Dicembre 2006

Ricordando Ennio Bonea

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Lo stormo di Via Ammirati
aldo bello
 
 

 

 

Fu una stagione vitale per lo stormo di Via
Ammirati, un gran nugolo di giovani liberali, cattolici, marxisti che nel settimanale di Bonea aprirono
dibattiti
anticipatori.

 

Era cominciato quasi per gioco, a Palazzo Mascoli, il giorno di San Giuseppe del ‘58. A Totò Vergari, investito della scommessa di tradurre in un settimanale l’idea frullata in testa ad Ennio Bonea, furono consegnate una “Olivetti 22” e una lampada da cento candele. L’arredamento consisteva soltanto in un tavolo con panno verde. Sarebbero giunti un bel po’ di tempo dopo alcuni altri mobili (procurati da Vergari) e un magnetofono. Bonea registrava e Vergari sbobinava lettere da inviare ai potenziali collaboratori. La Tribuna del Salento nacque alcuni mesi dopo, nel ‘59, e quando raggiunse l’incredibile numero di duemila abbonati aveva uno stuolo di collaboratori, parecchi fissi, altri saltuari, eppure tutti entusiasti, che in quella nave scuola del giornalismo provinciale (ma non solo provinciale) avrebbero maturato l’esercizio iniziatico di percorsi professionali di primissimo ordine.

Molto lungo l’elenco, e dunque alto il rischio di dimenticare qualche nome. Ferrea vestale del pensatoio creativo, spirito aggregatore, factotum nel vero senso della parola, e reale responsabile del giornale fino al giorno in cui passò alla direzione del personale della Fiat-Allis, restò sempre Totò, pubblicista e – dice lui – “bozzettista”, in limitazione volontaristica del termine scrittore, e forse meglio ancora diarista. E, insieme con lui, Salvatore Affinito, che trattava – anticipandoli di qualche decennio – alcuni temi fondamentali dell’Europa comunitaria; Domenico Faivre (in seguito capo della redazione leccese della Gazzetta del Mezzogiorno), che insieme al coltissimo Mario Proto (poi docente universitario), a Remo Aiello, al sottoscritto e ad Antonio Maglio (futuro vicedirettore del Quotidiano, prima di emigrare in Canada), sarebbe stato direttore responsabile del settimanale; gli scrittori e poeti Enzo Panareo, Dino Ascalone, Ercole Ugo D’Andrea, Bruno Lucrezi, Elio Filippo Accrocca e il drammaturgo Italo De Ponte; gli economisti Ennio Gatto (autore, fra l’altro, di una documentatissima inchiesta sulla Borsa) e Claudio Alemanno (poi nello staff dirigente di quelle che oggi si chiamano Risorse Umane all’Italsider di Genova, oltre che ricercatore oltre confine e saggista su problematiche planetarie); gli esteristi Aldo Rizzo (che firmava con sigla, essendo da tempo esclusivo fondista de La Stampa), Arturo Foscarini e Gigi De Mitri (che sarebbe approdato all’Ansa, diventando l’unico corrispondente occidentale da Tripoli); Mimmo Pugliese (in seguito entrato nella redazione di un quotidiano cittadino del Nord), Francesco Metrangolo (poi al Corriere della Sera); Giuseppe Rampino, l’elegante redattore dell’inchiesta sui “Treni della speranza”, espressione saccheggiata da chiunque in tempi successivi si occupò di emigrazione meridionale, senza la citazione dell’autore; il polemicissimo Enzo Rossi-Ròiss, che condusse fra l’altro un’indagine sui “Santi di cartapesta”; Domenico De Rossi, accanito spulciatore di archivi pubblici; Mario Congedo, diventato cospicuo editore; Toti Carpentieri, fine critico d’arte; Antonio Serrano, altrettanto fine critico musicale; Mario De Nitto Personè, esperto di problemi agricoli; il corsivista Nino De Giorgi; il saggista Vittorio Zacchino; gli sportivi Tommaso Corallo e Gino Lisi; e poi Paolo Guadagno, Massimo De Masi, Vittorio Barbati (specialista in problemi dello Stato), Paolo Zeppa; il già celebre saggista e costituzionalista Sabino Cassese; e il “gruppo di Taranto”, con poeti e scrittori, da Nerio Tebano ad Angelo Lippo, insieme con Piero Mandrillo e Giuseppe Barbalucca, (ma in tutta la sua non breve esistenza La Tribuna pubblicò una sola poesia, di Vittorio Pagano, in occasione dell’alluvione di Firenze)…

Fu una stagione vitale per lo stormo di Via Ammirati, un gran nugolo di giovani e meno giovani liberali, cattolici, marxisti che nel settimanale di Bonea ebbero occasione di aprire dibattiti anticipatori con una serie di pagine speciali (sulla pesca di frodo, sulla caccia, sulla questione meridionale, sul comunismo internazionale, sulla decolonizzazione dell’Africa, sui problemi della finanza, sulla Costituzione, sulla Comunità economica europea, sul massiccio spostamento di masse dal Sud verso il “Triangolo industriale” e verso i Sei Paesi Cee, sull’arte e sulle tradizioni popolari…) in assoluta libertà di pensiero, senza alcun condizionamento né reciproco né da parte dell’editore. E vitale si rivelò quell’arco di tempo anche per lo stesso Bonea, che fu – dopo l’esperienza di amministratore locale – parlamentare eletto due volte per il Pli al tempo di Malagodi, e capo della corrente di Presenza Liberale, nella quale confluirono gli spiriti più avanzati di quella forza politica.
La Tribuna sfumò, dopo aver contribuito a determinare una moderna svolta culturale nella “Sub-regione salentina”, nel ‘79. Precisò Bonea, rispondendo a Martino Brienza, che lo intervistava per Critica meridionale, di Napoli: «La Tribuna del Salento ha cessato la sua vita autonoma nel momento in cui ha potuto ritrovarsi nel progetto del quotidiano al quale pensavamo da anni. Non si tratta però di un processo genetico. Il settimanale non ha generato il quotidiano; si è trattato di una lenta, faticosa e fortunata crescita». La Tribuna era nata esattamente nel marzo ‘59, e aveva cessato di vivere nel maggio ‘79. Il Quotidiano di Lecce, Brindisi e Taranto vedeva la luce nel giugno ‘79. Bonea fu presidente della società editrice, oltre che co-finanziatore dell’impresa editoriale.
Negli anni seguenti, forse per inesorabile stratificazione, vennero i giorni delle delusioni: Bonea dapprima si riservò il ruolo di rubrichista, occupandosi settimanalmente di problematiche letterarie e di recensioni, poi decise di gettare la spugna, troncando il cordone onfalico che lo aveva legato a lungo al “figlio Quotidiano”. Fu assorbito dagli studi e dall’insegnamento universitario. Infine mollò gli ultimi ormeggi e si chiuse in una malinconica insularità. Del resto, aveva sempre sostenuto che i grandi spiriti meridionali erano stati caratterizzati dalla “solitarietà”, nel senso della drammatica, incancellabile solitudine cui sono condannati dalla loro antropologia umana e culturale, che, pur aperta all’amicizia e all’accoglienza, tuttavia nega con antica e quasi naturale determinazione sodalizi duraturi e cooperative colleganze.

Quando venne meno del tutto la spinta vitalistica che aveva manifestato per tanti anni e in tante intraprese, francamente ammise di vivere «nel tempo ma fuori del tempo». Cioè nel momento dell’introspezione, e dei bilanci che non so se fossero più intrisi di schivo dolore o più improntati a una tragica lucidità. A un amico calabrese, che gli aveva scritto nel marzo 2000, così rispondeva fra l’altro: «Ora avverto il significato dell’essere andato in pensione: “essere fuori scadenza”, lezioni, appelli, esami, corsi monografici, letture dovute e programmate. Ecco io sono “fuori scadenza”: sono libero di fare quel che voglio, scegliendo ciò che posso rifiutarmi di fare, per dire meglio. È la mia teoria per vivere bene […]. Così non mi sento limitato. Evito i limiti e la mia è una vecchiaia consapevole, senza rimpianti nonostante il completo e chiaro ricordo di ciò che ho fatto. Il limite che non posso evitare è quello di un futuro che si interromperà con la morte».
«Non lodarmi la morte, splendido Odisseo!», esclama un adirato Omero per bocca di Achille. E il Pelide-Bonea replica, ribadendo: «Io ho odiato la morte come non ho mai odiato un uomo o una donna; non ho mai odiato nessuno in verità, ma si dice così per dire il massimo. Tra i tanti scrittori che ho apprezzato, ne ho amato uno per il suo odio aperto, confessato, denunziato della morte: Elias Canetti. Io ho scritto con lui il disprezzo per questa strega che ci toglie il piacere di vivere le piccole cose, il sapore di un cibo, il profumo di un fiore, la gioia di un piccolo panorama, il conforto di un amico, un bello spettacolo; zac, viene lei e tutto finisce […]. Io ho imparato che cosa sia, quando a sei anni persi mio padre che ne aveva ventotto e ho iniziato ad odiarla quando intorno ai dieci anni mi ribellai a mia madre che, più giovane di quattro anni del marito morto, mi trascinava la domenica dinanzi alla sua tomba, per struggersi in pianto. Mi rifiutai di seguirla e da allora non sono mai più entrato in un cimitero; anche se in vecchiaia io rammento ancora i fascinosi Sepolcri foscoliani, non sono mai riuscito a sentire il sospiro che dal tumulo a noi manda natura […]. Non è paura, per carità, né della morte ormai avendo accettato la condanna che tocca a tutti (più del come morire: meglio spegnersi come una lampadina fusa); né del premio o della condanna per una vita eterna a cui non credo. Se mai penso, come Montale, “per l’aldilà / un fischio, un segno di riconoscimento”, casomai capitasse di incontrare qualcuno dei miei cari! […]. Però devo dire che mi sto preparando alla morte […]. Sono così assillato dal problema del prepararmi alla morte, che vivo pienamente dalla mattina alla sera avendo sempre qualcosa da fare…».
Se è questo il nome dell’infelicità, voglio ricordare l’amico e il maestro, la guida critica, l’amabile interlocutore, lo stoico intellettuale prigioniero dell’isola che per ciascuno di noi c’è, con l’invocazione di Shakespeare: «Morire per dormire. Nient’altro. E con quel sonno poter calmare i dolorosi battiti del cuore, e le mille offese naturali di cui è erede la carne!... Morire per dormire. Dormire, forse sognare». L’amletico forse. Come il rabelaisiano “Grande forse”, che transita e naufraga – dubbio e sfida umana fatali, ormai vanamente intriganti – nell’estremo bagliore della vita.

 

   
   
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