Marzo 2006

 

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Le Giravolte
AA.VV.
 
 

 

 

 

 

 

 

Luminose geometrie

È indubbio che questo artista abbia sentito fortemente il fascino del Primo (Marinetti, Balla, Carrà, Boccioni...) e poi del Secondo Futurismo (l’ultimo esponente, l’aeropittore Mino Delle Site, è scomparso solo qualche anno fa). Ma il suo percorso creativo non si è fermato a quella corrente, che pure rappresentò il momento di più alta visibilità dell’arte italiana del Ventesimo secolo. Come dimostra l’antologica tenuta al Vittoriano all’inizio dell’anno (circa mezzo secolo di attività, documentato dalle opere sfuggite a due furti consecutivi), e come lo stesso autore ha voluto precisare in catalogo, c’è una netta distinzione tra i contenuti pittorici del cubismo e del futurismo, e quelli delle opere piacentiniane: sostanzialmente, il cubismo coinvolge la composizione geometrica, con le angolature che hanno più punti di osservazione, più direttrici di proiezione, tant’è che finisce per sfociare nell’astrattismo (Picasso e altri); nel futurismo c’è, senz’altro, la scomposizione, però – sostiene Piacentini – «la geometrizzazione è diversa, ed era sottoposta alle regole del dinamismo e della simultaneità del colore».

All’opposto, questo artista ha realizzato una cospicua evoluzione, rappresentando nelle sue tele una gamma tonale nella quale la scomposizione della luce diventa protagonista, fino a farsi quasi scala musicale, ondularità ritmica, concerto. Non a caso alcune opere (tra le ultime, quasi tutte nate nell’atelier di Milano) le ha create ascoltando Mozart.
L’itinerario di questo schivo e coltissimo pittore è trasparente: per una decina d’anni anche scenografo teatrale, e in parte cinematografico; per cinque o sei anni formale e quasi astratto; infine, dopo la lunga esperienza della scomposizione della luce, l’approdo quasi naturale sulla riva surreale, con picchi di affabulazione kafkiana.
E qui è il superamento di ogni epigono futurista (del Primo o Secondo Futurismo, poco importa), i cui esponenti sono consacrati nella memoria storica dell’arte italiana ed europea. Piacentini chiude la traiettoria, apre la crisi (nel senso etimologico del termine: passaggio, transito verso...) e propone il “suo” nuovo discorso, lontano da scuole, etichette e salotti, e per questo probabilmente ancora oggi intrigante e ricco di fermenti, come nei giorni in cui gli artisti emergevano dagli atelier, dagli studi, dalle mansarde, insomma dai rifugi singolari e splendidamente romantici di via Margutta, e dalle gallerie che gravitavano fra via del Babuino e Piazza di Spagna.
Ha preannunciato qualcosa, Piacentini: una cartella sul Vittoriano, a patto che gli diano del materiale inedito. Sarà, allora, un momento di verifica sulla nuova tendenza della sua arte. Perché questo artista non sembra conoscere punti d’arrivo, ma solo momenti di snodo, e ulteriori scatti che lo portino oltre, senza sosta.

Ecco: è il dinamismo che gli è rimasto dentro, antropologicamente sincero, artisticamente come fondale, anche se ormai appena percettibile sulle scale cromatiche del suo pentagramma pittorico. Dei suoi colori come oniriche variazioni musicali. Delle sue favole mozartiane trasposte sulle tele di ninfe e di lune, di rocce e di castelli. Di sogni di luce.

aldo bello

 

La più antica mappa dell’Occidente

La passata estate salentina è stata animata, oltre che dalla taranta, anche dal clamore suscitato dall’esposizione al pubblico di un prezioso reperto archeologico individuato nell’agosto 2003 dalla missione dello studioso Thierry van Compernolle, dell’università “Paul Valéry” di Montpellier.
È un piccolo pezzo di ceramica verniciata di nero, di circa 5,9 cm di lunghezza e 2,8 cm. di larghezza. Si è trattato della prima uscita del reperto dagli ambiti strettamente accademici. A Soleto, prima, e poi a Taranto, è stato possibile ammirare il frammento ceramico, contenente in maniera piuttosto evidente il profilo della costa salentina. L’ostrakon era parte di un vaso: quando fu usato era già un frammento, su cui vennero tracciate prima la linea ad individuazione del Salento e poi i puntini a segnalazione dei centri messapici. Secondo gli studiosi, sull’ostrakon si può notare l’intervento di più mani perché la grafia non è uniforme. Cronologicamente, bisogna risalire alla fine del V secolo a.C. Si tratterebbe quindi di una tra le più antiche carte geografiche del mondo.
Van Compernolle è presenza nota nel Salento: è da più di quindici anni, infatti, che compie scavi in quel di Soleto. Ha portato alla luce una straordinaria ricchezza di reperti. La mappa, rinvenuta materialmente da Mario Antonio Piscopo e Luigi Resta, era in un fondo rustico denominato “Fontanelle”, all’interno di un grande edificio messapico. I tredici toponimi segnati sulla mappa indicano alcuni centri di cui si è riusciti ad identificare la corrispondenza con i paesi attuali, altri invece sono di più incerta identificazione.
Lo studio è stato compiuto da Carlo De Simone. Egli ha potuto individuare rappresentate sull’ostrakon la città di Tàras (Taranto), quella di Hydr(ous) (Otranto), Bas (indicante il centro messapico di Vaste), Ozan (Ugento), Nar (forse Nardò), Bal (Alezio), Sol (Soleto). Le incertezze riguardano i toponimi Graxa (Gallipoli?, Porto Cesareo?), Stu (Sternatia?), Lios (Leuca?), Mios (Muro Leccese?), Phil (Roca Vecchia?), Lik (Castro?).
L’ostrakon continua ad essere studiato per esplorarlo in tutti gli aspetti. Si vuole scoprire, ad esempio, quali siano stati gli strumenti usati per la scrittura del documento, ovvero quale fabbrica abbia prodotto il vaso, di cui l’ostrakon è parte.
Il sindaco di Soleto, Elio Serra, si sta battendo perché i numerosi reperti rinvenuti a Soleto, fra cui l’ostrakon, possano essere ospitati in un’idonea struttura da erigersi nel paese della Grecìa salentina. Questa esposizione permanente dei tesori tirati fuori dalle campagne di Soleto potrebbe diventare – a suo giudizio – un catalizzatore di flussi turistici, e quindi un generatore di economia, conformemente ad un intento da più parti dichiarato di cercare di delocalizzare e destagionalizzare il turismo nel Salento, in modo che anche i paesi dell’interno, e non soltanto quelli prospicienti la costa, se ne possano avvantaggiare.
Per tutelare e valorizzare pienamente la zona archeologica, il Comune ha voluto dare a van Compernolle l’incarico di redigere la mappa archeologica del territorio, da utilizzare nella redazione del Piano Urbanistico Generale. È sicuramente un’ottima idea, che costituisce un’importante premessa per recuperare porzioni d’identità perduta ad un Salento dalla storia antichissima e non pienamente conosciuta.

salvatore masciullo

 

Un’esperienza molto speciale

Ho sempre considerato la parola “esperienza” una parola onnicomprensiva: per me, un incidente d’auto, il conferimento di un dottorato, l’incontro con una persona interessante, la frattura d’un braccio e così via (ma potrei continuare all’infinito) sono tutte esperienze valide. Però, col passare degli anni, dato il continuo accumulo di esperienze d’ogni tipo, si è fatta insistente la voglia di un’ultima esperienza, diversa, molto più originale delle precedenti.
Avrei voluto finire in bellezza, grazie ad un’esperienza il cui significato non fosse corrente. Un’esperienza speciale, addirittura colma di risonanze storiche, filosofiche, culturali in genere. Sono o non sono un prof.? Doveva essere un’esperienza capace di farmi pensare a Cristo come a Maometto, a civiltà famose, a usi e costumi remoti; dall’igiene personale alla religione, così via un’altra volta.
Volevo un’esperienza che mi mancava. Non era facile. In vita mia avevo letto particolarmente testi antichi, le cui storie mi avevano quasi fisicamente portato in mezzo a gente insolita e, nella fattispecie, anche barbara o quanto meno distante storicamente dal mio tipo di civiltà. Era proprio questa stranezza di esperienza che andavo cercando. Terre e popolazioni da scoprire erano ormai accantonate tra le avventure giovanili; niente, a me interessava il nuovo, l’attuale, l’impensato, il mai capitato prima fino ad oggi.

Forse l’atteggiamento era strano; veniva dal profondo, senza capire che l’esperienza globale della vita stessa, alla fine, non riesce più a trovare esperienze nuove – mi riferisco ai casi miei – che non siano già state fatte.
Per spiegare questa mia assurda sete del nuovo, del “mai fino ad ora”, sono costretto a ricordare quella volta che ad un chirurgo il quale mi minacciava la comparsa di seni femminili, ove io mi fossi ostinato a preferire una medicina all’intervento, dissi: «Meglio, è un’esperienza che non conosco». Ammetto di essere stato egoista, esigente in materia di novità, ma in un mondo nel quale l’esperienza, purché nuova, tende al mostruoso, mi dichiaro non colpevole.
Il problema, tuttavia, rimane il solito: fare o essere costretto a fare un’esperienza mai fatta. Possibile non esistesse un’eventualità del genere? Per me, era come se fossi morto, dato che fintanto che compi esperienze mai fatte vuol dire che sei vivo.
L’imprevedibile in ogni caso era più raro assai del prevedibile, cosicché la ricerca, col passare del tempo, divenne sempre più ardua e difficile.
Continuai tuttavia a desiderare che mi accadesse qualcosa che sapesse di cultura e di vita reale al tempo stesso: un accadimento nient’affatto banale, bensì pieno di significati, di reminiscenze; insomma, doveva essere una sorpresa, sorprendente a più non posso, inattesa più che originale.
E finalmente il caso arrivò, e per la mia sensibilità fu addirittura micidiale; una scossa inattesa, non priva d’una certa timidezza da neofita... Voi mi conoscete: cosa mai può accadere a un tipo che ha girato il mondo, inseguendo sempre esperienze mai fatte prima?
Eppure non perdevo fiducia che qualcosa di speciale, alla fine, dovesse succedermi, sperando sempre che si trattasse di un ulteriore segno di distinzione acquisita. E il destino mi venne incontro...
Non so se devo descrivere di cosa si tratta, poiché l’argomento non è delicato, ma l’esperienza originale, non essendo io ebreo, né arabo, fu qualcosa – ho trovato la parola adatta – di piuttosto straordinario. Pensateci, da quel momento, il primo gennaio sarebbe stato per me un giorno di doppia festa, se mi hanno spiegato bene la storia sacra, e anche quella civile. Pensateci, si sarebbe trattato non più di un caso, bensì di una consuetudine soprattutto socio-religiosa, della quale avevo letto nei testi sacri. Insomma, un’esperienza coi fiocchi. Quel chirurgo, mortificato dal citato rifiuto molti anni indietro, tornò al medicale assalto e fu una specie di vendetta certamente non sua, ma della mia insistente, incontentabile voglia di nuovo, ripeto, del “mai accaduto prima”.
D’altra parte, la vera esperienza può arrivare addosso come un castigo e io, cari amici, la mia pedagogica paura me la presi tutta, proprio tutta!
Bene, volete proprio togliervi la curiosità? Premesse tutte le scuse possibili circa l’argomento, la storia della mia ultima, inimmaginabile esperienza può concludersi come segue. Una voce perentoria mi dice all’improvviso: «Professore, non scherziamo, lei deve assolutamente essere circonciso!». A quel punto, esperienze del cavolo o no, fui lì per lì per svenire. Ragion per cui, mai più disserterò su concetti empirici. Basta così.

florio santini

 

Una voce di dentro

A volte ritornano. Parliamo dei sentimenti primi e universali che vanno oltre la comunicazione criptica dei gruppi di potere e il fascino untuoso delle icone della modernità. È il “fuori stanza” che ritorna con Rocco Emanuele Grippa (Racconti di vita, Edizioni del Grifo, Lecce, 2005), anche se resta arduo dare umanità ad una globalizzazione che governa il mondo con il metro esclusivo dell’efficienza meccanicistica.
Grippa fa le pulci alla mappa delle stravaganze, dando voce ad un avvertito bisogno corale: il ritorno alle virtù dimenticate, quelle semplici e agresti dell’uomo dialogante con l’uomo e con la natura, non contaminato dalla seduzione istrionica e crudele della macchina. L’incontro con i suoi racconti è una ventata d’aria fresca, fa riflettere su un passato che stenta a tornare, regolato dalla magia delle stagioni, dai profumi, dai desideri e dai misteri dei luoghi, dalla regia delle tradizioni che assicurano memoria alle radici.
I personaggi parlano il linguaggio della disarticolazione dell’anima e di riflesso sollecitano ricordi di valori desueti: il rispetto del prossimo, l’umiltà dell’ascolto, l’importanza del dubbio nelle certezze personali, la puntigliosa ricerca del vero oltre la superficiale adesione al verosimile funzionale. Dunque, un momento alto di riflessione per il popolo dei fax, di Internet, delle e-mail; per i giovani in corsa senza sentieri.
Grippa offre un quadro vero e amaro di una società schizzoide dove sempre più spesso «colui che ha l’arte non ha la parte che gli spetta». Con gravi crisi emotive che colpiscono la sfera affettiva e sociale. Le coppie si organizzano e si armano per praticare una concorrenza spietata tra lobbies parallele, in virtù di credenze effimere improntate alla conquista del primato giornaliero del benessere economico che definisce il perimetro dell’identità intesa come fonte di esclusione più che di inclusione. Di conseguenza, la transizione permanente imposta dalla modernità può registrare cambiamenti nell’ideologia e nella politica, ma non nella psicologia di base. Non è casuale che cronaca e letteratura ci raccontino scandali di arrampicatori sociali, storie ordinarie di vampirismo metropolitano in cui è assente ogni forma di dialogo, di generosità, altruismo, dedizione, rinuncia.
Grippa dà voce all’incomunicabilità, alla vulnerabilità dei gentiltopi, ai traumi silenti di un mondo devastato dal culto pagano del consumismo competitivo che vuole generali senza soldati. Non recita sermoni, ma avverte il disagio del malessere sociale. Nelle sue grida di dolore c’è il desiderio di vedere crollare il cielo della fiction comedy, la speranza di veder l’uomo in rivolta contro se stesso, in cerca dell’umanità perduta.
È l’ottimismo di chi vede e si ribella. Racconti e personaggi non sono scelti a caso. Si legano in un disegno unitario di denuncia delle tossine della modernità attraverso un attento dosaggio di passioni e stati d’animo. Si avverte un entroterra autobiografico che non priva i singoli episodi di un sicuro spessore letterario, soprattutto quando la denuncia colpisce il delirio del potere e l’arroganza delle piccole eccellenze.
È un messaggio drammatico offerto da Grippa sottovoce, con ironia. Una metafora dell’Io azzoppato, con nostalgia per l’armonia dell’Io antico, non deformato dalle adulazioni dei network e dalle apprensioni del catering domestico.
Può sembrare a prima vista un almanacco della sofferta umanità levantina, la denuncia conservatrice di chi si rintana nei fobici pregiudizi delle aree depresse. Colpisce invece l’abilità di un giovane nel lavorare per sintesi sul corredo dell’uomo, creando immagini dall’effetto immediato in cui più dello Strapaese di D’Annunzio si avverte l’universalità di Pirandello, uno scrittore che Grippa confessa apertamente di amare.
È l’opera prima di un barese, di un levantino allergico al ruolo del chierico muto, anche se obbligato per legge di sopravvivenza a percorrere i sentieri impervi e frustranti della competizione quotidiana. Dunque una voce di dentro, un trasloco dall’esperienza alla carta. Il calvario ha trovato un suo eroe, un cavaliere bianco in lotta contro l’era glaciale dei robot.
In casi come questo si formulano auguri rituali per un successo letterario e personale. A noi preme augurare a Grippa di non perdere mai il coraggio della denuncia, di restare alternativo salvaguardando il dono prezioso dell’autenticità. Prendendo le distanze dalle tentazioni dello “smart set” letterario, dai giochi di corte praticati per ragioni di mercato.
Meglio affidarsi sempre ad una genuina “fonte zampillante”. Come quella della sua leggiadra Sofia.

claudio alemanno

 

 

   
   
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