassato accademico che insegna Storia della Critica all’Università di Firenze. Si chiama Paolo Orvieto, e il suo “scandaloso” studio ha per titolo Misoginie. L’inferiorità della donna nel pensiero moderno. Nella folta appendice, un’antologia di pagine scelte. Brani di Honoré de Balzac (qualcuno ha mai letto la sua Fisiologia dei matrimoni?), di Émile Zola (a volte è bene riprendere in mano l’immortale Nanà), di Leopold von Sacher-Masoch (qui si consiglia Venere in pelliccia), di Arthur Schopenhauer, il più misogino tra i misogini (si veda il suo Sulle donne), del dottor Sigmund Freud (illuminanti le note Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra i sessi), di Paul Julius Möbius (si legga il suo L’inferiorità mentale della donna). E di altri.
Il nucleo centrale di questo libro, in realtà, è la misoginia otto e novecentesca (il primo testo antologizzato è di Balzac, del 1829, e l’ultimo è L’amante di Lady Chatterley di David H. Lawrence, dell’anno 1928). Ma nei tredici capitoli iniziali Orvieto ripercorre gli aspetti più curiosi e deleteri di una “cultura” millenaria. Tratteggia, ad esempio, le due “figure” antitetiche che hanno dominato l’immaginario femminile dell’uomo. Da una parte l’archetipo “Eva”: la donna diabolica, la femme fatale, la Grande Meretrice, la vamp, l’“idolo di perversità”, la strega, si chiami essa Circe, maga Alcina, Medusa, Semiramide, Cleopatra o Madame Bovary. Dall’altra, l’archetipo “Madonna”: la Vergine, l’“angelo del focolare”, la Grande Madre, si chiami essa Penelope, Beatrice, Cenerentola, Villetta o Lucia Mondella.
Però si sottolinea anche lo scivolone di un progressista sopra ogni sospetto, come Pierre-Joseph Proudhon (chi ha detto che la misoginia è solo reazionaria e “di destra”?): fu il celebre economista a scrivere che la produzione è scissa dalla riproduzione, e che la prima spetta all’uomo, mentre la seconda spetta alla donna, sorta di “anello mancante” tra il maschio e l’animale, dotata dell’unico requisito della bellezza, una piccola ricompensa alle sue facoltà cerebrali “bloccate” al livello intellettivo di un bambino: il riferimento è a La pornocrazia o le donne dei tempi moderni. E non del tutto diversamente la pensava il Leopardi dello Zibaldone.
Orvieto dà anche voce alle protofemministe (Mary Wollstonecraft e Harriet Taylor), e concede un capitolo alle “riletture” di Virginia Woolf e di Simone de Beauvoir. Ma sono gocce di moderazione nel mare magno di una misoginia secolare. Dagli antichi latini ai moderni scienziati. Fu Tertulliano, nel De cultu feminarum, ad esempio, a condannare il rito muliebre del maquillage, accogliendo dall’apocrifo Libro di Enoc la leggenda degli angeli che vollero trasformarsi in demoni per possedere le belle femmine della terra. Svanito il raptus libidinoso, e compresa la loro follia, serafini e cherubini si vendicarono delle donne rendendole schiave del trucco, causa a sua volta della loro perdizione in quanto illecita alterazione della fisionomia assegnata da Dio.
E fu l’antropologo darwiniano Paolo Mantegazza, nella Fisiologia del piacere del 1854, a scrivere che la donna ha, sì, un cuore più grande, ma per sopperire al «cervello più piccino»: filogeneticamente la femmina non è che un concatenato sistema di finzioni e di artifici, disposta ad abiurare se stessa pur di conquistare il maschio.
Citazioni a mo’ di antologia. Darwin: «L’uomo è più coraggioso, più bellicoso, e più energico della donna, e ha maggiore genio creativo. E il suo cervello è senza dubbio più grande». Proudhon: «L’uomo e la donna non procedono all’unisono. La differenza dei sessi innalza tra loro una barriera non diversa da quella che la differenza della razza pone tra gli animali». Schopenhauer: «Quando le leggi accordarono alle donne gli stessi diritti che agli uomini, avrebbero dovuto munirle anche di un’intelligenza maschile». Freud: «Il fatto che la donna mostri minor senso di giustizia dell’uomo e che troppo spesso si lasci guidare nelle sue decisioni da sentimenti di tenerezza o di ostilità, trova amplissimo fondamento nelle modificazioni subite dalla donna nella formazione del suo Super-io». Lombroso: «Dimostrare come la menzogna sia abituale e quasi fisiologica nella donna sarebbe superfluo. Una prova è il costume quasi generale dei popoli di non accettare la testimonianza della donna». Balzac: «La donna durante la notte non si sente a suo agio se non è distesa su cuscini morbidissimi, durante il giorno su divani di crine, perché la posizione orizzontale è quella che assume più volentieri».
In ultimo, per quanto possa essere banalmente consolatorio per mogli, madri, figlie e sorelle, citiamo Aristofane: «Non c’è al mondo nulla di peggio delle donne impudiche, tranne forse le donne». Per poi aggiungere, però: «Non si può vivere con questa peste. Né senza».

 

   
   
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