I.- Cultura regionale
e cultura nazionale.
Non è che
il problema del rapporto fra cultura regionale e cultura nazionale sia
di oggi; che anzi esso - come par del tutto evidente e non certo bisognoso
di dimostrazione - è vecchio almeno quanto l'unità politica
del Regno d'Italia; e anzi dei modi con i quali fu raggiunta, quel fondamentale
problema è, ancora oggi, storico simbolo ed ineluttabile conseguenza.
Basterebbe pensare, senza insistere più di tanto, alla letteratura
"regionalistica" della seconda metà dell'Ottocento
e del primo Novecento (e via via, sia pur sotterraneamente), e a tutta
la fenomenologia politica, economica, amministrativa che la motivava
nel profondo; e basterebbe pensare al taglio, più o meno erudito,
delle ricerche storiche, ma anche più ampiamente culturali, che
direttamente o indirettamente riflettevano la varia "geografia"
della nuova civiltà italiana, o che da questa succhiavano gli
umori della propria vitalità. Certo, si tentava una composizione
armonica, e, almeno entro certi limiti di rispetto, una sorta di novella
reductio ad unum; ma mai si poté misconoscere l'esistenza ben
identificabile di tradizioni culturali tipicamente regionali, entro
l'ambito dell'unità politica per la prima volta raggiunta, o
dell'unità nazionale per la prima volta politicamente reificata.
Nel ventennio fascista - senza star lì a menzionare polemiche
entro certa misura perfino pittoresche, e comunque decadentisticamente
ben lontane, alla loro radice (alludiamo, per esempio, a "Strapaese-Stracittà"
degli anni venti già fascisti), dalla problematica che qui c'interessa
era e fu naturale che il processo, per così dire, della deregionalizzazione
dello Stato italiano venisse fortemente accelerato e rafforzato. E ciò
non soltanto dall'alto e dall'esterno, per via dell'ideologia violentemente
accentratrice e centralizzatrice del movimento diventato governo della
nazione, ma anche per interiore convincimento e consenso delle masse
borghesi e popolari, sollecitate da un nazionalismo, magari illusorio
e perfino grottesco nelle sue manifestazioni, che tuttavia operò,
decisamente e nel profondo, nella direzione di una coscienza più
consapevolmente unitaria in senso politico, culturale, nazionale. Par
legittimo credere che un decentramento politico-amministrativo attuato
in Italia senza la solida e concorde esperienza unitaria del ventennio
fascista, o prima di essa, avrebbe potuto scatenare prepotenti forze
centrifughe, tali da rendere vani gli stessi risultati dei decenni risorgimentali.
Val la pena di ricordare a questo proposito ciò che avvenne in
Sicilia (e non solo in Sicilia, sia pur in proporzioni meno vistose)
negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale; di
sottolineare le differenze, consacrate nella Costituzione, tra regioni
a statuto ordinario e regioni a statuto speciale; di allegare le acri,
acide e perfino astiose polemiche che contrapponevano (e continuano
a contrapporre) il Settentrione e il Meridione d'Italia, non nel loro
aspetto più deludente ("Via i Terroni!" sui muri delle
case non solo di Milano), ma nel loro reale valore di contrapposizione
antropologica, nonché economica; e altro ancora. Ne risulta indubbiamente
rafforzata e motivata la prospettata ipotesi. E per altro il Fascismo,
accentratore e persuasore anche nel campo della cultura, per quanto
si voglia poco intelligente e incauto e magari proclive a un lassismo
di comodo e addirittura scetticheggiante, si rendeva ben conto dei fermenti
vivi operanti entro la vita più schietta delle regioni tradizionali;
talché nel Dizionario di politica (1940) curato dal Partito stesso,
alla voce "Regionalismo" si poteva leggere quanto segue:
"... la straordinaria intensità, varietà, vitalità
della storia italiana ha lasciato la nazione, sorta a stato unitario,
erede di una gamma policroma di individualità regionali ben caratterizzate
e non distruttibili. In tali individualità regionali si tramandano
e rinnovano i molteplici fermenti mediterranei dal cui continuo sovrapporsi
e mescolarsi si genera la versatilità, la poliedricità,
l'interiore equilibrio, l'umana e cristiana integrità dello spirito
italiano. Le belle tradizioni regionali italiane costituiscono una forza
viva della nazione, mentre d'altra parte l'unità nazionale, rinnovata
attraverso la nobile epopea del Risorgimento, ma radicata in processi
di intima fusione che risalgono alla civiltà etrusca e alla civiltà
romana, è così assoluta da escludere ogni pericolo attuale
di regionalismo politico."
Riconosciamolo francamente; l'impostazione della delicata "voce",
formulata per un Dizionario di politica, e di politica fascista per
giunta, non manca di una suadente chiarezza e possiede una certa carica
di suggestività. lo non so chi l'abbia redatta, poiché,
per invitante comodità, ho trascritto le precedenti righe dall'introduzione
di Alfredo Stussi a una sua utile antologia di pezzi su Letteratura
italiana e culture regionali (Bologna 1979, p. 13). Lo Stussi, per altro,
in nota, l'attribuisce a G. Maranini, probabilmente il costituzionalista;
e non c'è ragione di dubitarne. Colpisce, certo, l'affermazione
dell'esistenza di "individualità regionali ben caratterizzate",
in regime di poderoso accentramento e alle soglie dell'ultimo conflitto
mondiale; ma più ancora quella della loro non distruttibilità,
onde la conseguente proposta di un reciproco dare e avere, nei riguardi
della nazione. E' vero che si parla anche di "belle tradizioni
italiane" con paurosa scivolata, se non erro, verso il folcloristico
e verso il pittoresco; e che l'intera argomentazione si conclude con
l'esclusione di "ogni pericolo attuale di regionalismo politico",
dove il "pericolo" denuncia il sintomo dell'ideologia, e l'"attuale",
a parte ogni pregnanza profetica, mette in forte rilievo, anche se in
modo indiretto, l'incidenza delle "individualità regionali"
nella realtà nazionale. Fatto sta che la "voce" è
tutt'altro che un invito a una imperiosa prevaricazione della cultura
nazionale fino a rendere asfittica e nuda la regionale, e soffocarla
infine. Potrà sembrare assurda l'ipotesi che gli effetti accentratori,
livellatori ed uniformatori conseguenti all'azione politico-culturale
del regime fascista nel quadro del problema dei rapporti fra regioni
e nazione, siano stati continuati dalla sempre più massiccia
diffusione e dall'esercizio sempre più continuato dei mezzi di
comunicazione di massa; ma per me non lo è affatto. Linguisticamente
è ben noto, per intanto, l'effetto livellatore causato dai mass-media
sui dialetti di ogni regione; essi ne uccidono i caratteri più
singolari e peculiari, particolarmente nel campo del lessico e della
fonologia (la sintassi e la morfologia risultano maggiormente resistenti);
ma culturalmente gli stessi effetti sono ancor più patenti e,
se si vuole, addirittura drammatici. Giornali, radio, televisione agiscono
come spaventose aggregazioni di opinioni di massa, a ogni livello orizzontale
e verticale, nel senso insomma della dislocazione geografica e in quello
della stratificazione sociale, sia in sede locale, sia in sede nazionale.
Le culture regionali, in quanto e per quanto esse posseggono di autentico
e di autoctono, si difendono in una poderosa opera di rivalsa e cercando
di conoscere meglio, di studiare più rigorosamente e di definire
con la maggiore chiarezza possibile la propria attendibilità
e la propria identità. Non fuori, ma entro la nazione; non in
giuoco di alternativa culturale, ma in inscindibile unità dialettica.
Dio mio; sembra un giuoco di parole, o una trappola sofistica per irretire
gl'inermi. Veniamo allora al concreto storico; esemplifichiamo su personaggi
noti al comune dei possibili lettori (quanti?) di queste pagine. Nessuno
di loro vorrà negare che Girolamo Corni e Vittorio Bodini siano
poeti "salentini", e non soltanto per ragioni anagrafiche.
Il loro modo di essere "salentini", e la loro "salentinità",
è oggetto di studio, è insomma un'ipotesi di lavoro. Ma
nessuno di loro vorrà negare che Corni e Bodini siano poeti italiani
ed europei; e il loro modo di essere italiani ed europei è anch'esso
oggetto di studio, anch'esso insomma un'ipotesi di lavoro. Mi si perdoni
il procedere per asserzioni apodittiche; ma almeno fin qui queste mi
sembrano del tutto oggettive, estremamente lapalissiane. Sarebbe pazzesco
fare allora un passo avanti, e dedurre che nel loro europeismo, nel
loro alto e possente respiro europeo, si innalza e si sublima, viene
innalzata e sublimata, la realtà del loro Salento (almeno come
componente della loro poetica e della loro poesia), e che proprio il
loro sentirsi europei, la loro "condizione" europea, si cali
nella realtà di quello stesso loro Salento, permettendo loro
di ricrearla, reinventandola nei modi che di ciascuno di loro sono ben
peculiari, e che ciascuno di loro singolarmente caratterizzano? E non
si tratta, sia chiaro, di momenti o di movimenti cronologicamente distinti
o strutturalmente diversi, ma di un solo moto creativo, per il quale
Corni e Bodini sono europei per il Salento e sono salentini per l'Europa.
Questa a me pare la maniera più corretta d'impostare, e in qualche
modo di risolvere, il problema dei rapporti fra culture regionali e
cultura nazionale; quella, per lo meno, che meglio risponde, fra quante
se se ne sono venute formulando in questi decenni postbellici, a una
metodologia di storicismo integrale e d'ascendenza vichiana, qual è
appunto la metodologia cui si è ispirato e si ispira, in linea
generale, il mio mestiere di storico e di critico della letteratura
italiana. Mi si potrebbe forse obiettare che l'esempio è scelto
a bella posta e magari, anche senza volerlo, un pò tendenzioso,
considerato che si riferisce a un settore estremamente specifico; ma
è verosimile che una più matura riflessione e un'ulteriore
meditazione (inopportuna in questa sede) porterebbe a chiarire ogni
dubbio. Quando dunque si dice che il problema del rapporto fra culture
regionali e cultura nazionale è andato concretizzandosi in questi
ultimi decenni, si dice cosa esatta e insieme inesatta: inesatta poiché
esso lo si è accennato - risale addirittura all'epoca dell'Unità;
esatta, nel senso che in questi ultimi decenni, esso è stato
dibattuto in modo nuovo e sempre più impegnato: la relazione
di Carlo Dionisotti, intitolata significativamente Geografia e storia
della letteratura italiana, pubblicata nel 1951 in "Italian Studies"
e poi in volume miscellaneo, recante quello stesso titolo, nel 1967
a Torino, in realtà fu letta a Londra il 22 novembre 1949. All'appassionato
fervore del dibattito hanno infatti contribuito cause nuove, che gli
hanno impresso carattere non possibile prima degli anni cinquanta: la
lunga discussione politico-amministrativa sul decentramento regionale
previsto e voluto dalla Costituzione; la successiva attuazione dell'ordinamento
stesso e i poteri attribuiti al nuovo organismo, anche sotto il profilo
culturale; la crisi dei valori estetici categorialmente commisurati
e l'esaltazione della fenomenologia delle poetiche; l'ampliamento e
l'arricchimento del concetto stesso di letteratura e di cultura con
l'acquisizione del regno dell'antropologia; la consapevolezza più
diffusa del policentrismo della cultura e del possibile recupero unitario
entro una superiore dialettica. E forse altro ancora. Certo, è
una problematica assai complessa, e perciò non immune da possibili
confusioni o da false implicazioni; e a me pare che non raramente se
ne siano verificate nel corso dello specifico dibattito di questi anni,
al quale or ora si alludeva: non si può identificare per esempio,
la letteratura nazionale nella letteratura colta e dotta, rispetto alla
letteratura regionale considerata popolare; né la nazionale sic
et simpliciter nella letteratura in lingua e la regionale nella letteratura
in dialetto. Aporie frequenti e ritornanti, che vanno superate e chiarite
caso per caso, in una costante visuale dialettica fra vita e civiltà
regionale e vita e civiltà nazionale e supernazionale.
II.- L'avvio
della "Biblioteca Salentina di Cultura".
L'istituzione universitaria
leccese cominciò a funzionare nell'anno accademico 1955-56 con
una sola Facoltà, e perciò come "Istituto Superiore
di Magistero". Nell'anno successivo 1956-57, fu istituita la Facoltà
di Lettere e Filosofia e nacque la vera e propria Università
degli Studi di Lecce, poiché gli ordinamenti prevedono che una
"Università" sia costituita da almeno due Facoltà.
In quell'anno stesso io, che vivevo a Roma fui chiamato a ricoprire
per incarico l'insegnamento della Letteratura Italiana, avendo già
superato, poco innanzi, il concorso per la libera docenza in quella
disciplina; e uno dei miei più vivi propositi era di iniziare
e promuovere un'opera di scavo culturale nell'area salentina, alla ricerca
di una possibile costante tradizione e di una configurabile identità,
proprio nel quadro della problematica fin qui illustrata e in un orientamento
insomma ancor nuovo e perciò stesso più stimolante. La
prima tesi di laurea della quale io fui relatore nel 1960, subito dopo
il riconoscimento giuridico della "Libera Università degli
Studi di Lecce", aveva per titolo: "Autori salentini del secolo
XVI" ed era stata compilata dalla laureanda Anna Maria De Vergori.
Si trattava di un'ampia ma cronologicamente limitata, esplorazione bibliografica,
condotta appunto secondo un largo concetto di "letteratura",
come del resto si evince dal titolo che parla di "Autori"
e non, poniamo, di "scrittori" o di "letterati".
L'esplorazione bibliografica serviva a mettere in luce figure interessanti
di salentini tutte da scoprire, o da riscoprire dopo l'antico momento
di fiammata di notorietà, e sulle quali, a loro volta, venivano
assegnate altre tesi. Una dozzina di anni di cosiffatto lavoro aveva
prodotto i suoi frutti, quando gli avvenimenti del '68 e degli anni
successivi bloccarono tutto. Del resto a quell'epoca parlare non dico
di "cultura salentina", ma di "cultura del Salento"
o "nel Salento", significava nell'Università di Lecce
esporsi alle più sarcastiche contestazioni e alle accuse di angustia
provincialesca, di erudizione campanilistica, di cultura reazionaria
e chiusa, e di altro ancora, naturalmente in peggio; laddove lo sforzo
invece tendeva proprio alla direzione opposta, a quella cioè
di recuperare una tradizione culturale del Salento e nel Salento in
relazione alla storia della cultura nazionale, nel quadro della più
avanzata e dibattuta problematica critica. Donato Valli, dapprima assistente
bibliotecario alle mie dipendenze e poi mio stretto collaboratore e
collega, intuì la vera natura e l'estrema importanza della ricerca,
nonché l'amplissimo arco di possibilità che gli offriva
un assai vasto campo tutto ancora da esplorare o da riesaminare con
rigore scientifico, e pubblicò nel '61, nella collezioncina del
"Minima" di Milella da me fondata e diretta, quella Cultura
letteraria nel Salento (1860-1950), la quale, superato il periodo delle
perplessità e delle contestazioni, può essere considerata
oggi il punto di partenza della rifondazione della recente cultura salentina
entro un filone tendenzialmente letterario. E così, in quest'ultimo
decennio, le prospettive degli studiosi sul Salento, sono andate sempre
più allargandosi e arricchendosi, dalla storia all'archeologia,
dalla letteratura all'antropologia, e via dicendo.
Sicché nel settembre del 1975, ritornato a Lecce dalle vacanze
estive, volli sottoporre all'editore Milella l'idea di una silloge di
autori salentini studiati e presentati col massimo rigore scientifico
in una prospettiva di lavoro più che decennale. E Milella, dopo
qualche perplessità, dovuta, più che altro, al pregiudizio,
anche suo, che l'iniziativa nascesse col marchio dell'angustia provincialesca
(tipico pregiudizio di mentalità appunto provinciale, piuttosto
diffusa, come si è detto, anche in zone che avrebbero dovuto
esserne franche), diede il proprio apprezzatissimo consenso. Mi rivolsi
allora agli studiosi che mi erano più cari e vicini, e interessati
per più versi allo studio delle cose salentine, per costituire
una valida redazione: al già ricordato Donato Valli; ad Antonio
Mangione, il quale si era laureato a Roma con Schiaffini, ma sotto la
mia guida (essendo io allora Assistente Straordinario di quell'illustre
Maestro), e che aveva accettato di esser mio Assistente nell'anno accademico
1956-57, e lo fu poi per più lustri; e infine a Gino Rizzo, dapprima
mio allievo, poi mio assistente e ora anche mio collega. Un anno e più
di ricerche e di lavoro ci occorse per affrontare e risolvere i grossi
problemi scientifici posti da un'iniziativa di tal genere, dal concetto
stesso di letteratura regionale alla presunta apodittica realtà
dello stesso Salento come "regione"; dalla denominazione della
silloge alla indicazione in serie degli autori e delle opere da trascegliere
e da stampare. Una grossa operazione di scavo culturale e di storicizzazione,
sia pure ancora approssimativa. Si optò infine per il titolo
di "Biblioteca Salentina di Cultura", ove l'aggettivo "salentina"
indica il grosso filone storico e geografico della rifondazione culturale
(con assoluta esclusione di un carattere categoriale, e dunque contro
ogni ipotesi di "cultura salentina"); e dove il sostantivo
"cultura", preferito decisamente a quello di "letteratura",
sta a rassicurare sull'ampiezza e sulla ricchezza degli interessi in
giuoco. Furono fissate come generale programma due serie composte di
dodici volumi ciascuna, le quali non travalicassero il limite cronologico
della prima guerra mondiale, per ovvie ragioni: dagli anni venti in
poi infatti, penetrando nel vivo della contemporaneità, il processo
di storicizzazione sarebbe stato impossibile, privo del l'indispensabile
filtro della prospettiva culturale e del tempo. I previsti ventiquattro
volumi, alcuni dei quali divisi in tomi o con possibilità che
lo siano divisi, comprendono poeti e letterati, come i lirici salentini
dell'epoca barocca, i narratori salentini dell'Ottocento, i poeti e
prosatori salentini fra Otto e Novecento, e così via; pensatori
e trattatisti, come gli illuministi e i riformatori salentini, i filosofi
salentini del Rinascimento, e così via; gli scrittori di teatro,
i memorialisti, gli scienziati, particolarmente dal Settecento in poi,
la letteratura dialettale. Volumi sono anche messi in conto per una
silloge di testimonianze giornalistiche e per una silloge di testimonianze
demologiche. E volumi monografici dovrebbero essere dedicati a figure
eminenti: a Roberto Caracciolo, al Galateo, a Scipione Ammirato, ad
Ascanio Grandi. La redazione della "Biblioteca" ha curato
di mettere a punto la prima serie di dodici volumi, affidandone la responsabilità
a studiosi salentini: Enzo Esposito, Oreste Macrì, Giovanni Papuli
e Aldo Vallone, nonché Mario D'Elia per la sezione dialettale,
oltre ai già ricordati componenti della redazione stessa, Mangione,
Marti, Rizzo e Valli. Questo, quanto al programma e alle strutture generali;
e quanto ai criteri editoriali: testi in edizione critica oppure criticamente
(filologicamente) accertata; ampie introduzioni generali a ciascuno
dei volumi, in modo che, messe poi insieme, risultino come altrettanti
capitoli di una storia della cultura nel Salento e corredate, naturalmente,
di bibliografia di carattere generale; introduzioni singole a ciascuno
degli autori, con bibliografia particolare; note esegetiche di carattere
storico, linguistico e culturale, senza fronzoli e senza edonismi estetizzanti;
indice linguistico e indice onomastico. Assoluta prevalenza alla riproduzione
di opere intere; eventuale antologia di parti unitarie e compatte, con
esclusione di ogni scelta di "belle pagine".
Non tanto i criteri editoriali, il cui rigore scientifico è difficilmente
contestabile, ma quelli generalmente programmatici e strutturali potrebbero
sembrare discutibili in tutto o in parte: nessun analogo programma -
ne sono convinto - è formulato in modo tale da non suscitare
un qualche dubbio, una qualche perplessità, una qualche proposta
di sostituzione o di integrazione. Nessuno tuttavia, in buona fede,
può avanzare l'ipotesi che la "Biblioteca Salentina di Cultura"
sia, come si dice, "partita alla garibaldina", senza idee
chiare e senza un piano organico. I risultati di più di un anno
di lavoro redazionale ne sono la prova e il documento.
III.- I primi
volumi della "Biblioteca".
L'assegnazione dei
volumi alla prima o alla seconda serie, in cui si bipartisce l'intera
collezione, fu generalmente motivata da ragioni pratiche ed empiriche:
la redazione cioè ritenne opportuno di tener conto, nell'affidare
i primi dodici volumi, dello stato attuale degli studi intorno agli
argomenti e ai personaggi da trattare e del lavoro già effettuato
o in via di effettuazione, nello specifico campo, da parte dei componenti
della redazione o di altri studiosi salentini specialisti. lo stesso
da tempo, e proprio nella convinzione che l'iniziativa giungesse a buon
fine, mi studiavo l'ancora inedito Rogeri de Pacienza di Nardò;
Gino Rizzo aveva più che gettato gli occhi e dato uno sguardo
al suo Ferdinando Donno di Manduria; Donato Valli era ormai diventato
uno specialista della cultura salentina fra Otto e Novecento; Antonio
Mangione aveva già pubblicato presso il Cappelli di Bologna il
suo Castiglione e andava approfondendo i suoi studi sull'Ottocento salentino.
Queste considerazioni costituirono la certezza del primo cammino, e
corrispondono in effetti ai primi tre volumi già pubblicati e
al quarto in via di pubblicazione. Ma Oreste Macrì fu pregato
di accettare la cura dei lirici salentini del Seicento; Aldo Vallone
quella degli Illuministi e Riformatori; Enzo Esposito di Roberto Caracciolo
e dei predicatori della Controriforma; e infine il dialettologo Mario
D'Elia quella della letteratura in dialetto, il quale chiese e ottenne
la collaborazione di due critici della letteratura, il sottoscritto
per il periodo fino all'Unità del Regno, e Donato Valli per quello
successivo. Una dozzina d'anni è prevista per il completamento
di questa prima serie di volumi, e forse anche di più, considerato
che alcuni di questi volumi sono divisi in due tomi, una dozzina d'anni
a partire, ovviamente, dal dicembre del 1977, data del "finito
di stampare" apposta nell'explicit del primo volume in ordine di
tempo.
Nei primi mesi del '78 infatti fu distribuito l'inedito Rogeri de Pacienza
di Nardò con le sue inedite opere: Lo Balzino e il Triunfo, entrambe
in lode di Isabella Dei Balzo, che divenne regina di Napoli, dopo aver
sposato Federico d'Aragona. Le due opere, già note al Croce,
che però concentrò la propria attenzione solo sul Balzino,
giacevano quasi del tutto sconosciute (solo del Balzino aveva pubblicato
una piccola parte S.Panareo a Trani nel 1906) nel manoscritto F27 della
Biblioteca "Augusta" di Perugia, una bella copia preparata
per la nobildonna leccese Giulia Paladini, signora di Rogeri e amica
d'Isabella. Da questo bel manoscritto io le ho tratte in edizione critica
(alle pp. 309-315 le varianti critiche e le varianti grafiche) e le
ho presentate in volume secondo i criteri generali della "Biblioteca":
introduzione generale, nota bio-bibliografica, testi, indicazioni filologiche,
esegetiche, linguistiche, onomastiche. Mi pare che la pubblicazione,
a prescindere da ogni considerazione di carattere tecnicamente valutativo
(affidata al benevolo lettore), offra elementi d'estremo interesse sotto
un duplice aspetto: sotto quello strettamente monografico (autore, opere)
e sotto l'altro aspetto che si potrebbe definire filologico-strutturale,
del modo in cui le opere si presentano nel manoscritto. Lo Balzino narra
in ottave canterine la vita di Isabella Dei Balzo dalla nascita fino
al trionfo regale del 13 febbraio 1498, quando Federico rientrò
nella sua Napoli festante dopo la sua vittoria sul Principe di Salerno.
Sono otto canti; ma particolarmente suggestivi appaiono i canti centrali
- dal terzo al sesto contenenti le sventure di Isabella e poi il suo
trionfale viaggio da Lecce verso Napoli. A prescindere dalla piacevolissima
lettura dalla narrazione di tono semipopolare o semidotto, ma tutta
storicamente esatta, durante la quale si svolge un processo agiografico
nei riguardi dell'amatissima e ammiratissima regina, colpiscono lo studioso
i meravigliosi inserti di documenti letterari e di documenti di costume
dei quali la regina è destinataria durante il suo viaggio. Roba
ghiotta per i letterati, per gli studiosi delle tradizioni popolari,
per gli storici della cultura, per gli antropologi. E anche per i linguisti,
dal momento che vi si leggono due inserti in lingua francese salentinizzata
(siamo alla fine del sec. XV) e uno in lingua serbo-croata, che ha costretto
gli storici di questa lingua a precisazioni e retrodatazioni impensabili
prima della sua pubblicazione. Inoltre, tutto il poema chiede un suo
posto nel panorama narrativo semipopolare fra Quattro e Cinquecento,
non poi così ricco. Il Triunfo denuncia anch'esso la limitatezza
della statura poetica di Rogeri (una "visione d'Isabella bella
e buona circondata da eroine belle e buone d'epoca antica e recente")
nella fattura delle terzine, nel linguaggio, nell'erudizione troppo
evidentemente d'accatto e di seconda mano; ma si pone anche come tappa
di una fortuna (Petrarca, Boccaccio), come diffusione di un particolare
"genere" finora non troppo studiato, e come frutto di una
tensione umanistica e culturale d'epoca operante, nell'Italia meridionale
e nel Salento, anche in fasce sociali perfino insospettabili.
La struttura del manoscritto poi è quanto di più armonioso
ed elegante si può desiderare nella rinascimentale sensibilità;
poiché le due opere in successione, prima Lo Balzino poi il Triunfo,
sono precedute, accompagnate, concluse da una serie di sonetti, dopo
le rispettive lettere dedicatorie, ai quali è attribuita la specifica
funzione di illustrazione, di completamento, di decorazione (sonetti
amorosi).
A Ferdinando Donno di Manduria (1591-1649) e alle sue opere è
dedicato il secondo volume apparso in ordine di tempo, magnificamente
curato da Gino Rizzo; con la sua solida introduzione generale incentrata
sulla poco nota figura del Donno e corredata da un'eccellente bibliografia;
con i suoi testi criticamente accertati; con i suoi indidici linguistici
e onomastici; e soprattutto con le sue imponenti annotazioni storico-culturali.
Comprende: La Musa Lirica, una ricca e strutturalmente mossa raccolta
di poesie; L'amorosa Clarice, un romanzo in prosa, già segnalato
come di imminente pubblicazione (incredibilmente, considerata l'altezza
della data rispetto alla storia del romanzo nel sec. XVII) nel 1620,
ma uscito poi soltanto nel 1625, e comunque sempre in epoca quasi preistorica;
l'Allegro Giorno Veneto, in dieci canti di ottave, un poema a celebrazione
dello sposalizio di Venezia col mare. Il Donno visse infatti a lungo
a Venezia, dopo una sua sofferta partenza giovanile dalla natia Manduria;
e alla sua piccola patria infine ritornò nel 1635, per morirvi,
come arciprete della Chiesa Matrice, il 25 aprile 1649. Gino Rizzo non
ha mancato la fortunata occasione per lumeggiare e affrontare anche
il problema, importantissimo, delle relazioni fra Venezia e il Salento
(e non solo dal punto di vista letterario) in quell'epoca, e del rapporto
fra la civiltà barocca del Seicento leccese e le forme espressive
donniane nella sua dimora veneziana. Ma lascio a lui la parola, per
un'adeguata presentazione di questo suo encomiabilissimo lavoro: "La
carriera letteraria di Ferdinando Donno ... prende l'avvio da un distacco
traumatico dalla città natale Manduria di Taranto. Nell'iniziale
raccolta poetica, La Musa Lirica, i temi dell'assenza perciò,
della separazione, della lontananza, creano proiezioni e scavi psicologici
dai risvolti baroccamente onirici o allucinatori (si veda soprattutto
il poemetto in ottave Gli Amori di Leandro ed Ero), all'interno di un
codice, quello petrarchesco-bembesco, che si propone quale illusorio
risarcimento dello spazio autobiografico ancora sconnesso e irrisolto.
Ed è significativo, a questo proposito, che nella successiva
opera, l'Amorosa Clarice, faccia da sfondo proprio la città natale,
che si configura come un edenico e platonico fondale per una sorta di
immaginario e rassicurante pensiero del ritorno.
Per altro il romanzo del Donno, esemplato sulla Fiammetta del Boccaccio
(ma su un piano di competitività non di dipendenza), e dalla
scrittura smaliziata ed elegante, testimonia della precoce autonoma
e audace usufruizione di un genere letterario assai diffuso in Francia
ma ancora ignorato in Italia agli inizi del sec. XVII, e rivela una
singolare attenzione alle pulsioni emotive della protagonista, secondo
una direzione sostanzialmente trascurata dalla successiva produzione
romanzesca dello stesso secolo. Del 1627 è l'ultima opera del
Donno, l'Allegro Giorno Veneto, un poema eroico scritto dal letterato
manduriano per rendere omaggio a Venezia, città nella quale egli
soggiornò per un lungo periodo, prima del definitivo rientro
in patria. Il poema celebra la più imponente e fastosa festa
veneziana, quella dell'Ascensione, ed insieme il patrimonio iconografico
e mitografico oltre che epico della repubblica veneta, simbolo di perennità
e di continuità alternativo al sentimento dell'"effimero",
tragicamente vissuto dall'epoca barocca". Di recente è poi
apparso, naturalmente con la stessa veste tipografica e per opera dello
stesso editore Milella, il terzo volume: Poeti e prosatori salentini
fra Otto e Novecento: Ampolo, Nutricati, Rubichi, a cura di Donato Valli
ed è superfluo sottolineare come esso rappresenti il più
maturo frutto di uno studioso che all'analisi storico-critica della
cultura del Salento in quest'ultimo secolo e passa ha dedicato tanta
parte della sua fervida e diuturna attività. Strutturalmente
questo volume presenta aspetti diversi da quelli dei volumi precedenti,
poiché non un solo scrittore, ma tre autori, vengono sottoposti
all'attenzione degli interessati. E inoltre esso costituisce il primo
di due tomi (e intanto già di per sé conta ben 696 pagine),
il secondo dei quali conterrà opere di Giuseppe Gigli e vari
e significativi documenti della cultura e del costume del Salento fra
Otto e Novecento. Sicché, l'opera intera, quando sarà
completa, rappresenterà un insostituibile strumento, col suo
meditato taglio, per la conoscenza storica della vita culturale salentina
fra l'avvento dell'Unità e la prima guerra mondiale. Lo si può
desumere già con certezza dalle fitte e vigorose cinquanta pagine
dell'introduzione generale nelle quali Donato Valli ha tracciato, con
la sicurezza derivantegli da tanti anni di specifico lavoro, il più
suadente affresco della vita culturale salentina sullo sfondo della
vita culturale della nazione. Non mancano naturalmente le singole introduzioni
agli autori con il dovuto corredo bibliografico; i testi criticamente
accertati e annotati secondo i criteri generali della "Biblioteca";
e in fondo al volume i disponibili indici linguistico e onomastico.
Ma anche in questo caso cediamo volentieri la parola al curatore:
"... Il presente volume ... offre tre testimonianze, diverse per
caratteristiche e risultati, ma egualmente convergenti a delineare il
panorama storico-culturale degli ultimi trent'anni del sec. XIX nel
Salento. Dalla robusta e insieme raffinata coscienza letteraria di Vincenzo
Ampolo, nutrita di risonanze e di contenuti omologhi ai più validi
esemplari della contemporanea poesia nazionale; all'estrosa, anche se
non sempre coerente, ideologia poetica di Trifone Nutricati Briganti,
attento alle modifiche del costume letterario e docile ai richiami di
uno sperimentalismo non privo di suggestioni e di inconsuete anticipazioni;
alle meditazioni finora inedite del giovane Francesco Rubichi, dotate
di acuto spirito critico e di penetrante capacità problematica
in perfetta simbiosi con l'ambiente napoletano della sua formazione;
il libro consente la ricostruzione di tutta una fiorente stagione letteraria,
nella quale motivazioni storiche e regionali di fondo si incrociano,
e si integrano con pari dignità, con le sollecitazioni e i documenti
della più ampia e aggiornata cultura italiana ed europea. Si
aggiunge così un altro tassello alla composizione del movimentato
mosaico della civiltà meridionale ed è possibile, attraverso
queste testimonianze, acquisire un'ulteriore prova di quella inscindibile
complementarietà culturale che, nel mentre induce la provincia
ad esaltarsi nel confronto con la nazione, consente a questa di arricchirsi
ininterrottamente delle fresche energie da quella promananti".
Il quarto volume comprende i Narratori salentini dell'Ottocento e, curato
da uno specialista come Antonio Mangione, è in corso di stampa
e uscirà quest'anno 1981. Altri volumi sono in stato di avanzata
preparazione.
Così quest'iniziativa, voluta tenacemente e da lontano, ma nata
tra perplessità e difficoltà locali, va raccogliendo -
sia detto con la dovuta modestia, e tuttavia con giusto compiacimento
- i più ampi e talora entusiastici consensi in Italia e all'estero,
vuoi sotto il profilo del programma generale e comunque dell'intrapresa
in se stessa, vuoi per ciascuno dei singoli volumi. Lo comprova la nascita,
giuridicamente perfezionata in questi giorni, di una "Fondazione
per gli studi per il Salento", che una fortunata, ma anche consapevolmente
perseguita, confluenza di circostanze ha voluto sia patrocinata dalla
Banca Piccolo Credito Salentino, con assoluta priorità a favore
della "Biblioteca"; e lo comprovano recensioni, segnalazioni,
lettere private di studiosi altamente autorevoli in Italia e fuori.
Così pare ormai definitivamente fugato l'inutile timore che la
"Biblioteca" potesse segnare il cristallizzarsi e il fossilizzarsi
e l'intisichirsi di certe zone dell'attività universitaria leccese
entro le soffocanti e talora ridicole angustie del provincialesco, a
vantaggio della certezza, sempre più diffusa e sempre più
palese, dell'inserimento vivo ed efficace della cultura nostra regionale
nell'organico e pulsante giro della cultura nazionale e internazionale.
Quest'inserimento non può sfuggire, e non sfugge, agli occhi
degli studiosi più vigili e attenti e aggiornati; e piace ancora
constatare come, in questi ultimi anni, l'interesse scientifico e diciamo
pure accademico per le cose del Salento si sia andato ravvivando e allargando
e innalzando (con la conseguente fatale emarginazione di ogni superficiale
faciloneria, di ogni illusorio dilettantismo) a diretto o indiretto
beneficio di tutti.
|