Guglielmo Nicola Patitari




Oliviero Cataldini



Ancora una volta arguzia ed ironia eccitano l'inventiva del nostro poeta dialettale NICOLA PATITARI in una poesia del tutto sconosciuta che ho avuto la fortuna di reperire, riprodotta su microfilm da una collezione di giornali dell''800, presso la Biblioteca Nazionale di Firenze, una delle poche, in Italia, che conservi qualche produzione giornalistica nostrana del secolo scorso, essendo la maggior parte delle Biblioteche o Centri Librari Nazionali, come da me accertato, del tutto sprovvisti.
E poiché, da anni, mi diletto di studi linguistico-filologici, mentre vado raccogliendo e pubblicando quanti più esempi m'è dato di reperire sul nostro dialetto, m'è parso opportuno rendere nota ai lettori di queste pagine questa poetica composizione, perché apprezzino anch'essi, a distanza di quasi un secolo, la bellezza e la vivacità di questo nostro dialetto.
Quell'estroso " don Cocco ", come era affettuosamente chiamato dai suoi contemporanei, o quell'eccentrico Ippazio Tari, come egli stesso amava sottoscrivere le sue composizioni, cioè con l'allitterazione dialettale del proprio cognome (IPPAZIO, infatti, nel nostro dialetto: PATI; per, TARI, poi, è la parte terminale del proprio cognome: PATI - TARI), si rivela sempre vivo, faceto, inesauribile nelle bizzarre considerazioni, nei pungenti sarcasmi, sempre pronto a colpire, a fustigare con la sua innata e perenne inventiva poetica.
Si è costretti a parlare di lui, perché ci si trova di fronte ad un poeta che non solo fu, per naturale dote di perspicacia ed intuizione, il vero cantore dell'anima del popolo gallipolino, ma seppe anche dare un aspetto vivo e vero alle concezioni e situazioni più disparate del vivere comune, determinando e fissando, nel contempo, con gli epiteti, con le sue espressioni, con nuova fraseologia insomma, una definizione, immediata ed incisiva, agli aspetti più eterogenei e più paradossali del carattere degli individui; e impresse, così, nella mente del popolo e nel vocabolario dialettologico nostrano un termine, un etimo, un vocabolo adatto a mettere in risalto l'indole, il vizio, la caratteristica strana e peculiare dell'azione o del soggetto. Egli rese, insomma, il proprio dialetto più lapidario, più fotografico, e, perché no?, più onomatopeico.
E mi pare che sia, questa, dote non comune, qualora si pensi che un critico a lui contemporaneo, Domenico Franco, autore di pregevoli poesie in dialetto gallipolino, esclamò, a proposito della traduzione in vernacolo di un'ode, in lingua italiana, " Il canto dell'odio ", del noto poeta ottocentesco Olindo Guerrini, alias Lorenzo Stecchetti: " La traduzione ha superato di gran lunga l'originale ".
Soffermare, perciò, la propria attenzione su Nicola Patitari, poeta e commediografo gallipolino, non mi sembra superfluo e inutile, perché è anche vero che, ancora ai nostri tempi, si ricorda con compiacimento il nome del Poeta, come di colui che seppe affondare il bisturi della sferza morale su tutti gli aspetti parodistici o ridicoli del carattere cittadino, ma è anche vero che egli rimane assai poco conosciuto e per le sue pur pregevoli e molteplici elaborazioni poetiche, e per la sua inconfondibile " vis comica ".
Una particolare nemesi, infatti, ingiusta e livellatrice -per chi cerca di avvicinarsi un po' di più al nostro concittadino, per comprenderne l'evoluzione, o meglio, le varie fasi di diffusione dei suoi pregi culturali - sembrò che si fosse abbattuta su di lui, non consentendogli di evadere dall'ambito socio-culturale in cui viveva ed in cui era tanto considerato, pur se non mancarono favorevoli apprezzamenti nell'ambito circondariale o provinciale, fuori, perciò, dalla ristretta cerchia di una valutazione compiacente o adulatoria alla sua opera. E' ciò che si desume dalle benevole attestazioni espresse dalla concittadina Antonietta De Pace, nota in Italia per i suoi trascorsi politico-risorgimentali, nonché dall'ancor più noto Sigismondo Castromediano, di Cavallino, il quale fece leggere le poesie del Gallipolino, come egli dice, " a due persone dotte, a Roma, ... a persone distintissime specialmente perché si occupano di studi seri sui dialetti italiani... che sono la forza viva della lingua nazionale e rappresentano tante fonti di poesia che vale ad educare il popolo che l'intende e la sente meglio che non la poesia della lingua dotta e classica ".
Così il Castromediano, cui i versi piacquero per "eleganza di fantasia e di dettato, degni - disse - di miglior sorte dell'aspettata ai libri di dialetto, i quali disgraziatamente restano circoscritti nel paese in cui nacquero ". Però non palesò, o forse gli sfuggirono, i nomi dei " dotti critici romani " i quali, se nominati, avrebbero potuto costituire un crisma basilare, e apprezzabile, alla nobile opera del nostro schivo cantore, senza dire che avrebbero potuto rappresentare l'avvio di future e più ampie valutazioni.
Ed il Patitari si rimase, così, solo, relegato a quell'ambito paesano, che pur lo considerava degno di stare alla pari del siciliano Meli e del leccese D'Amelio, come affermava in quel tempo un altro poeta gallipolino, Luigi Forcignanò, sul giornale " Spartaco " del 1892; si rimase solo, confortato da giudizi di eccelse personalità, la cui voce, se poteva essere ascoltata, come lo era, nel campo della lotta politica e nella dinamica degli avvenimenti eroici, non lo era, però, altrettanto, nel campo della critica letteraria o della diffusione in ambienti più vasti, nazionali, degli " addetti ai lavori ", come oggi si usa definirli.
Forse nocque al Patitari quella sua naturale, riservata modestia, amante com'era della famiglia e del suo lavoro nella Banca Popolare del suo paese, occupazione, questa, che faceva gridare a Girolamo My, compaesano, " molto versato nelle lettere ", come viene riportato nello "Spartaco " del 20 novembre 1891: " Peccato che la tua musa s'irruginisca nella burocrazia del banco, la quale isterilisce i grandi ideali "; mentre prima aveva promesso: " Se le sventure non mi percuotono troppo, ed avrò un momento di quiete, vorrò elocubrare un articolo critico sulle tue poesie più belle, specie su quella del " Fanciullo morto "che mi ha fatto pregustare affetti non ancora sentiti ". E uno dei " dotti romani ", come afferma il Castromediano, aveva esclamato: " La moglie del marinaio " è veramente stupenda poesia; io me l'ho ancora riletta più volte e mi pare di capirla perfettamente. Non meno bella e commovente è quella del " Bambino morto ". Il dialetto gallipolino è più difficile del leccese ". Ma l'articolo non venne, mentre il " dotto " non si palesò; né si conosce la ragione.
Forse nocque al Patitari proprio quello che il Castromediano andava consigliando, " di sfuggire, cioè, in avvenire, per quanto può, la scuola del verismo, ché, a mostrarsi poeta, non ha bisogno d'una scuola che, per grazia di Dio, quasi appena nata è decaduta, e passerà nella storia letteraria come simbolo di malessere e di fiacchezza morale e mentale ". Così dal giornale "Spartaco " del 27 Febbraio 1893, mentre, dopo cinque anni, " a soli 46 anni di vita veniva strappato all'affetto di chi apprezzava il suo ingegno "; ancora dallo " Spartaco " del 25 dicembre 1898.
Ed il Patitari se ne uscì, così, in silenzio, dalla scena della esistenza; né si ebbe interesse alcuno a farlo rivivere, tanto che, ancora ai nostri tempi non viene neanche ricordato nel libro " Ottocento poetico dialettale salentino " di Ribelle Roberti, del 1954. E sì che una copia dei "suoi versi furono deposti nel nostro Museo Provinciale " come ebbe a dire lo stesso Castromediano!
E tutto ciò del Patitari poeta. E del Patitari commediografo?
Sotto questo aspetto, poi, non è affatto conosciuto, o quasi; tant'è che solo nel 1970, ebbi la buona ventura di scoprire, tra le numerose inutili carte della Biblioteca Comunale di Gallipoli, i manoscritti di ben cinque commediole che trovansi, ancora oggi, conservati negli scaffali della stessa, e delle quali diedi notizia in uno di quei simposi culturali che si tennero presso l'Associazione Linguistica Salentina " Oronzo Parlangèli ", sotto l'egida della Università degli Studi di Lecce, la quale curò, inoltre, la pubblicazione di una commedia: " Serra vecchia nu sserra cchiui " - spesso rappresentata in teatro dai pochi appassionati del Circolo Culturale Giovanile di Gallipoli -, preceduta da una breve biografia da me elaborata. Mi si permetta, intanto, di indirizzare gli studiosi di linguistica e filologia a quanto si ebbe a pubblicare in quella circostanza e precisamente al Vol. 4, Fasc. 2, 1971, della rivista " Studi Linguistici Salentini ", Lecce, nella segreta speranza che non mancheranno cultori di tal branca di studi animati dal desiderio di valorizzare le menti che nel passato hanno dato lustro e rinomanza alla nostra città.
E, a voler dare uno sguardo a quelle cinque commediole, non si può, tra l'altro, non rimanere meravigliati nel constatare come il Patitari si dimostra interessato, già nel lontano 1890 - questa è, infatti, la data che si trova sul manoscritto dello scherzo comico in 2 atti intitolato: " La linfa del Prof. Hoch " - a situazioni che oggi sembrano diventate di moda e che sempre più eccitano un mal celato senso di mordace e sarcastica curiosità in chi apprende la notizia, per quel fenomeno, cioè, biologico che scientificamente prende il nome di determinazione genetica, ma che, piuttosto impropriamente, si usa indicare di mascolinizzazione, consistente; in definitiva, in una più o meno completa trasformazione in maschio di un individuo geneticamente femminile.
E, per ciò che si riferisce al suo credo religioso, non c'è dubbio che egli ama considerarsi un laico incallito, un miscredente, come chiaramente lascia intendere, nel 1892, procedendo alla traduzione in dialetto gallipolino dell'opera, in atto unico, di Felice Cavallotti: " Il Cantico dei cantici ", la commediola che, tradotta in francese e tedesco, nel campo della cultura italiana, al successo unì lo scandalo e provocò accese polemiche; per qualche tempo, anzi, divenne l'insegna di quell'indirizzo positivista e anticlericale, cui inclinava la politica del suo tempo.
Tuttavia, è doveroso affermare che il Patitari espresse, in modo meraviglioso, quel sentimento religioso popolare, così come lo sentiva procedere e svilupparsi nell'interiorità dell'anima dei suoi cittadini; e cioè intenso, impulsivo, a volte irritante e, sotto molti aspetti anche irriverente, forse proprio per quella confidente familiarità che il credente nutriva per i suoi Santi, che, se invocava con sommessa accorata preghiera, si predisponeva, tuttavia, ad una aspettazione baldanzosa, di sicuro effetto e di immancabile condiscendenza. E non mancano, infine, nei suoi versi, forse tardivi baluginii di remoti dubbi, che se non portano affatto a opinabili ripensamenti o accostamenti di fede, indicano tuttavia indeterminate acquisizioni di principi che ancora aspettano una risposta definitiva.
A prescindere da queste poche e fuggevoli considerazioni, il nostro Patitari fu un verista per la pelle, sempre pronto ad analizzare qualsiasi atteggiamento di costume, qualsiasi carattere che mal si confacesse ad un vivere onesto e laborioso, qualsiasi avvenimento di cui fosse a conoscenza: la festa, la gioia, la morte, l'amore, l'emigrazione, il matrimonio, la guerra e, soprattutto, la miseria e il lavoro.


Lu patucchiu mpannatu

La prima ci 'bbanduna è la fatia
E nu nci passa cchiui de la putea,
Se corca notte, s'azza a menzadia,
E mangia e bive c'alla facce mea.

Lu máju e lu mbarazzu l'ha vinduti,
Li chiovi ci tania se l'ha llavati,
Sordi nd'ha fatti e nd'ave fatti muti
Ma jeu pe me nu sácciu addu l'ha cchiati.

Ci dice c'ha rrubbatu milli lire,
E ha fattu carte fazze a centanare,
Ma quista cosa nu se po' cridire
Ci no l'avíane butu 'ccarciarare.

Si, quantu pij e cárciri!... cci gh'eri
Ladru de fracazzani o cauliffiuri?
Moi li maippi, moi li ladri veri
Su Cavalieri e ssu Cummendaturi.

Moi dae sordi 'ntaresse su ccambiale
E cculli pigni puru pe cci l'ole,
Te face, si, nu bruttu serviziale,
Ma sape tte lu fazza e nu tte dole.

Lu caícchiu te trova e tte ncarizza
Cu biscia ci te minte la capezza,
Fincattantu nde resce cu tte mpizza
Nu piernu a ppani de tre sordi a ppezza.

Ci poi, mai sia, nu mese va Ilu ntrassi
Cu nu paghi ddu tantu de ntaressi,
Tanti bili te dae, tanti scunfassi
Ca te vénene mpursi cu Ilu spezzi.

E ttocca cu nde vindi pe 'na ira
Li pigni toi ci tántu te custara,
Ci no è capace tandu cu tte tira
Na causa cu tte sáccia mutu mara.

Eccu comu s'ha fattu lu cuntante
E ss'ha nchiuti li cazzi stu fatente,
Stu patúcchiu mpannatu, stu birbante,
Ci se suga lu sangu de la gente.

Basta, parlamu d'addu... E bene l'ora
Ci lu pízzaca l'apu cu sse nsura
Ci mmaladittu, fete de utte ncora
E bole cu sse sposa na signura?...

E lu vidi alla festa ca se ntilla
Culla camisa janca de bargalla,
Chinu de brasciulì e de mentichilla
E cu na scolla russa, verde e gialla;

Li caddi se li scunde de li mani
Cu nu paru de quanti fini fini,
Ma nd'éssene li lumbi sani sani
De le ciapudde susu 'lli scarpini.

E' ccosa tte lu presci e tte lu vasi
Ca è la mbidia de mienzu a 'lli carusi,
Ma jeu ca lu canuscu ca è bastasi
Me vene cu lu piju intr'alli musi.

Na signura! nde nasci!...
Quattru rane Poti tanire e nu tte dicu none,
Ma na signura resta senza pane,
Ma nu sse sposa te lu vastasone.

Sarai signore mol ca t'hai rricchiutu
C'hai fattu carte fazze o c'hai rrubatu,
Ma nu tte ngalluzzire tantu mutu
Ca patúcchiu te chiámane mpannatu.

IPPAZIO TARI (1893)

NOTE
1) sta in giornale " Mamma Sarena " N° 10 - II, Anno 111 del 23 Luglio 1893, Gallipoli.

Il pidocchio con le penne

La prima cosa che abbandona è il lavoro, né passa più dalla bottega; si corica a notte inoltrata e si leva a mezzogiorno; e mangia e beve alla faccia mia!

Il maglio ed il grande coltellaccio li ha venduti, i chiodi che aveva se l'è tolti [si è sgravato, cioè, dei molti debiti che aveva contratto]; soldi ne ha fatti e ne ha fatti molti; io, però, per parte mia, non so dove li abbia trovati.

C'è chi dice che ha rubato mille lire, ed ha smerciato carte false a centinaia; però questa cosa non è da credere, altrimenti l'avrebbero dovuto incarcerare!

Eh, ti par semplice?... Si, quanto acchiappi e metti in prigione!... Cosa eri diventato, per caso: ladro di fioroni o di cavolfiori? Ora i furbacchioni, al giorno d'oggi i veri ladri sono Cavalieri e sono Commendatori!

Ora presta denaro ad interesse, con cambiale e pure con i pegni, per chi lo voglia; ti fa, si, un brutto servizio, però te lo sa fare e non ti procura dolore!

Ti trova una ragione veramente penetrante, appuntita, a mo' di cavicchio, per ogni circostanza, contro ogni accusa e ti accarezza per vedere se riesce a metterti la cavezza, fino a che non gli riesce di conficcarti una chiavarda a vari strati del valore di tre ducati al pezzo ciascuno [fino a quando, cioè, gli riesce di procurarti un guaio tale che ti avvolga come una spirale di vite formata da diversi strati dal prezzo assai elevato].

Se poi, non sia mai, un mese lo fai sobbalzare per improvviso spavento, col non pagare, cioè, quel tanto di interesse, ti procura tanto di quel fiele, tante di quelle forti preoccupazioni, che ti vengono impulsi tali da farlo in due.

E devi, poi, vendergli per un'arrabbiatura, i pegni tuoi che tanto ti costarono, altrimenti è capace, allora, di intentarti una causa che ti sappia molto amara.

Ecco come s'è procurato Il contante e s'è riempito i calzoni questo fetente, questo pidocchio impennato, questo birbante, che si succhia il sangue della gente!

Basta!... Parliamo d'altro!...E viene l'ora, poi, in cui lo solletica il ghiribizzo di sposarsi; che sia maledetto!... Puzza ancora di vino di botte e vuole pur anco sposarsi con una signora?!...

E lo si vede alla festa, quando si tira a nuovo con la camicia bianca di percalla, pieno di oggetti d'oro e di brillantina per capelli e con una sciarpa rossa, verde e gialla!

I calli delle mani se li nasconde con un paio di guanti fini, fini; però i gonfiori dei calli ai piedi escono ben visibili, sani, sani, sopra agli scarpini!

E' cosa da gioire e da riempirtelo di baci, perché è motivo proprio di invidia in mezzo a quei giovani! Però io che lo conosco che è un facchino, mi viene proprio la voglia di prenderlo a schiaffi!

Una signora!... Sei proprio nato!...Quattro soldi puoi pure possedere e non ti dico di no, però una vera Signora resta senza pane, ma non sposa te, un mascalzone!

Sarai signore, ora, che ti sei arricchito, che hai smerciato carte false o che hai rubato, però non ti dare arie così grandi, perché ti chiameranno sempre "pidocchio con le penne "!


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