Marzo 2009

L’ITALIA DOPO IL CROLLO DI WALL STREET

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Lo Stato banchiere
degli anni Trenta

M.B
D.M.B.

 

 
 

Salvataggio.
Di fronte alla minaccia che il sistema bancario colasse a picco, a Mussolini non restò che salvare la Comit e le altre due banche miste, trasformandole in istituti di diritto pubblico.

 

Fra le misure per venir fuori dalla crisi contemplate dai responsabili della politica economica italiana figura anche – ma esclusivamente in caso di emergenza – l’ingresso dello Stato nel capitale delle banche. E in questo contesto c’è chi ha evocato quanto si verificò in Italia all’indomani della Grande Crisi del 1929. In realtà, anche allora le nostre istituzioni si impegnarono a varare specifici interventi di sostegno alle banche, salvo poi dover includere quelle di maggiore stazza, che non era riuscito a riportare al di sopra di una linea di galleggiamento, nell’ambito della sfera pubblica, in pratica nazionalizzandole.
Ma non è soltanto per questo che si riscontra una sostanziale differenza fra i rimedi previsti attualmente, qualora se ne presentasse la necessità, e quelli cui si fece ricorso negli anni Trenta del secolo scorso. Il fatto è che quella di allora fu una crisi emersa dagli anfratti dell’economia reale, dovuta innanzitutto, sia negli Stati Uniti sia in Europa, a un crescente squilibrio fra produzione e consumi, e che nel nostro Paese si manifestò tre anni prima del 1929. E ciò a causa della manovra deflattiva attuata dal regime fascista nel 1926 e tradottasi, oltre che in una riduzione d’autorità dei salari e degli stipendi, in una rivalutazione oltre misura della lira per motivi di prestigio nazionale. L’industria si era in questo modo trovata alle prese con un’accentuata flessione della domanda, con la restrizione delle commesse pubbliche e con una minore capacità competitiva delle proprie merci nei circuiti di mercato internazionali.

“A chi la pioggia...a noi... !”, litografia a colori di Leopoldo Metlicovitz, nella Milano fine anni Venti. - Archivio BPP
“A chi la pioggia...a noi... !”, litografia a colori di Leopoldo Metlicovitz, nella Milano fine anni Venti. - Archivio BPP


Se quasi immediatamente le principali banche, dalla Commerciale al Credito Italiano e al Banco di Roma, risentirono in modo pesante dei guai capitati addosso alle maggiori imprese, fu perché esse, da più di vent’anni, provvedevano in larga parte al finanziamento industriale, anche sotto forma di rilevanti partecipazioni azionarie. Così che il tonfo della produzione e la frana in Borsa dei titoli delle imprese più altolocate finirono per coinvolgere questi tre istituti bancari, dato che non poterono esigere il rimborso di molti dei loro crediti, e di conseguenza videro deprezzarsi i pacchetti azionari in loro possesso. In pratica, il rapporto tra banca e industria da “fisiologica simbiosi” si era tramutato in «una mostruosa fratellanza siamese», per dirla con Raffaele Mattioli, all’epoca giovane dirigente della Commerciale.
Di fatto, nel 1932 gli immobilizzi industriali ammontavano a quasi tre volte il totale dei depositi a vista e dei conti correnti. Per questa ragione le condizioni sempre più precarie di numerose aziende minacciavano non soltanto di travolgere le principali banche alle quali esse erano legate a doppio filo, ma anche di far terra bruciata di una parte cospicua del risparmio nazionale, nonostante le sovvenzioni concesse nel frattempo dalla Banca d’Italia agli istituti di credito più traballanti.

Marcello Dudovich, “La Rinascente, articoli da viaggio”, litografia a colori, 1925. - Archivio BPP
Marcello Dudovich, “La Rinascente, articoli da viaggio”, litografia a colori, 1925. - Archivio BPP


Di fronte alla minaccia che il sistema bancario colasse a picco, gettando sul lastrico milioni di risparmiatori appartenenti per lo più alla piccola borghesia, (il cui consenso era oltretutto alla base del successo del regime), a Mussolini non restò che far propria la soluzione che gli era stata suggerita dai vertici della Commerciale. Che era di salvare la Comit e le altre due “banche miste”, di deposito e d’investimento, trasformandole in istituti di diritto pubblico. Ciò avvenne dopo la creazione, nel 1933, dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, per cui lo Stato mise a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite della Commerciale, del Credito Italiano e del Banco di Roma, e acquisì contestualmente le loro partecipazioni industriali. Quanto l’Iri si trovò così a ereditare non consisteva in una massa di titoli puramente cartacei, più o meno tossici, al modo di quelli che nei mesi scorsi sono risultati in pancia a varie banche negli Stati Uniti e altrove (e, seppure in misura assai più esigua, in quella di alcuni nostri istituti di credito). Si trattava, invece, di immobilizzi e di quote azionarie in diverse imprese che,sebbene fossero malconce, tuttavia conta pubbliche e con una minore capacità competitiva delle proprie merci nei circuiti di mercato internazionali. Se quasi immediatamente le principali banche, dalla Commerciale al Credito Italiano e al Banco di Roma, risentirono in modo pesante dei guai capitati addosso alle maggiori imprese, fu perché esse, da più di vent’anni, provvedevano in larga parte al finanziamento industriale, anche sotto forma di rilevanti partecipazioni azionarie. Così che il tonfo della produzione e la frana in Borsa dei titoli delle imprese più altolocate finirono per coinvolgere questi tre istituti bancari, dato che non poterono esigere il rimborso di molti dei loro crediti, e di conseguenza videro deprezzarsi i pacchetti azionari in loro possesso. In pratica, il rapporto tra banca e industria da “fisiologica simbiosi” si era tramutato in «una mostruosa fratellanza siamese», per dirla con Raffaele Mattioli, all’epoca giovane dirigente della Commerciale.
Di fatto, nel 1932 gli immobilizzi industriali ammontavano a quasi tre volte il totale dei depositi a vista e dei conti correnti. Per questa ragione le condizioni sempre più precarie di numerose aziende minacciavano non soltanto di travolgere le principali banche alle quali esse erano legate a doppio filo, ma anche di far terra bruciata di una parte cospicua del risparmio nazionale, nonostante le sovvenzioni concesse nel frattempo dalla Banca d’Italia agli istituti di credito più traballanti. Di fronte alla minaccia che il sistema bancario colasse a picco, gettando sul lastrico milioni di risparmiatori appartenenti per lo più alla piccola borghesia, (il cui consenso era oltretutto alla base del successo del regime), a Mussolini non restò che far propria la soluzione che gli era stata suggerita dai vertici della Commerciale. Che era di salvare la Comit e le altre due “banche miste”, di deposito e d’investimento, trasformandole in istituti di diritto pubblico. Ciò avvenne dopo lacreazione,
nel 1933, dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, per cui lo Stato mise a disposizione i capitali necessari a coprire le perdite della Commerciale, del Credito Italiano e del Banco di Roma, e acquisì contestualmente le loro partecipazioni industriali. Quanto l’Iri si trovò così a ereditare non consisteva in una massa di titoli puramente cartacei, più o meno tossici, al modo di quelli che nei mesi scorsi sono risultati in pancia a varie banche negli Stati Uniti e altrove (e, seppure in misura assai più esigua, in quella di alcuni nostri istituti di credito). Si trattava, invece, di immobilizzi e di quote azionarie in diverse imprese che,sebbene fossero malconce, tuttavia contavano fior di impianti, oltre a brevetti, a reti commerciali e a numerosi altri servizi complementari. D’altro canto, il presidente dell’Iri, Alberto Beneduce, e il direttore dell’istituto, il foggiano Donato Menichella, non erano soltanto dei manager di primissimo ordine e indipendenti (non possedevano neanche la tessera fascista), ma erano tutt’altro che di orientamenti statalisti, (come, in verità, non lo era neanche Mussolini, che li aveva chiamati a ricoprire tali incarichi, sebbene fosse riemerso in lui, in quella drammatica circostanza, un fondo di animosità anti-capitalista ereditato dalla sua lontana militanza di socialista rivoluzionario). Perciò, l’obiettivo che essi si erano posti era di dismettere il più rapidamente possibile le imprese passate sotto l’egida pubblica, ricollocandole sul mercato a prezzi comunque tali da ripagare, se non completamente, almeno una parte delle spese affrontate dallo Stato per risanarle.

Ancora un manifesto di Leopoldo Metlicovitz per il Calzaturificio di Varese, a Ferrara, aprile 1923. - Archivio BPP
Ancora un manifesto di Leopoldo Metlicovitz per il Calzaturificio di Varese, a Ferrara, aprile 1923. - Archivio BPP


Se poi l’Iri venne trasformato, nel 1937, da un convalescenziario in un ente permanente, dando così vita non soltanto allo “Stato banchiere” ma anche allo “Stato imprenditore”, ciò si dovette a due circostanze che nel frattempo erano sopraggiunte.
La prima fu la riforma bancaria del 1936 con cui, da un lato, si stabilì una netta distinzione fra esercizio del credito mobiliare, sotto la vigilanza della Banca d’Italia; e dall’altro, la Commerciale, il Credito Italiano e il Banco di Roma vennero trasformati in“Banche di interesse nazionale”, mantenendone tuttavia criteri di gestione in linea con le regole del mercato.
La seconda circostanza, per cui numerose imprese rimasero sotto le insegne dell’Iri, fu che il loro smobilizzo non poté avvenire per diverse cause: dalla carenza di capitali di rischio in un mercato finanziario sostanzialmente asfittico, come quello italiano, alla persistenza di una congiuntura economica avversa; dalla riluttanza dei gruppi privati a sborsare quanto debitamente richiesto dall’Iri per la retrocessione di alcune aziende, al varo del piano autarchico successivo alla guerra d’Etiopia, alla politica di riarmo del regime, che lo portò a mantenere sotto diretto controllo alcuni complessi industriali considerati di carattere strategico (a cominciare da quelli siderurgici e cantieristici, d’altra parte già in passato largamente foraggiati dallo Stato).
Fu per queste ragioni che l’Italia fascista finì per figurare in Europa seconda, subito dopo l’Unione Sovietica, per grado di statizzazione della sua economia.

   
   
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