Giugno 2008

 

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Le giravolte
AA.VV.  
 
 

 

 

 

Arrivo a casa
e, quando apro
la porta,
lui ha la prudente cortesia di esitare, prima di entrare impassibile...

 

Enzo Miglietta,
o della scrittura infinita

È bello e paradossale al tempo stesso […] vedere che, dopo aver duellato per anni, la “scrittura pazza” chiede alla “scrittura convenzionale” di essere accolta in un Museo, inteso non come “loculo” cimiteriale, ma nel vero senso letterale della parola: “casa delle Muse”, casa in cui “vivono” le opere d’arte che in essa si trovano. E la loro vita è eterna, perché sono state affidate a Mnéme (la Memoria), che permetterà a noi, e soprattutto ai nostri posteri, venendo al Museo Gabrieli di Matino, di ammirare e gustare le opere di Gabrieli, di Balsebre, di Miglietta e di tanti altri artisti.
vito primiceri, direttore generale BPP

Sin dagli anni Settanta, Miglietta ha avuto contatti con i fondatori di gruppi e di riviste, dapprima individualmente, poi, dal 1971, attraverso il Laboratorio di Poesia Motoria (successivamente Laboratorio di Poesia di Novoli) da lui fondato e diretto. La sua casa, luogo in cui è ubicato il Laboratorio, diventa negli anni un vero e proprio centro culturale in cui si allestiscono mostre, si organizzano iniziative, dibattiti e performance. Enzo Miglietta, con sua moglie e i figli, insieme con gli autori, i critici e gli storici del luogo, stabilisce un dialogo costante con le più autorevoli personalità nazionali e internazionali della poesia sperimentale della seconda metà del Novecento. Egli frequenta i poeti del centro Tool (in seguito Mercato del Sale) di Ugo Carrega a Milano, i poeti visivi del Gruppo 70 e del Centro Tèchne di Eugenio Miccini a Firenze. Con loro organizza mostre e incontri. Nel Laboratorio ospita esposizioni di poeti e di artisti delle neo-avanguardie tra cui Ugo Carrega, Vincenzo Accame, Vincenzo Ferrari, Adriano Spatola, Arrigo Lora Totino, Eugenio Miccini, Lamberto Pignotti, Michele Perfetti, Luciano Caruso, Lucia Marcucci, Stelio Maria Martini, Ignazio Apolloni, Giovanni Fontana, William Xerra, Enzo Minarelli, Carlo Finotti ed altri.
Oggi, a distanza di circa quarant’anni, non si può non evidenziare il ruolo del Laboratorio nella poesia sperimentale in Puglia in relazione con quello del Gruppo Gramma, fondato nel 1970 da Bruno Leo, Giovanni Corallo e Salvatore Fanciano, con quello del gruppo Ghen, fondato nel 1976 da Francesco Saverio Dodaro, e con il Centro Ricerche Estetiche fondato da Corrado Lorenzo.
L’intensa attività del Laboratorio svolta insieme con i gruppi e gli intellettuali del luogo, in particolare con Toti Carpentieri, dà vita a nuove e originali forme poetiche che nel corso degli anni suscitano l’interesse e la curiosità non solo degli operatori salentini, ma anche di molti intellettuali internazionali che da diverse parti d’Europa (Irlanda, Francia, Spagna, Germania, Inghilterra, Ungheria, ecc…) e d’America (Los Angeles, Miami, Argentina, ecc…) collaborano e contribuiscono alla diffusione della nuova poetica verbo-visuale salentina, in cui la parola va oltre il suo significato verbale e diventa un segno che con altri segni crea un nuovo linguaggio con un valore semantico e visuale diverso.

salvatore luperto

Nel 1993 Miglietta faceva una sorta di consuntivo del proprio lavoro con una mostra intitolata Manoscritti e altro (1977-93), allestita nelle sale del Castello Carlo V di Lecce, nella quale presentava un’ampia scelta della sua produzione.
In quella più recente si poteva notare il tentativo pienamente riuscito di sfruttamento estetico del nuovo mezzo espressivo, che si manifestava attraverso una maggiore cura dell’aspetto formale delle composizioni. Miglietta dimostrava ora di saper coniugare perfettamente invenzione fantastica e competenza tecnica nella progettazione e nell’esecuzione delle tavole, che diventavano sempre più raffinate, complesse, variopinte.
Ciò che colpiva era la sua capacità di saper svolgere, con pochi schemi fissi, una serie impressionante di “variazioni” sul tema. Nelle opere degli ultimi tre anni si assisteva poi a una vera e propria esplosione fantasmagorica, a un’inesauribile proliferazione di segni, di colori e di parole, le quali avevano un rapporto più stretto con il significato complessivo dei “manoscritti”.
In alcune composizioni, a predominare era il piacere, il gusto della composizione. In altre invece egli interveniva, a modo suo, su problemi di attualità, politica e sociale: le guerre, l’ecologia, il razzismo, il ruolo della donna nella società. Era presente anche una riflessione sull’uomo che Miglietta, nelle sue tavole, vedeva sempre più ridotto a schiavo dei meccanismi e rappresentato spesso, quasi alla maniera chapliniana, come un pupazzetto schiacciato dalle pulegge e dagli ingranaggi che rischiano in continuazione di stritolarlo.
Accanto alle esperienze di scrittura verbo-visiva su cartoncini e carta a colori, proseguite fino al 1999 anche attraverso l’allestimento di due altre personali a Milano nel 1981 e nel 1993 e la partecipazione a importanti mostre collettive in Italia e all’estero, Miglietta ha operato, come s’è detto, sempre con inesauribile fantasia e creatività, anche in altri settori della sperimentazione artistica contemporanea. Ricordiamo, ad esempio: i videolibri, raccolte di tavole manoscritte, con i quali tenta di sviluppare un discorso più organico e articolato, mettendo quasi alla prova la duttilità del nuovo strumento; i libri-oggetto, nei quali mette insieme materiali diversi decontestualizzandoli in funzione di un’idea, di un’intuizione che cerca di svolgere coerentemente nelle “pagine” interne; gli innumerevoli interventi di mail art (o arte postale) inviati un po’ in tutto il mondo. Queste altre esperienze sono accomunate dalla presenza della scrittura manuale, la quale costituisce, a ben vedere, una costante di Miglietta, il vero filo conduttore del suo lavoro, dall’inizio a oggi.
La scrittura […] non manca nemmeno nell’ultima, più estrema e provocatoria delle sue sperimentazioni, l’“arte dalla spazzatura”, a cui si dedica dal 1999. Convinto della definitiva e irrimediabile “perdita della parola”, dell’inutilità della comunicazione verbale, inflazionata e diventata ormai inautentica, egli recupera materiali di scarto di ogni tipo (scatole di cartone, residui di polistirolo, buste di cellophan, vecchi manichini, marchi pubblicitari, ecc. ecc.) e li assembla dando loro una forma esteticamente accettabile. Dopo, con l’immancabile pennino da geometra, alla maniera di un antico scriba o di un monaco amanuense medievale chiuso nel suo scriptorium e intento a ricopiare preziosi codici, vi scrive da ogni parte (sopra, sotto, intorno) vecchie composizioni in versi o lettere dell’alfabeto. In tal modo cerca di salvaguardare, nobilitandoli, questi oggetti destinati a finire nei contenitori di spazzatura, indicando forse, al tempo stesso, anche un’originalissima (e utopistica) soluzione a un problema diventato in questi ultimi tempi di drammatica attualità.

antonio lucio giannone

Come mai lo chiama Laboratorio? Non solo per esplicitare il concetto che fare arte e poesia va considerato un lavoro vero e proprio, ma anche per sottolineare l’obiettivo di ottenere una coralità operativa, basata sulla continua sperimentazione ed anche libera dai condizionamenti posti dagli spazi espositivi pubblici e privati. E sicuramente la scelta dell’impostazione del Laboratorio non è estranea al teatro contemporaneo. Come non ricordare Luca Ronconi e il clamoroso allestimento dell’Orlando Furioso di Spoleto? Con la sua azione si rafforza e diffonde il teatro sperimentale, da cui nasce il fenomeno dei laboratori teatrali. Il teatro rappresenta con la sua complessità e ricchezza un privilegiato spazio per condividere esperienze, attuare contaminazioni e sconfinamenti fra le diverse discipline ed i loro linguaggi. Ciò che le unisce è soprattutto la processualità del fare.
Del resto nel linguaggio artistico è ormai entrata a pieno titolo la spettacolarità sotto forma di happening e di performance. E la Poesia Motoria nella sua dinamicità indotta prevede non solo una sorta di teatralità, ma anche le prime contaminazioni con le arti visive…
Il suo pennino “sismografico” non registra più solo i suoi respiri, ma quelli dell’universo. E sono premonizioni minacciose. Ora la memoria delle cose, la cognizione del presente e quasi una preveggenza del futuro si fondono. Con ritualità quasi sacerdotale continua a ricostruire il decostruito e a scriverci sopra. È un messaggio eroico e utopico, irricevibile da qualsiasi strumento elettronico, messo in una metaforica “bottiglia”.
È comprensibile solo a chi può e vuole leggerlo.

ilderosa laudisa

Nell’arte contemporanea sono presenti due tipi di lettura dell’opera.
1) L’opera si rivela in senso immediato, attraverso i sensi della vista, dell’udito e in alcuni casi anche del tatto. Si tratta di un’opera che contiene una forma di lettura monocentrica, con un unico nucleo rappresentativo.
2) L’opera si rivela attraverso forme di scorrimento del pensiero, tramite percorsi formati da immagini successive accostate per omogeneità o per contrasto. Si tratta di opere policentriche che presentano una serie di nuclei destinati ad una fruizione più lenta e che richiede non solo la partecipazione attiva dei sensi, ma anche un’attenta lettura destinata a decodificare sia i vari significati di ogni singola immagine sia gli altri significati determinati dagli accostamenti.
In questo secondo caso ci troviamo, a mio parere, di fronte ad un’arte viva, in grado di dare risultati e soprattutto emozioni diverse a seconda della sensibilità del fruitore.
L’opera non sarà mai fruita completamente in quanto potrà determinare risultati e significati diversi nello stesso fruitore in momenti successivi.
L’effetto magico della parola che incanta e persuade l’animo, grazie alle segrete consonanze tra la psiche e le armonie e i ritmi verbali, da una parte e la scelta naturalistica, che limita la fruizione alle pure sensazioni legate all’emotività, rappresentano un dualismo che si perpetua nel tempo.
Nei due settori esistono esempi sublimi e paradossali cadute. Il problema è in che modo si riesca a far coesistere, nella stessa opera, la teoria e la prassi, l’aspetto formale con quello critico, l’abilità della mano con l’intelligenza dell’effetto, scaturita da una concezione mentale dell’opera associata al sapere e al fare uniti nel talento.
Se il “mythos” sta per un puro raccontare, non obbligatorio nel senso che non implica necessariamente alcuna argomentazione o motivazione, e il “logos” assume forme più rappresentative, come può essere rappresentativa la parola del poeta?

fernando de filippi

Dei poeti greci poteva dirmi quel che voleva e prenderli se del caso a suoi progenitori ma non mi parlasse di Budda o Brahmaputra in quanto […] le mie ultime spedizioni mi avevano visto in Nepal dove avevo fatto il pieno di monaci e arancioni, ritiri spirituali dove il meno che ti potesse capitare era di incontrarci una certa Giulia Niccolai. Lo misi k.o. il Miglietta. Lui né in Nepal c’era stato né aveva sentito parlare di questa signora. Fui dunque io a fargli la storia di una coppia ben assortita, ritiratasi a vivere da bonzi in un mulino ad acqua, a scrivere chi poesie frisbee – sull’esempio appunto di quelle che andavano scrivendo e recitando i bonzi – e chi invece (certo Adriano Spatola) a dirigere una rivista dal titolo molto sonoro (TAM TAM) preludio dell’avventura sua e di altri nel campo della poesia appunto sonora. Lo sconvolsi appunto il Miglietta quando gli mostrai, traendoli dal mio armamentario, un paio di cassette confezionate sotto la sigla Baobab. Tirai fuori un piccolo registratore da una tasca della mia sahariana. Avviai l’ascolto. Finalmente anche noi piombammo nel sonno. Ci risvegliammo alle prime luci dell’alba. Fu il Miglietta a togliere per primo gli indugi. Mi chiarì che avrebbe preso il primo treno per tornare a Novoli, al suo laboratorio, a fare poesia (nel senso di poiein), ai tanti artisti che l’assillavano perché volevano esporre in quel prezioso spazio chiamato da lui LPN: impossibile da decifrare l’acrostico, che infatti mi rimase per sempre oscuro. L’aspettavano grandi eventi. Era di ritorno da Palermo dove aveva incontrato tale Francesco Carbone e visionato il lavoro di certa Vira Fabra dal titolo quantomeno inquietante: Ultimi tattili ai margini della memoria. Ne era rimasto colpito. Aveva sentito parlare pure di Singlossia quale superamento definitivo della poesia tout court e della stessa poesia visiva teorizzata e praticata da certi Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti. Ad avvelenarne il ruscello secondo una certa Rossana Apicella ci avrebbe pensato la nuova teoria, la sua teoria. Alla fine vinse, come sempre, la stanchezza, ma non prima che il Miglietta mi lanciasse la sfida.

«Che venga a Novoli» – ci davamo ancora del lei. «Scoprirà cosa sono gli Ultimi tattili ai margini della memoria attraverso ciò che ne dirà Francesco Carbone. Se proprio le sfuggirà qualcosa, potrà leggere il suo intervento…». Promisi, ma non mantenni la promessa anche perché perdetti il biglietto da visita di quel visionario. Mi rimase ad ogni modo impressa la sua figura ieratica, da uomo minuto, che vede solo ciò che pensa e crede probabilmente nell’amicizia e nel gesto estetico.

ignazio apolloni

Era l’anno 1983, e io stavo organizzando alla Rocca di Stellata, bastione estense sulla darsena del Po al confine tra il ferrarese, il mantovano e il rodigino, una mostra il cui titolo era già un manifesto, Segnosuonoformaoggetto; vi partecipavano molti poeti della cosiddetta ondata visiva, e naturalmente tra loro, Enzo Miglietta. Secondo il saggio introduttivo al catalogo, dove tra l’altro in anni non sospetti già teorizzavo e coniavo il termine Polipoesia (il Manifesto omonimo uscirà solo nel 1987, Valencia, Tramesa d’Art), sviluppavo un riferimento critico che lo riguardava direttamente, ma [...] è meglio specificare il tipo di opera che mi aveva spedito, opera che ancora conservo nel mio archivio [...].
Il titolo “Io incontro una lamina d’Alluminio”, 70x100, incisioni, letraset; va anche detto che nell’invito avevo richiesto un tipo di lavoro che rispecchiasse la polipoeticità del titolo, tutti più o meno si erano adeguati a questa mia impostazione formale. Lui mi aveva inviato questa grande lamina, stupenda devo dire, anche adesso che l’ho messa di fronte a me mentre scrivo fa un grande effetto visivo; tutta intarsiata di lettere, di segni, pazientemente incise in rigoroso ordine verticale, se non fosse per l’assenza di disegni, sembrerebbe una tavola egizia pullulante di geroglifici. In questa manualità si riscontra la sua cifra estetica, geometria e pulizia sono il suo credo, rigore e accumulo quantitativo fanno sì che l’occhio affondi (naufraghi?) nel mare magnum dei suoi segni grafici.

enzo minarelli

Ebbi un primo contatto con Enzo Miglietta quasi trent’anni fa. Precisamente nel 1979, quando con Adriano Spatola lavoravamo per allestire la rassegna di poesia visuale e fonetica che fu proposta nel settembre di quell’anno a Fiuggi. Si trattava di “Oggi poesia domani”, un evento di grande impegno organizzativo che, con finanze magre, riuscì a presentare al pubblico un panorama internazionale di “poesia visuale e fonetica” con più di duecento partecipazioni nella sezione visiva (dai concreti brasiliani agli spazialisti, dai visivi italiani ai visuali americani, ecc.), con un corpus sonoro montato su bobine a diffusione continua per diverse ore di registrazione, con interventi dal vivo di numerosi performer, da Julien Blaine a Bernard Heidsieck, da Paul Vangelisti a Ernest Buchwalder, da Corrado Costa a Giulia Niccolai, da Mirella Bentivoglio (che in quell’occasione propose alcune mimodeclamazioni) a Lamberto Pignotti, dal “duetto” Sarenco/Verdi al gruppo “Simposio Differante”, fino ad Arrigo Lora Totino, che in quattro serate presentò “Futura”, l’antologia di poesia sonora pubblicata dalla Cramps di Gianni Sassi; e poi ancora F. Tiziano (pseudonimo di Tiziano Spatola, fratello di Adriano), Milli Graffi, Aldo Selleri (che proiettò un’opera sonorizzata con Umberto Santucci), mentre John Mc Bride (corresponsabile con Vangelisti della rivista americana Invisible City) animava con Giovanni Anceschi e Matteo D’Ambrosio le serate dedicate ai periodici di poesia e al dibattito sulle sperimentazioni in corso. Si trattava di una delle manifestazioni più importanti di quegli anni, se non altro perché poeti di tutto il mondo erano coinvolti all’insegna della multimedialità e della sinestesia, sia sul piano creativo che teorico: allora ancora cosa rara.
Enzo Miglietta fu tra gli espositori [...]. I suoi lavori mi sembrarono molto strani per l’uso ch’egli faceva della scrittura. Se non altro inconsueti. Niente segni forti, niente gesti eclatanti, niente spettacolarità calligrafica, niente masse o matasse verbali, nessuna particolare ricerca sulle forme dei caratteri, niente variazioni nella scelta dei corpi, niente costruzioni di taglio “concreto”, niente acrobazie di montaggio, niente lacerazioni, nessuna tentazione materia o plastica, nessuna traccia di reperti, di grumi, di nodi corposi e nello stesso tempo nessuna freddezza lapidaria, ma anche nessuna tentazione informale, nessuna scia di slanci performativi, nessuna macchia e nessuna cancellatura, soltanto una scrittura minuta, pulita, tirata, distesa ai limiti della leggibilità, che seguiva trame geometriche puntualmente studiate e precisamente tracciate. Si trattava di una scrittura piegata al disegno, ma non nel senso del “calligramma”, generalmente flessuoso ma dichiaratamente schiavo dell’oggetto descritto; qui gli allineamenti di parole rinunciavano alla propria autonomia semantica per consegnarsi alle strutture geometriche, vere protagoniste della superficie. Il testo perdeva il proprio spessore non solo perché andava incontro all’annullamento del senso, ma anche perché si conformava alla monodimensionalità della linea. Nel tempo, il lavoro di Miglietta avrebbe attraversato stagioni diverse; si sarebbe complicato offrendo più spazio alla texture verbale, alle trame cromatiche, includendo elementi eterogenei, come le figurine della sua “nuova strada” del 1994, e avrebbe optato per soluzioni pittografiche, concedendosi (e forse compiacendosene) anche effetti grafici che riconducevano ad una certa naïveté.

giovanni fontana

 

 

Inediti dal Laboratorio di Poesia

La fontanina

Quella pettegoluccia montanina
attende tutto dì che la donnina
le vada a raccontar della vezzosa
Maria Rosa – è sempre mormorosa;

e sbarazzina scorre a tratti e manda
notizie alla soletta sua Fernanda,
che, per vociar, risponde e fa felice
la nostra Berenice, che le dice:

- Odo di notte qui gl’innamorati
e mamma pioggerella, ai dì calati,
mi manda venticello per scherzare,
e mormorare e ridere ed amare.

- Fanciulle e biricchin di questa strada,
connette in grembiulin testa sbrigliata,
sentite, oh! qui correte, all’acqua fresca,
che bacia, che rinfresca e che v’intresca.

- La Giulia ha perso il bello e Gino è pazzo
per la Rosetta e la Rosina è al lazzo;
la Brigida ha sé dietro la canea
e la Pompea veste come dea.

- Correte, amiche, all’acqua, all’adunanza,
Fontanina di voi ha distanza;
che la graziosa e pura sua Fernanda
a dir le manda che Rosina sbanda -.

O Fontanina, vispa e senza alloggio,
perché ci stoni? e il lesso al fuoco brucia.
Lascia che le fanciulle sian secrete.
Potessi in fondo a Lete arder di sete.

O miseranda peccatrice nera,
cambia una volta alfin la tua chimera,
ché più d’un uomo, ahimè! ti maledice
il dì infelice in cui ti festi attrice.

s.d. ...10.46

Le donne e il fumo

Quattro donne e un diavoletto
messi su una berlina
di cartone e un po’ di trina
iniziarono un viaggetto.

Centomila uccelli al tiro
travestiti da destrieri
dovean far pel mondo un giro
ad attrar bei cavalieri.

Stava il fatto che il carretto
solo ruote aveva per terra
e i destrier senza garretto
non valevano alla guerra.

Ed all’ora di partire
quattro donne fur menate
dietro a un diavolo di frate
che nel fosso andò a finire.

Della favola il morale:
pover’uom che stiri gli occhi,
sta per dire, fai del male,
ma risparmia i tuoi baiocchi.

16.12.55


Tu vai allo spigolare

Tu vai allo spigolare
bionda mogliera
e mi porti il solo nella tegliera
e delle gore il bisbiglio
alla nostra sera.

O quando stai di vendemmia
piccola mora
t’alzi che albeggia
il tino divora
la botte vaneggia
e il ciel si colora
sulla nostra reggia.

Ma se d’inverno senza dafare
siedo un po’ triste
vicino al focolare
tu sferrucchi al pedalino
di lana della nostra pecora
che terrà caldo il bambino
e con gli occhi d’ametiste
dirai: t’amo
anche se la vita è un po’ triste.

E quando il tempo del tabacco
ne caccerà dal sacco
tu alla scranna nera
io alla terra fredda
ci rivedremo a sera
stanchi felici.

E a maggio che i ciliegi
saran tutti in fiore
tu verrai tra le aiuole
piena di dispregi
come bimba in amore
che i fiori dileggi.

O cara mogliera
io vo’ che alla mia sera
tu non debba cacciare
il tuo uomo che non ha dafare,
io vo’ su te contare
che saprai mio figlio campare
e in te tutta la vita
mia sarà finita
e non mi vedrai mai
allontanare
neanche nella dipartita.

25.11.56

Alla raccolta delle olive

Alle olive
van le campagnole,
con scherzi e con parole
fanno l’amore,
e i giovanotti in panna
vedon le mutande
sotto gli alberi
alle contadine
liete e chine
a cogliere le olive.

Van le campagnole
alle olive
di buon mattino.

Sotto i verdi olivi
i gai corpetti
i baldi giovanotti
si fan di fronte
ed alle contadine
a cogliere chine
guardano i petti.

Van le campagnole
di buon mattino
a cogliere le olive.

Cantano in coro
e fan le stornellare
poi si distendono
allegre e variopinte
attorno ai vecchi tronchi
e mangiano insieme
giù per gli occhi bevendo
gli amor che van volando
dai veli ai cappellacci.

Le campagnole
con gli occhi e le parole
fanno l’amore.

E quando la giornata
buia è calata
tra le dense chiome
dell’oliveto
sullo stanco volto
ride l’amore
ma per la curva schiena
dolorante
dormono l’ore.

Le campagnole sole
no, non s’alzano;
il campagnuol ci vuole
che se le stringa al petto
che le riscaldi
e le riporti dritte
dritte come all’alba
verso l’amore.

Van le campagnole
sole
a cogliere le olive
piene d’amore.

Anch’esse abbrunite,
umili e rubeste
s’avvolgono il vestito
ed al tramonto tornano
a ripensare quiete
a un buon marito.

Van le campagnole
alle olive
di buon mattino
a cogliere e a cantare
van le campagnole
di buon mattino.

s.d. … 1.58

 

S’affaccia la Rosetta al balconcino

S’affaccia la Rosetta al balconcino
E fa pronta che innaffia il ciclamino
Ma su e giù in fondo al corso manda
I suoi lucenti sguardi pieni d’amore.

Se vede Giovannin che fa i dispetti,
si pianta e par che ben sporta l’aspetti;
poi ch’egli è giunto al suo balcon richiude
e spia che faccia fa Giovan, quel rude.

Poi l’altra volta che Giovan ripassa,
già disilluso, e guarda il fior di fronte
al ciclamino solo della Rosa,
appar Rosetta e gli si mette in posa.

Oh! Giovan non sa che Santo andare
dietro alla sagrestia a invocare.
Si dispera e si pente, arde, s’arrabbia,
mai no, mai non l’avranno in gabbia.

O lo convincerà Rosetta all’amo?
Ora Giovanni cambia strada e piano.
Rosetta langue. Ma ha visto un altro tipo,
già s’entusiasma e Giovannin è finito.

15.12.58

 

I calzoncini per il mio bambino

I calzoncini per il mio bambino,
l’ho pagati di più,
perché per i bambini,
le stoffe devono essere più care.
Capirai…

E il paltoncino per la Nina.
Felpato, rosso, col cappuccio.
Le sta. Com’è carina.

La vedrai.

Vedessi che roba brutta ha preso l’Assunta,
per quei piccini. Invece quella dell’Ada
è bella, costa poco, ma è bella.

Ma per i bambini,
bisogna spendere di più.
Capirai…

Vedi? Ne faccio un paio di sovratasche per la Ida
E mi resta una cinta per Gigiona.

Oh! Com’è piccolo quel salvadanaio.
Un altro anno lo cambio, lo cambio…

Possibilmente,
senza che se ne accorga mio marito.

s.d. … 12.58

 

Oggi abbiamo cucito

Oggi abbiamo cucito quindici paia di pantaloni.
E sono mille e novecento lire.
Millenovecento lire per dieci giorni,
per dieci volte, sono diciannovemila lire;
dieci per casa e nove per noi;
tu ti fai un lenzuolo;
io una coperta;
e tu due camicie che ti servono.

Arriva la sera,
quella dei dieci giorni,
e la mamma tira fuori i conti:
quello della farmacia,
quello del pane e della salsa,

quello del calzolaio,
quello della legna,
tutti arretrati, arretrati,
terribilmente arretrati,
non finiscono mai, non finiscono mai,
mai si finisce, mai di vivere,
di consumare, di spendere.
Qui in questa casa è un inferno.
Io voglio sposarmi.
E io pure.
E anch’io. Me ne voglio andare,
me ne voglio andare.

È un altro giorno,
dopo la sera del decimo.
S’ode il canto di voci solerti
e il traffico della Singer;
di quando in quando scoppia il tuono,
i nervi; poi il lavoro caccia via
i brutti pensieri e si ride.

Fanno ancora i conti quelle teste matte
di bambine?
Sì, le quindicenni, anche affamate,
e disperate, non finiscono mai di far conti,

di sognare;
nonostante tutto.
Oh! felicità della vita
in quegli occhi luminosi
lucidati di quando in quando
da qualche lagrima.

s.d. … 1.59

 

   
   
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