§ Suggestione dei confronti

Il mosaico di Otranto




Rita Massi



Torniamo su un argomento che un dotto cultore di cose otrantine, monsignor Orazio Gianfreda , trattò quindici anni fa in un volume oggi raro, ma che allora suscitò insieme curiosità e ammirazione: suggestioni e analogie tra il mosaico pevimentale di Otranto e la Divina Commedia. Stimolanti i raffronti che riproponiamo, in una duplice rilettura: del testo dantesco e dell'" opus tessellatum " della Splendida chiesa otrantina, custode di testimonianze storiche e civili uniche nel Sud.

Nel XII secolo assistiamo al verificarsi di profonde trasformazioni in seno alla società. Un nuovo intenso fervore di vita pulsa in tutta Europa: le città diventano centri di produzione, di scambi, di cultura dove l'economia chiusa dei feudi cede il campo ad un'economia di mercato; con l'avvento del commercio marittimo si aprono le frontiere di scambio con l'Oriente ed insieme alle stoffe, alle spezie, agli avori di Costantinopoli circolano anche notizie di terre lontane. Balza in primo piano la figura di un " uomo nuovo ", dedito ai traffici e all'industria, che si sottrae al potere del feudatario e comincia ad agire in prima persona, divenendo conscio dei propri diritti e partecipe di nuove organizzazioni sociali, come il Comune. Dopo il ristagno di ogni attività umana pratica e di pensiero, dopo l'oscurantismo e l'oppressione religiosa dei tenebrosi anni antecedenti al Mille, si attua un nuovo benessere che permette il rifiorire dell'amore per la vita, del gusto della bellezza, dello splendore dell'arte.
Una delle risposte alle aspirazioni sociali e morali di questi secoli fecondi è il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto, città dell'estremo Sud che divenne, per motivi ambientali e politici, il centro delle agitazioni sociali, dei, gusti e modi di pensare di quella società del Mezzogiorno che cercava di materializzare nell'arte tutti i suoi aneliti e le sue rivendicazioni. La geniale concezione di questo mosaico, il cui periodo di lavorazione va dal 1163 al 1166, è opera di un monaco, Pantaleo, probabilmente pervenuto dalla scuola ellenistica del vicino Cenobio di San Nicola di Càsole, il cui nome è ripetuto in due iscrizioni: una all'ingresso della porta maggiore, dove si legge:

Ex Jonath donix
dexteram Pantaleonis
Hoc opus insigne
est superans impendia digne.

e l'altra nella parte mediana della navata centrale:

Humilis servus Christi
Jonatas Hydruntinus
Archiepiscopus misit hoc
opus fieri per manus
Pantaleonis presbyteri.

L'" opus tesselatum ", come è noto il mosaico, è una pittura policroma, eseguita con piccole tessere cubiche di calcare locale durissimo, in cui è rilevante l'influsso dell'arte bizantina, l'ispirazione stilistica romanica, e la cui tematica risale alle fonti bibliche e alle tendenze letterarie del ciclo mitologico, alessandrino, carolingio. Il mosaico è articolato in tre alberi allegorici, occupanti il pavimento delle navate, che racchiudono; tutta la storia della vita umana e se pur anco l'esecuzione è in genere grossolana e calcata nei rilievi anatomici delle figurazioni, è evidente che la simbologia del mosaico è consona alle istanze spirituali del Medio Evo.
Nelle raffigurazioni dell'albero principale, che copre tutto il pavimento della navata centrale ed è sorretto dalle teste di due grandi elefanti, è d'obbligo, notare che alcune scene ed alcune figure sono analoghe a quelle descritte da Dante nella Divina Commedia. E tali sono le dette analogie, che ci si può porre il dubbio di una probabile conoscenza, più o meno diretta, da parte di Dante, dell'opera otrantina.
In una terzina del Paradiso, Dante scrive: " Quel corno d'Ausonia che s'imborga / di Bari, di Gaeta e di Catona / da ove Tronto e Verde in mare sgorga " (Paradiso, canto VIII vv. 61-63), rendendo manifesta la sua conoscenza della regione pugliese; sappiamo poi che il Poeta fu grande viaggiatore da che venne bandito da Firenze per motivi politici, e lo testimonia Giovanni Villani nella sua Cronica, dove afferma: " ... andossene allo studio a Bologna, e poi a Parigi, e in più parti del mondo ". Se pure Dante nel suo pellegrinaggio, ben più vasto di quello che risulta dai documenti pervenutici, non si sia trovato in Otranto, si può supporre che egli abbia avuto una conoscenza indiretta dell'opera di Pantaleo. Questa, infatti, non poté non suscitare risonanza tale, che la sua notizia si diffondesse tra gli eruditi e gli uomini d'arte del tempo. Se non si vuole ammettere la possibilità di un'apprensione orale del mosaico, è probabile che Dante e Pantaleo abbiano attinto, per i loro rispettivi capolavori alla stessa fonte. Le scene dell'" opus tessellatum " potrebbero avere come didascalie i versi della Commedia, tanto collimano.
Nell'Antinferno, Dante si trova in una foresta che gli impedisce il cammino e alla base dell'albero della vita c'è un capro, animale biblico che rappresenta l'umanità peccatrice, braccato da tre belve. Nel Medio Evo non è nuova l'idea di smarrimento in una foresta, ad indicare il peccatore immerso nei suoi errori, ma è nuova l'idea delle tre fiere. Dove Dante parla della lonza, a simboleggiare la lussuria, in Pantaleo troviamo un orso rampante, simbolo nell'arte cristiana della cavalcatura dell'impurità (Mons. Oreste Paladini, Simboli nell'arte cristiana, Libreria Arcivescovile Giovanni Daverio, 1934, Milano). Nel mosaico, vicino all'orso, si intravvedono le zanne, la coda e le cosce di un'altra fiera: forse è una lupa come quella incontrata da Dante; la terza belva è pressocchè andata distrutta nell'" opus tessellatum ", ma nulla impedisce di far pensare al leone dantesco.


La porta infernale del mosaico non è meno eloquente di quella della Commedia: entrambe indicano dolore e disperazione. Superata la porta dell'Inferno, Dante si trova davanti Satana: " Lo 'mperador del doloroso regno / da mezzo il petto uscia fuor della ghiaccia; / e più con un gigante io mi convegno, // che i giganti non fan con le sue braccia: / vedi oggi mai quant'esser dee quel tutto ch'a così fatta parte si confaccia.
S'el fu si bel, com'egli è ora brutto, e contra V suo fattore alzò le ciglia, ben dee da lui procedere ogni lutto. // Oh, quanto parve a me gran meraviglia, / quand'io vidi tre facce alla sua testa " (Inferno, XXIV, vv. 28-38). Satana apre la scena infernale del mosaico pavimentale della Basilica e siede sul dorso di un serpente a tre teste. Sia il poeta che il monaco contrappongono, questa triplicità infernale alla trinità celeste.
Pantaleo e Dante ci descrivono i ladri di cose private, di cose sacre, di cose pubbliche: entrambi li presentano avvinti dalle orribili spire di serpenti che li trafiggono, stretti nella morsa delle Erinni, figlie di Acheronte e della Notte. Le tormentatrici dei dannati sono due nel mosaico e tre nella Commedia, ma, a prescindere dal numero, in tutte e due le opere sono sanguinanti, cinte da idre, con un groviglio di serpenti attorno alle tempie.


" Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l'armi;/ ecco colei che tutto il mondo appuzza! " (Inferno, XVII vv. 1-3). Pantaleo e Dante descrivono, uno in versi e l'altro nell'arte musiva, la belva maleodorante che rappresenta la frode, così come raccontano la medesima cosa quando ci presentano la figura di Gerione, un mostro con la testa d'uomo e il corpo d'animale.
L'analogia tra l'opera dantesca e quella del monaco continua con precisione di particolari: ritroviamo nel mosaico la figura di un " diavol nero " sollevato da ali di pipistrello e dall'aspetto serafico che Dante così descrive: " E vidi dietro a noi un diavol nero / correndo su per lo scoglio venire. // Ahi, quanto egli era nell'aspetto fiero! / e quanto mi parea nell'atto acerbo, / con l'ali aperte e sovra i piè leggiero! " (Inferno XXI, vv. 29-33).
Il simoniaco è punito da Dante e Pantaleo allo stesso modo: è capovolto dentro un " foro tondo " con gambe all'insù e i piedi in fiamme. Il parallelismo tra le due opere è completo anche nella descrizione di Caronte: il nocchiero della palude che in Dante trasporta le anime dei dannati su una nave battendo col remo " qualunque s'adagia " e in Pantaleo tiene in mano un bastone. E' un vecchio dalla lunga barba che apostrofa i dannati con fare minaccioso ed iracondo, ed emerge violentemente sia nei versi che nel mosaico perché fortemente modellato dai due autori.
La figura di Cerbero non è nuova nell'arte: per Virgilio esso è il guardiano dell'Orco, con il collo avvolto dai serpenti (Eneide, libro VI); per Dante è il custode del " terzo cerchio della piova, eterna, maledetta, fredda e greve "; per Pantaleo ha testa di cane e corpo d'uomo, ed è il custode di tutto l'Inferno.
Un pannello dolce e idilliaco, raffigurante un pastore con la verga e le pecore, ci riporta a Dante quando scrive: " Lo villanello a cui la roba manca / ... prende suo vincastro / e fuor le pecorelle a pascer caccia " (Inferno, XXIV, vv. 13-14). In un altro pannello osserviamo un centauro, con testa e busto d'uomo su corpo di cavallo, secondo la mitologia greca, violento e tormentatore, provvisto di arco e frecce come dice il poeta: " Corrien Centauri armati di saetta / come solean nel mondo andare a caccia / ... // con archi ed asticciuole prime elette ". (Inferno, XII, vv. 55-57/60).
Un altro particolare accomuna Dante e Pantaleo: entrambi descrivono il Minotauro: con corpo di toro e testa d'uomo, mentre invece le medaglie e le sculture antiche ci danno un uomo con testa di toro, libera interpretazione del testo di Ovidio " semibovemque virum, semivirumque bovem ".
La descrizione delle Arpie del poeta coincide con la figurazione del mosaicista: sono mostri con viso di donna e corpo d'uccello, con il ventre sporgente e artigli ai piedi, come dai versi: " Ali hanno late e colli e visi umani / pié con artigli e pennuto il gran ventre " (Inferno XIII , vv. 13-14), il primo gigante descritto da Dante e da Pantaleo è il biblico Nembrot, capo dei discendenti di Cam e primo re di Babilonia. Da notare che il mosaicista e il fiorentino presentano Nembrot con voci che non possono essere intelligibili a nessun uomo. Scrive Dante: " Rafaèl maì améch zabì et almi cominciò a gridar la fiera bocca, cui non si convenian più dolci salmi. " (Inferno, XXXI, vv. 67-69). Sul mosaico vicino al gigante, leggiamo: Mar 6 Vacius Irn. ".
Questi accostamenti possono far Pensare alla Commedia come ad una continuazione, ad uno sviluppo del pensiero di Pantaleo. La Commedia e il mosaico sono due poemi di fede e di scienza, di arte e di cultura, sintesi di quel pensiero umano che caratterizza il periodo in cui videro la luce. Pantaleo e Dante, sebbene dissimili per vocazione, hanno realizzato, uno nell'arte musiva e l'altro; nell'arte poetica, opere sotto molti aspetti affini. Nelle due opere confluisce tutto il senso religioso del Medio Evo: Pantaleo raccoglie il vecchio e il nuovo, l'orientale e l'occidentale, fondendoli insieme nel mosaico; Dante, in forma più patetica forse di quella del presbitero otrantino, ci dà un'opera che raccoglie in versi sublimi il messaggio religioso dei suoi tempi, innestando il pensiero pagano su quello cristiano.


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