Dicembre 2007

Biblioteca minima della memoria

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Poesie della terra
Antonio Errico  
 
 

 

 

 

 

 

Una terra senza memoria non va da nessuna parte. Una terra senza poesia da qualche parte può andare, ma certamente
la strada sarà un poco più buia.

 

Una terra. Una memoria. Una poesia. Nessuna costruzione di pietra, nessun altare al tempo riesce a custodire e a tramandare memoria più delle parole di una poesia. Perché una poesia è l’unica cosa che un uomo può portarsi dietro, può portarsi dentro, può confondere con la propria sensibilità, con le proprie emozioni, i riflessi dell’esistenza, le storie di ogni giorno, illusioni e delusioni, occasioni prese e perse, dolcezze, amarezze, stupori, furori.
Si vive in un luogo e si guarda il paesaggio; si incontrano volti che scompaiono; si ascoltano voci che si perdono. Il tempo a volte trasforma, a volte deforma, altre volte cancella; a volte lo fa gradualmente, a volte in un modo improvviso, come fa un vento che sparpaglia i cumuli di foglie risecchite.
Restano le parole che hanno parlato di questo, se una volta ne hanno parlato: quelle parole che sono l’espressione più inconsistente, che hanno la leggerezza di un fiato, di un vapore, durano più di ogni altra cosa, oltre ogni vita di creatura. Perché passano da voce a voce, da memoria a memoria, anche quando si perde il timbro della voce, il filo della memoria originaria, anche quando non s’intravede il profilo di chi sarà memoria futura e non si conosce il tono della voce che racconterà.

Il Salento è una terra che cambia, giorno per giorno, che negli anni venturi cambierà forse anche di più di quanto sia cambiata in quelli passati. Come ogni altra terra, senza differenza. Ma la memoria individuale e collettiva di com’è stata è scritta nelle sue poesie, che non ne hanno – per nulla – immobilizzato forme e vicende, ma hanno riscoperto e rinnovato caratteri e fisionomie, sottomissioni e riscatti, orgogli e rimpianti, realtà e fantasie, la sua
natura di terra del rimorso, della levità di fra’ Giuseppe Desa, della razionalità appassionata di Antonio Galateo.
Una terra senza memoria non va da nessuna parte. Una terra senza poesia da qualche parte può andare, ma certamente la strada sarà un poco più buia.
Allora qui si propongono dieci poesie sul Salento da imparare a memoria: per poter ricordare meglio com’era questa provincia infinita quando in un qualsiasi luogo si costruisce come sarà. Sarebbero centinaia quelle da selezionare. Ma si vuole dare soltanto un’idea, suggerire un percorso perché poi ciascuno possa cercare e selezionare da sé quali sono quei versi che sente più vicini, intimi, essenziali. Se non lo ha già fatto.
Dieci poesie, dunque.
Con brevissimo commento.

Nella penisola salentina


L’amore era una lettera trovata
nel tronco di un olivo; l’amicizia
il capello spaccato in due, soffiato
nel vento; e la morte
il dente che si serba per il giorno
del Giudizio.

Qui c’erano accademie
e monaci sapientissimi:
o città gloriose
di sporcizia e abbandono!
Nel mattino senz’uomini allattano i figli
le donne sulle porte o lungamente
si pettinano.
E che neri capelli, che capelli
che non finiscono mai,
fra quelle bianche case con le file
di zucche gialle sulle cornici!

Su un mucchio d’immondizie un gatto feroce
rosicchiava una lisca madreperlacea
guardando avvicinarsi il forestiero
con due occhi terribili.
Vittorio Bodini

Tenera e triste, un passo quasi di canto, un rimpianto bruciante per un tempo finito, per uno stupore dissoltosi nell’impatto con la realtà.
È un altare alla memoria di una civiltà che ha contemplato nelle sue forme tutto il fasto e il degrado: San Nicola di Casole che custodiva il sapere d’Oriente e d’Occidente trascritto su cartigli da copisti innamorati d’ogni segno; le città destinate ad un abbandono eterno, ad un’opacità irrimediabile, all’avvilimento di un’esistenza corrosa dalla condanna alla sopravvivenza.
La salvezza può essere solo nell’infanzia dell’uomo e della terra, nella poesia primitiva di una superstizione per la quale si conserva qualcosa di sé come testimonianza del proprio passaggio tra i giorni e come salvacondotto per l’eterno.
Poi la salvezza è anche nella sublime fisicità di una bellezza delicata e imperturbabile che colma – da sé – con la propria pienezza, con l’illusione di infinitezza che suscita («lungamente»; «che capelli che non finiscono mai») il vuoto dell’altro, l’assenza, il deserto generato forse dalla morte, forse da una lontananza senza misura.
È una bellezza che s’innalza e s’impone come difesa dall’insidia del presente, che si propone con le maschere di una ferocia e di un’incognita; si oppone al declino, alla dissipazione, alla cancellazione dell’innocenza, all’oscuramento del riverbero di piccole mitologie interiori, alla rimozione di quelle passioni che sono all’origine e che fanno sentire la propria esistenza come consonanza tra la natura e la storia.
La radice, la memoria, il sentimento, la dimora ideale, il tempo assoluto sono raggrumati qui, nella penisola dove il mistero dell’amore è scritto e chiuso in una lettera trovata nel tronco di un olivo, dove le metamorfosi sono impercettibili, i simboli sono immutabili quasi a metafora dell’eternità.

L’allarme

Io non so fino a quando resteremo
chiusi in questo ronzìo...
è una piovra fantastica
la campagna leccese
– olivi, giallo e terra secca (rosso
un interno l’avversa all’improvviso:
furono verdi o nere due pupille,
ed esili ed ignude mani e braccia,
e necessario fu che un volto fosse
il più bello: una gatta? Una sirena?...)

Gettiamo inutilmente le nostre ancore,
ogni cosa appartiene a
un errore di nuvole,
e l’aria si concede alla parabola
d’un volo – e tutto vi s’accampa ormai.

Un fazzoletto parve un drago bianco
nella notte agitandosi, e una voce
gridò l’allarme a noi che spezzavamo
le braccia al crocifisso
per destinarci almeno
a inferni consapevoli.

Vittorio Pagano


Una fiaba. Il paesaggio, le creature, le cose sono dentro una fiaba. Le fisionomie interiori sono trasfigurazione della memoria in una fiaba. Tutto è fantastico, senza peso, leggero, disancorato dal tempo, dallo spazio, liberato dall’assillo della nostalgia, proiettato in una atemporalità sconfinata, in una riverberanza dell’aria, in un universo psicologico di assenza e parvenza, inconsistenza di nuvole, trasparenze di luci, rifrazioni, riflessi. Le storie, le vite, le morti non sono che esiti di incantamenti.
Una visione. Una fiaba. Forse creata da una condizione di oblio, da un naufragio in fondo a burrasche di fantasia, dall’abbaglio di colori, dalla parabola di un volo che per un certo tempo cancella ogni segno di presente, segue un richiamo di voci profonde, una seduzione di epifanie.
Tutto questo accade appunto per un certo tempo: forse un attimo solo. Il fiat di un sogno. Un rapimento nel caos che governa l’universo e i destini.
Come una fiaba finisce quando finisce il movimento della voce che narra, e illude, qui si conclude con un sacrilegio inaspettato, quasi incredibile, intenzionale, violento, motivato dal progetto disperato di un destino, da una folle vocazione per l’inferno.
Ma la chiave di senso è negli ultimi due versi: qui si lacera il velo della fiaba, si oscurano i riflessi dell’illusione, si rivela il senso drammatico della visione: quell’apparenza, quella parabola di volo, l’appartenenza al caso naturale, sono un inferno inconsapevole, predestinato, irreversibile, interiorizzato, assoluto. È quest’inferno che Pagano rifiuta. L’a priori che esclude ogni scelta, ogni interferenza nel già determinato. La violazione della sacralità diventa l’unica – abnorme – possibilità di rivendicare il diritto alla propria consapevole presenza. Anche se con una bestemmia cieca. Con un gesto di peccato che non può avere remissione.

 

Lamento di contadino

Sta l’anima mia dentro le tombe
che ritrovo zappando nel Salento
e non ha voce.
Invano cerco segni nei tramonti
per nuovi giorni, per speranze nuove,
il cielo resta quello della gazza
che salta in mezzo ai cuti
o rauca irride
all’ombra dell’ulivo saraceno.
Ho sopra il petto il peso della terra
e batte il vento nei miei occhi vuoti.

Donato Moro

 

L’anima appartiene alla storia: l’anima è la storia. Anima muta che si manifesta, rappresenta la propria esistenza, la propria essenza per mezzo del passato che risorge costantemente, prepotentemente, sommergendo ogni elemento e motivo di presente, vietando ogni senso di futuro, quale che sia: ipotesi, speranza, desiderio di un altro sentimento, di un’emozione nuova, l’abbozzo del disegno di un tempo che rinnovi l’evento della vita. Perché tutto quello che potrebbe accadere è già accaduto, i racconti sono già stati narrati, sono venuti e passati i temporali, le stagioni ripetono se stesse.
Oltre la storia e i suoi simboli di pietra e di memoria non c’è niente, non può esserci niente. L’ulivo e la gazza vengono dal passato; anche il vento viene dal passato, trascina con sé il passato. L’esistente è testimonianza della presenza di un’anima che giace nelle tombe affioranti che ribadiscono un vincolo come privilegio e condanna al tempo stesso, che urlano la loro ansia, la loro pretesa di essere dissepolte, disoccultate, riportate alla luce, riconsegnate al divenire del mondo, all’avvicendarsi del mattino e della sera, a riconferma perpetua dell’origine, della cifra primordiale, dell’archetipo ineludibile, irreversibile.
La terra viene prima delle creature; durerà oltre le creature. Quando si dissolveranno i corpi, e le memorie dei fatti, quando non resterà nulla dei sogni, né delle parole di una poesia, quando non si sentirà più sul petto il peso della terra, e tutto diventerà leggero come un pulviscolo, e sembrerà misterioso come un singulto di civetta, allora l’ulivo saraceno sarà ancora una silenziosa e significante traccia dell’anima del tempo di un luogo. Lo saranno le tombe di antenati sconosciuti e visceralmente venerati, i tramonti che non mutano colore; lo saranno gli occhi di coloro che verranno, vuoti come sono gli occhi di quelli che ci sono.

 

A Otranto

A Otranto
vento di mare e aspre
le foglie del tabacco
Non ci sarà speranza
per chi non creda
o pianga
Sulle prore
Delle galere Turche
aveva un nome
la speranza di restare
Aveva un nome
la morte e il mare
qui
che dal passato chiamano
la Città e il Colle
gli ottocento morti

Tra grano e vento
son fatti terra
per nuovo patto d’esistenza
A Otranto grava
– come sui nostri giorni –
canto di usignoli
e sortilegio amaro
di un mare invalicabile.

Bruno Epifani

 

Otranto non è un luogo. Otranto è un’idea, una frontiera tra la luce e il buio, una linea d’ombra tra realtà e fantasia, lo sconfinamento da un confine immaginario, un porto per viaggi verso lontananze, per ritorni a rive di certezze senza dubbi. Una microstoria trasmutata in macromito.
Otranto è il nome che si dà alla speranza, a vita e morte, al passato e al futuro, al sogno e all’illusione del presente, all’incubo e all’inganno, forse anche a un’esistenza intera e al suo racconto.
Otranto è i Martiri che parlano al tempo, come se vicende e giorni non si fossero mai conclusi, come se nulla sia stato seppellito, ma ancora si ascoltino bestemmie in lingua sconosciuta, le preghiere e le urla in un dialetto dolce, come se in eterno si rinnovasse il sacrificio degli Ottocento sopra la Minerva.
Forse Otranto è solo letteratura: una metafora che richiama le parole, che ha richiamato quelle di Maria Corti, Carmelo Bene, Nicola De Donno, Antonio Verri, Donato Moro. Queste parole vigorose e tristi di Bruno Epifani.
Otranto è l’ambivalenza, il chiaroscuro, la trasparenza, l’opacità, l’affermazione, la negazione, il pieno e il vuoto, il sinonimo e il contrario, il tutto e il niente, il falso e il vero, il verosimile, l’incomparabile, l’inenarrabile che chiede e pretende il racconto senza conclusione.

Le galere turche all’orizzonte sono voci del mythos che si sostanzia in logos.
Otranto è il simbolo di tutta un’esistenza: quello che su Otranto grava, quello che a Otranto è lieve, grava ed è lieve anche per quelle vite che per Otranto hanno pensieri e parole di passione.
Otranto è un colloquio ininterrotto con il passato, con una storia viva, o sempre ravvivata, che impone (o implora) «un nuovo patto d’esistenze», perché nulla si disgreghi o si disperda nel «sortilegio amaro» della dimenticanza.
Allora Otranto è memoria lunga, dolceamara, dolorosa o consolante, che unisce lontane sponde anche quando può sembrare che il mare diventi invalicabile, quando la valanga del tempo urla una minaccia per i giorni della terra e per i nostri.


Matta la vita

Matta la vita e mmari penzamenti
ggiurnu pe ggiurnu te portane nnanti
su lla carrara ca penne a llu gnenti.
Saccu si’ fattu de noci vacanti,
e ffore sona, ma intra se lu tenti
nu ttroi se nu ccannedde rusicanti
e ppulanedda de mpruscinamenti
ca te critii pinzieri ddarlampanti.
Pare lu sutta a ddunca llei e nnu minti:
tie prestu se pariu ca mari e mmonti
te la Prumessa Terra èrane finti.
Tutta l’acqua è ppassata de li ponti,
sai quiddu ca eri dd’èssere e nnu ssinti…
a cce ssèrvene cchiùi li rendiconti?

Nicola G. De Donno

 


A Finibusterrae «la lingua è aspra, cupa, povera d’immagini, virile, quasi ieratica, ancora latina ed ellenica in buona parte». Così scriveva Luigi Corvaglia agli inizi del Novecento. Probabilmente – certamente – il dialetto aveva la stessa durezza, l’asprezza, la povertà che avevano le cose e l’esistenza. Perché una lingua dice e rappresenta un universo. A quel tempo l’universo di Finibusterrae era come Corvaglia lo descrive nel romanzo. Forse nella realtà era anche più povero, anche più cupo.
Poi quell’universo è cambiato, ed è cambiato il dialetto. Soprattutto dalla metà del Novecento in poi: quando la scuola comincia – per fortuna – a diventare scuola di tutti; quando l’Italia comincia a perdere le forme e le storie della civiltà contadina per prendere quelle della civiltà industriale. Quando tutto questo accade, con i caratteri talvolta contraddittori di ogni mutazione antropologica, di ogni svolta epocale, il dialetto comincia ad esaurire la sua carica sociale e a trovare un contesto di espressione nella lingua poetica.
Quella lingua essenziale, immediata, spontanea, parlata, concreta come la fatica millenaria dei contadini, si trasforma in parola rarefatta, meditata, mediata, ricercata, scritta. Da lingua di popolo in lingua letteraria; da lingua della realtà in lingua d’arte. Come il dialetto di Nicola De Donno: che scava nel profondo della terra per giungere fino alle radici, che scandaglia la sensibilità della sua gente per interpretarne le emozioni, e poi riemerge rivelandone l’essenza, raccontando con sonetti taglienti i vizi e la sapienza.
Il dialetto diventa una forma estetica e una condizione etica che sgretola i muri del conformismo, dell’apparenza, che si insinua nei labirinti del pensiero per tentare – disperatamente – di scoprire lo sgomento che l’uomo prova davanti all’infinito, per dire un senso di pietà, di speranza, di umiltà, per farsi coscienza del tempo, a volte anche medicamento capace di placare il tormento del dubbio, dell’interrogativo martellante sui disegni del destino.

Piazze del Sud

È questa l’ora della pena
nelle piazze che attendono
l’arenarsi dei nomi, della casa,
quando si diffida dell’eloquenza
e vedremo che succede
a guardarci negli occhi
come i soldati della trincea
mentre nelle vene arriva il nemico.

Vittore Fiore


È nello spazio del paese dove si confonde la vita di tutti con quella di ciascuno, dove gli sguardi s’incrociano per tentare di svelare ragioni consuete e misteriose, è in quello spazio che il tempo mostra il suo volto di rapace, che ogni istante scorre come veleno devastante, e le domande esplodono in un silenzio livido, assordante, lasciando i destini sperduti, in abbandono, avventurati in un passo sconsolato di congedo. Il gioco delle apparenze, intanto, si confronta con la concretezza degli accadimenti, tradendosi, quel gioco, rivelando la sua natura effimera, insipiente.
Piazza del sud: è il luogo dell’esilio tra la folla, dell’attesa – forse vana – di una compiutezza, di un senso di autenticità che segni il proprio divenire, l’essere a se stessi, che dimostri l’incomparabilità della propria esperienza.

Nella piazza del Sud l’ora della pena è quella che batte al finire di ogni giorno, dopo il tramonto, quando il buio è appena appena screpolato dalla pallida luce dei lampioni.
È nell’ora della pena che ciascuno si ritrova a tentare un provvisorio resoconto usando per misura il senso degli accadimenti di quel giorno irripetibile e assoluto, con il pieno e il vuoto che lascia, con l’irreversibilità, con le assenze, con i pensieri e le memorie che prendono corpo da una mancanza, una privazione, un sentimento di precarietà, una percezione di straniamento, un malessere per quel tempo che costringe a rovistarsi impietosamente dentro.
Così, a quell’ora, in fondo a quella pena, la piazza è un universo dai confini labili, imprecisi, è la metafora di una relazione tra il tempo che si vive e quello che gli altri vivono, tra un presente e un passato che trovano in quello spazio, in quel microcosmo che si slarga nella mente, in quell’ora della pena che richiama, che evoca, una sintesi che traduce la condizione dell’esperienza delle generazioni che vengono e che vanno, delle storie che iniziano e finiscono, delle scene che si aprono e si chiudono per commedie e tragedie, per attori e spettatori.

Quest’ora lunare

Quest’ora lunare accende gli ulivi del Salento,
sbianca le strade ed apre sui confini la campagna,
ma nelle muricce contorte,
dove a volo basso scompaiono le gazze,
s’annera la nostra pena d’esistere e morire,
d’aver visto svanire
tra una guerra ed un’altra,
tra il fuoco dei teleschermi e dei Caroselli
e il sangue urlato ad ogni angolo di continente,
nel tristo gioco sottosviluppo-accumulazione,
la nostra breve stagione.

Giovanni Bernardini

 

Così a un certo punto paesaggio e uomo diventano una cosa sola; a un certo punto l’uno e l’altro hanno una sola pena, un solo – grande – rammarico, un solo grande sconforto che viene dal sospetto che il tempo sia passato invano, che tra una guerra e un’altra, tra una pace e un’altra non sia cambiato niente, che la storia attragga solo l’indifferente sguardo di spettatori che non sanno reagire all’urlo di una violenza che si ripete identica o più forte.
Allora la pena di esistere ha lo stesso colore della luce di una luna; ha la stessa possanza dei tronchi di ulivo e la stessa tenerezza delle sue foglie; ha la stessa fosforescenza che è data dalla combinazione della luce e della polvere. È una pena che a volte esplode, a volte si ripiega, che si trasforma in amore: anche questa pena d’esistere diventa condizione d’amore, come la «rabbia d’esistere» di Vittorio Bodini.
Giovanni Bernardini annota la desolazione: il volo basso, il cielo che si oscura, l’assenza di un fiotto di vita. La paura, invece, è taciuta: il sentimento atterrito dell’irreversibile, dell’incolmabile, dell’ormai impossibile non riesce a trovare le parole, si annoda nel respiro, si fa grumo di senso che non si scioglie in parola, verso, ritmo. L’apparenza che Bernardini rappresenta in una descrizione che vorrebbe restare neutrale, nasconde lo sprofondo della sofferenza del mondo, del tempo, del paesaggio. Il poeta ha pudore, quasi, di dare espressione ad un’intima reazione d’accusa nei confronti delle cause che provocano il «tristo gioco sottosviluppo-accumulazione», e allora si confonde con l’ombra delle cose, con lo smorzarsi della luce, si lascia commuovere dal pensiero del tempo, del proprio tempo che lo aggredisce o lo sfiora, che qualche volta gli dona la consolazione di una memoria.
C’è sempre stato il mistero dell’attesa nella poesia di Giovanni Bernardini. Nelle poesie degli ultimi tempi l’attesa è diventata uno spasimo. Come se pretendesse una risposta alla domanda del fine ultimo, che non può avere risposta. Come se volesse scandagliare il pozzo senza fondo del principio del tempo e dell’uomo, al quale invece non ci si può nemmeno accostare. Allora il poeta fa tutto quello che può e sa fare per essere e sentirsi pura natura.

Anche il tuo è un varco disperato

Anche il tuo è un varco disperato, furente,
di morte. Solidi lettucci in ferro o fischi
vuoti nell’aria gialla come spiga
i tuoi raggiri, poeta.
Frattaglie ben disposte nelle viscere
di questa terra rovinosa (ci correva
ben viva un tempo la vita):

erano giorni di smalto e di risacca
occhiate veloci, donnine di gusto
al Caffè Buda
questo io rimpiango adesso, silenzi parlati
risa fragorose e poi quell’aria verde
novembrina che mandava brusii
di cioccolato. Cavalli imbracati,
Suppressa, qualche frontale di chiesa
E pochi stemmi. Ancora. Brusii sfiati
battaglie. Sospiri cautelosi.

Antonio Verri


C’è un punto, una condizione, una stagione in cui la poesia salentina realizza una sintesi virtuosa tra tradizione e innovazione, tra forme consolidate e sperimentazione, tra dimensione antropologica e tensione post moderna. È una stagione che va dalla prima metà degli anni Ottanta alla prima metà dei Novanta, che trova in una figura con il cuore da vecchio contadino e il pensiero da raffinatissimo intellettuale, che rispondeva al nome di Antonio Verri, l’ideatore e il fabbricante di una poetica capace di annodare la riflessione letteraria con la cultura della terra, la suggestione joyciana con l’emozione della memoria, la suggestione del mito con la ragione del logos. Andare al di là di Bodini partendo da Bodini; confrontarsi con la supremazia stilistica di Pagano senza farsi stordire; penetrare l’atmosfera rarefatta della poesia di Comi senza farsi catturare dalle sue spire. Contraddire il padre, senza mai smettere di amarlo. Tradire il compagno di strada continuando a seguirlo di nascosto. Affermare che bisogna partire per poi avere desiderio di tornare. Sostenere la necessità – l’indispensabilità – della diserzione per poi ritrovarsi sempre al centro del campo di battaglia, forse anche al centro di due fuochi.
Era questa la vision e la mission di Antonio Verri: mettere insieme, in un grande castello di parole, tutte le creature che abitano la memoria e tutte quelle generate dall’invenzione fantastica di un poeta; disegnare un futuro in qualche modo somigliante al passato e in qualche altro modo completamente diverso; rintracciare il nesso tra lo stupore di un’età e il disincanto di un’altra; lasciarsi coinvolgere dalla ritualità e poi scardinare le ragioni del rito. Le ombre e le storie quotidiane – il padre, la madre, gli amici, i fatti che accadono e che nessuno racconta, i bilanci fatti ad ogni istante, i falsi resoconti – si confondono con il mito di Otranto, con quelle ombre, con quelle storie che provengono dall’infinito e in esso si proiettano; le voci per la strada hanno lo stesso accento di quelle che pregavano e si consegnavano all’Eterno sul colle insanguinato della Minerva. E Idrusa è una delle ragazze mulacchione dagli occhi più neri della notte fonda, dai fianchi ondeggianti come il mare di scirocco, con il cuore sempre diviso a metà tra la vita e la morte.

Se si potesse imbottigliare

Se si potesse imbottigliare
l’odore dei nidi,
se si potesse imbottigliare
l’aria tenue e rapida
di primavera
se si potesse imbottigliare
l’odore selvaggio delle piume
di una cincia catturata
e la sua contentezza,
una volta liberata.

Salvatore Toma

 

Si sottrae a ogni categoria di tempo e di spazio, il Salento di Salvatore Toma. È luogo che non esiste, terra che emerge dalle acque di una fantasia a volte quieta, a volte sfrenata. Quello che importa a questa poesia è cogliere il ritmo che appartiene solo alla fiaba, la sospensione, il riverbero, l’intensità dell’emozione di una percezione; quello che importa è solo immaginare che in questo luogo sia possibile ipotizzare l’assolutezza della pace, la leggerezza di una condizione liberata da ogni affanno, da ogni sensazione di disarmonia con il mondo; importa dire le stagioni del fiorire e quelle dell’appassire, l’impulso che dà origine al pensiero e al vento, il segreto che si cela in ogni movimento del tempo, in ogni nascita, ogni morte; importa dire il rammarico per l’impossibilità di impossessarsi di quel segreto, di farne memoria che vive oltre il tempo che è dato alle creature, oltre lo spazio che circoscrive l’esistenza. Che cos’è, allora, il desiderio di imbottigliare l’odore dei nidi, l’aria della primavera, l’odore delle piume, che cos’è se non l’ingenuo sentimento di stringere l’impalpabile, di impossessarsi di qualcosa che non può mai essere posseduto da nessuno?
Quello che interessa a Totò Toma è la poesia che è nel desiderio. Sa che non si può imbottigliare l’odore dei nidi, l’aria della primavera. Ma sa anche che non esistono limiti per un desiderio. E allora desidera l’imbottigliamento dell’essenza: perché l’odore e l’aria sono essenza incomparabile, irripetibile.
È una poesia tenera, questa; la sfumatura di un acquerello su un foglio di scuola; è il sogno ad occhi aperti di un bambino. Il Salento di Totò Toma è il luogo che apparve agli occhi del primo uomo. Generato dal nulla, impastato di fiato, di ritmo, di respiro, di armonia, di luce, di miraggio, tremito, suono. Vibrazione. Toma vuole allontanare la terra dalla minaccia della realtà, tenta di scongiurarne il declino, di evitare la contaminazione, la corrosione del tempo. Toma tenta questo perché sa che può riuscirci; sa che la complessità di una poesia ha il potere di contenere tutta la complessità della natura. In quell’odore di nido, nell’aria di una primavera, nella contentezza di una cincia liberata, c’è tutta la felicità e la disperazione di esistere, di essere nel tempo. E tutta la malinconia per un’eternità impossibile.

Dei miei paesi

Quanto dei miei paesi m’impaura
è il barocco che resiste, le feste
ad ogni santo, l’eterna primavera
delle rose nei libri dei poeti.
Preferisco le storie dei vecchi
che parlano d’altre feste, al lume
dell’acetilene, finite a coltellate,
con la folla in clamore, in tumulto
a sfondare i portoni dei palazzi.

Lucio Romano

Poi, alla fine, c’è il rifiuto di ogni luogo comune e di ogni poetica indulgente, di qualsiasi elemento che immobilizzi il Salento in una forma stereotipata, in uno sterile cliché, nella figurazione di un immaginario di asfittica ovvietà.
Alla fine c’è il rifiuto di ogni alibi consolatorio o cinico e di ogni simbolo privato dall’essenza, di ogni parvenza di banalità, dell’insignificanza di un presente edulcorato.
Con il mito di Ghiannis Ritzos, l’ascendente di Rocco Scotellaro, la lezione di Tommaso e Vittore Fiore, Lucio Romano dichiara la propria appartenenza esistenziale e culturale al passato. Non alla nostalgia, però. La sua è appartenenza ad un passato vivo, oppure a volte reinventato, ricostruito nella memoria con un’intenzionale confusione con il mito di un riscatto politico, etico, sociale.

Il Salento di Lucio Romano è la terra che ha saputo liberarsi dall’assedio del fatalismo, dalla maledizione del pregiudizio, che ha saputo adeguare alle mutazioni antropologiche la propria fisionomia, che ha costantemente marcato la propria identità nella relazione con il Mediterraneo e l’Europa, ma che nonostante questo ancora si ritrova a pagare il conto ad un malinteso senso delle radici, del genius loci, ad una logica dell’a priori. Ancora una volta aveva ragione Bodini quando scriveva che siamo nati dicendo «a priori» e che ci è destino rimpiangere «fin le cose che abbiamo / qui, vicino a noi, come fossero / miglia e miglia remote».
Lucio Romano, invece, non rimpiange le cose scomparse, non si rifugia dentro un passato che può consolare l’eterna – disseccata – primavera del presente; quello che vorrebbe riavere è la forza dell’utopia, l’energia per rinunciare all’acquisito e ricominciare ogni istante a sentirsi il cavaliere senza paura che combatte il potere e l’ingiustizia, vorrebbe ritrovare le piccole storie che a volte riescono a far dimenticare la miseria, certi volti e certe braccia e certe voci nelle piazze, un modo fanciullesco e innocente di credere di poter cambiare il mondo, progettare un futuro di pace, fare di questa terra il luogo dell’incontro e della speranza.
Ancora un’utopia. Un’altra utopia. Ma Lucio Romano ha sempre creduto che senza utopie l’esistenza non avrebbe avuto né sentimento né ragione. Che non avrebbe avuto sentimento né ragione un’esistenza senza una poesia mescolata con il sangue nelle vene.

 

   
   
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