L'affascinante enigma di Otranto




Ennio Bonea



Otranto, quella odierna, che si stende ad arco sul canale dove, nelle giornate chiare, si disegnano le sponde albanesi dell'antico Epiro, pare in composta contemplazione del vecchio borgo, raccolto, attraverso la porta alfonsina, su un tenue pendio, intorno alle due piccole gobbe su cui poggiano il tempietto bizantino di S. Pietro e il lungo corpo della Cattedrale.
Nel borgo, un reticolo intricato di viuzze e piazzuole, tra antichissime case e qualche palazzotto lillipuziano, tutte costruite col tufo su cui il vento ha giocato, e gioca, segnando il suo passaggio con rughe di erosione che fanno contare i secoli, come i cerchi di un tronco tagliato gli anni della pianta, conduce appunto, in un bizzarro, favoloso gioco dell'oca a quei due monumenti, due modi e momenti della religiosità meridionale, oppure in una specie di percorso centrifugo, alla mole del Castello aragonese che, difeso alle spalle dal mare che lo lambisce, col portale rivolto, dal basso, alla Cattedrale, pare stia a sua vigile difesa. E' la storia di Otranto in quegli edifici, testimoni di un passato splendore, quando la città, cinquecento e più anni fa, aveva almeno quattro/cinque volte gli abitanti di oggi. Essi sono il segno di una duplice autorità: quella dell'Arcivescovo che allora estendeva il suo potere fino a Matera e quella, meno presente, degli aragonesi, già declinante, quando Otranto subì l'assalto dell'armata navale turca guidata da Achmed Giedek Pascià, ammiraglio del sultano Maometto II, e l'assedio delle soldatesche. Dopo quindici giorni di disperata e strenua difesa, i turchi irruppero nella città stremata il 12 agosto 1481 e la misero a ferro e fuoco; razziarono, violentarono, rapinarono, riscattarono a peso d'oro i prigionieri possidenti, asservirono con la schiavitù i non abbienti, liberarono gli apostati che abbracciarono la religione dell'Islam e decapitarono gli ottocento cittadini che all'abiura e alla vita anteposero la fedeltà alla propria fede cristiana e accettarono la morte come testimonianza.
Questo episodio non venne amplificato dalla storia e dalla poesia se non in area municipale o, al più, napoletana.
Notizie coeve sono quelle che l'umanista Antonio De Ferrariis (1444-1517), il Galateo, inserisce nel De situ Japygiae; scritto nel 1511 ma pubblicato a Basilea per la prima volta nel 1558, tra cui la uccisione dell'arcivescovo Pendinelli "sgozzato sulla sua stessa sedia dai turchi che irrompevano nel tempio". Perduto è andato invece il poema De bello Hydruntino che a lui si attribuisce.
Pietro Colonna, detto il Galatino, (metà XV secolo - 1540 ca.), si pensa sia stato presente alla strage dei martiri, ne dà notizia nel IV libro dei suoi Commentari dell'Apocalisse di S. Giovanni compiuto nel 1516 e pubblicato a Ortona nel 1518. Dopo questi due umanisti, ha fornito una descrizione minuta dei fatti otrantini, stesa in 56 pagine in folio nella metà del '500, il canonico Giovanni Michele Laggetto, che la raccolse dal padre presente ai fatti. Il manoscritto, intitolato Historia della città di Otranto. Come fu presa da' Turchi, e martirizzati i suoi fedeli Cittadini, scoperto nell'archivio della chiesa metropolitana il 3 aprile 1660, fu pubblicato, per la prima volta, a Maglie nel 1924 nella trascrizione dei can. Luigi Muscari e ripubblicato, a cura di Antonio Antonaci, nel volume Otranto. Testi e documenti (Galatina, 1955).
Nell'arco di quattro secoli si pubblicarono altre storie, cronache, relazioni e si discusse, presso i tribunali ecclesiastici, la beatificazione degli ottocento decapitati sul colle della Minerva; poeti scrissero poemi (come il galateano Giov. Pietro D'Alessandro, nel 1604), liriche (come il galatinese Nicolò Angelino), tragedie (come Gerolamo Pipini, nel 1646) romanzi (come il gallipolino Giuseppe Castiglione, nel 1839) e poesie dialettali (come Giuseppe de Dominicis, nel 1902), ma tutta questa modesta bibliografia, rimase tagliata fuori dalle vie della vasta diffusione e restò incagliata nelle secche di una provincia scarsamente disposta a leggere, nella quale si sviluppò invece una fioritura di leggende, di canti popolari di tradizione orale e di riti di devozione e di feste paesane che ancora durano e dureranno.
Oggi, per una serie di fortunate circostanze: la pubblicazione del romanzo di Maria Corti, L'ora di tutti (Milano, Feltrinelli, 1962) che ha riproposto, con l'autorità della storica della lingua e della casa editrice, in chiave contemporanea, in una vasta area di lettura, il sacrificio dei popolani per la propria libertà, innestandovi l'analogia: turchi-nazisti; la ripresa delle ricerche storiche non più in ambito municipale e salentino, ma con il confronto storiografico dei versanti cattolico e islamico; l'intervento dei mass-media con il contrastato film di Carmelo Bene, Nostra Signora dei turchi del 1968; con la trasmissione del radiodramma Il Sacco di Otranto di Rina Durante, nel 1979, e col recente film di Adriano Barbano, Otranto 1480; la venuta ad Otranto di Papa Giovanni Paolo II per la celebrazione del cinquecentenario 1481-1981 del martirio e, perfino, la scoperta nel 1970 della stazione neolitica della "Grotta dei Cervi" a sei chilometri dalla cittadina, nella zona di Porto Badisco; Otranto ha conquistato una rinomanza culturale che arricchisce quella di natura turistica dovuta alla suggestione di un paesaggio seducente ed intreccia presenze di svariati ma non contrapposti, anzi, spesso mescolati interessi.
Si aggiunge ora, ai fattori su citati un contributo editoriale di serio interesse che accresce la potenzialità culturale di Otranto, per la rinomanza dell'autore e per la somma importanza del tema sviluppato. Si tratta dell'opera di Cari Arnold Willemsen, L'enigma di Otranto (Galatina, Congedo, 1980).
L'enigma è costituito dalla vasta figurazione musiva del pavimento della Cattedrale otrantina, che con le tre iscrizioni leggibili nel tempio, ha una precisa datazione, il 1163, come fa intendere la prima iscrizione la cui parte finale è andata distrutta. La seconda indica nell'arcivescovo Gionata il committente, al tempo del regno del "magnifico" e "trionfante" Guglielmo I, dai contemporanei qualificato "il Malo". La terza iscrizione, ripartita su due nastri, nella parte mediana della navata centrale, dice testualmente (ovviamente in latino) "Nell'anno 1165 dalla incarnazione di Nostro Signore Gesù Cristo, nella XIII indizione regnando il re nostro signore Guglielmo il magnifico, l'umile servo di Cristo Gionata arcivescovo di Otranto comandò che si facesse quest'opera per mano del presbiterio Pantaleone", un frate del Convento di S. Nicola di Casole che godeva allora di un grande splendore culturale.
Abbiamo così data, committente, esecutore e nome del rappresentante del potere e, ancora oggi, desta meraviglia che il grande mosaico, nella massima parte, abbia resistito non soltanto allo scorrere di più di ottocento anni dalla sua esecuzione, ma alla invasione turca che, sostiene Willemsen, almeno per quanto riguarda il mosaico, non scaricò contro l'opera d'arte la furia annientatrice che si abbatté sulle strutture militari e sui cittadini; ma più ancora desta meraviglia, scrive ancora Willemsen, la resistenza del manufatto alla incuria degli uomini e ai "malaccorti restauri" (p. 88). Lo studioso tedesco infatti, non vela giudizi pesanti sulle responsabilità dei preposti alla conservazione del pavimento, allorché, descrivendo "l'abborracciato restauro" della parte bassa della navata laterale sinistra, definisce "una vera macchia della vergogna" (p. 70) la zona coperta di cemento che interrompe la scenografia. Più avanti, a proposito di lavori operati nella parte alta della navata laterale destra, dichiara trattarsi di "un intervento restauratore acciabattato" (p. 108).
Queste citazioni vanno intese come sfogo di un innamorato di Otranto e del suo documento artistico più cospicuo, preso dallo sdegno nel vedere l'oggetto del suo amore e del suo appassionato studio deturpato, ma che dichiara, senza riserve: "se si tiene conto delle sue (del mosaico) dimensioni e del suo stato di conservazione, bisogna riconoscere che nell'occidente cristiano non ve ne sono altri, risalenti al Medioevo, che possano, sia pure approssimativamente, reggere il confronto con esso." (p. 10).
L'approdo culturale ad Otranto e l'interesse scientifico per il pavimento musivo della Cattedrale, sono i traguardi di una indagine sulla Puglia normanna da Willemsen condensata in un volume scritto in collaborazione con Dagmar Odenthal, Puglia. Terra dei Normanni (Bari, 1978) che poi è alla base del riesame delle fonti storiche, letterarie e artistiche, e della simbologia di cui è nutrita tutta ricognizione generale della storia e della cultura otrantina, e con Grazio Gianfreda, Il mosaico pavimentale della Basilica Cattedrale di Otranto (Casamari, 1965), ristampato e rivisto, sino alla quarta edizione del 1975. E mentre in Italia Chiara Settis Frugoni pubblicava in "Bollettino dell'istituto Storico Italiano del Medioevo", nel 1968, un saggio Per una lettura del mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto: modelli culturali e scelte iconografiche, in USA, Chiara Bargellini presentava nel 1975 una dissertazione per il dottorato presso l'Università di Harvard, a Cambridge/Mass., dal titolo Studi nella Puglia medievale mosaici pavimentarli, mentre R. Nancy Fabbri ne aveva già presentata una, nel 1972, presso l'Università di Michigan, dal titolo Pavimenti a figurazione musiva dell'XI e XII secolo nel Sud Italia. I due lavori affrontavano la interpretazione delle simbologie del mosaico otrantino; infine, a Wiesbaden, nel 1977, veniva pubblicato Il Mosaico di Otranto. Presentazione, interpretazione e illustrazione, di Walter Haug.
Il volume di Willemsen ha dunque un non ampio retroterra di studi settoriali, ma poggia sulla vasta piattaforma della storia e della cultura medievale a cui è legata strettamente tutta la produzione artistica dei pavimenti musivi medievali e dell'ornato architettonico, in genere.
Pertanto lo studioso tedesco, dopo aver brevemente percorso le vicende storiche della città di Otranto, con un inspiegabile abbaglio laddove (p. 9) fa il nome di Solimano II (nato nel 1494) in luogo di Maometto II, presenta, nella prima parte, la fabbrica della Cattedrale nel processo costruttivo. Descrive la cripta a sala "che per le sue dimensioni supera quelle di tutte le altre chiese pugliesi" (p. 14), unica per le sue nove navate e per le sette arcate di profondità, che creano "una selva di colonne" con la serie di capolavori che sono i capitelli. Così indugia a tracciare la storia della parte superiore con le navate e il transetto, dalla fase progettuale a quella della edificazione del vasto tempio romanico e gli interventi modificativi operati dall'arcivescovo De Aste nel tardo '600, per passare poi all'esame delle tre iscrizioni, di cui abbiamo detto avanti, e concludere questa sorta di premessa alle altre due parti, incentrate sul pavimento tessellato.
La Descrizione del mosaico si stende nella seconda parte, con minuziosa e puntuale illustrazione, che fa riferimento alle fotografie di cui il testo è molto ricco (non senza che l'autore abbia sottolineato i progressi della tecnica che ha consentito uno studio molto più accurato e preciso rispetto a quello dei Garufi, il primo che nel 1905 ottenne il permesso di riprendere fotografie, e persino rispetto a quelle del 1963), eseguite da una troupe di un istituto fotografico di Zurigo.
Il percorso descrittivo segue lo sviluppo del grande tronco d'albero che dal portale si spinge, lungo tutta la navata centrale, sino al transetto, sviluppando per tutta la superficie, a destra e a sinistra, una ramificazione di zone figurative, nelle quali si intrecciano racconti, episodi e personaggi il cui nesso narrativo risulta talvolta misterioso nei significati. Figure maschili, femminili, bestie di vario genere, dall'elefante al leone, al cervo, al serpente, al cavallo, allo struzzo e mitici soggetti come il centauro con la barba di capra, Diana cacciatrice o una amazzone, due grifoni che trasportano in cielo il re Alessandro Magno che protende, a guisa d'esca, verso le teste dei grifoni, due spiedi con carne.
Scene dell'Antico Testamento: la costruzione della Torre di Babele, Noè e i figli che piantano viti, si vedono a sinistra del tronco. Nelle contrapposte zone a destra, non c'è una rappresentazione coerente, ma campeggiano: un grosso cane dalla cui bocca fuoriesce un tronco d'albero; un ibrido umano-ferino e mostri orribili con due o tre teste e, più sopra, la "zona dei centauri", la "zona del mare" dominata da un grosso delfino e da un pesce con testa umana. La descrizione di Willemsen è ordinata, condita da qualche notazione che sottolinea la reazione dello spettatore (ad es. "una delle tante buffonerie, che ad Otranto è dato incontrare") e dalla messa in evidenza del tendere alle composizioni miste di animali diversi.
Nella parte superiore a quella mediana, sempre nella navata centrale, il mosaico si articola in un modulo di ripartizioni simmetriche che si sviluppano in fasce orizzontali e riquadrate, sulle quali si ritrovano, in tre file sovrapposte quattro cerchi con scene compiute e, su di essi, un'altra figurazione orizzontale, che fa quasi da cornice.
Nella fascia superiore è rappresentato il diluvio universale in cui è sintetizzata la costruzione dell'arca e l'imbarco degli animali; nei dodici medaglioni sono raffigurati i lavori distribuiti nei dodici mesi dell'anno che contengono anche i segni zodiacali, con una organicità di rappresentazione che fa avanzare a Willemsen "l'ipotesi che in nessun altro pavimento musivo abbia trovato posto un ciclo dei mesi confrontabile, sia pure approssimativamente, con quello di Otranto per le sue dimensioni." (p. 50)
Al di sopra dei "tondi" dei mesi, in senso orizzontale, sono svolte scene della iniziale storia dell'uomo: Adamo ed Eva e la loro cacciata dal Paradiso, a cui segue con uno stacco inspiegabile, la figurazione di re Artù, "interpolazione - scrive Willemsen - di un episodio preso dal ciclo leggendario bretone, che esce completamente fuori del contesto." (p. 53) Ad essa fa seguito, sia pure su una zona distrutta e rifatta, la vicenda di Caino e Abele.
Qui c'è un'interruzione dovuta al gradino che immette nella zona del transetto e che, suppone Willemsen, doveva aver sostenuto un'iconostasi lignea fatta erigere dall'arcivescovo De Aste, sul finire del XVII secolo, quando fu sostituito il soffitto a capriata, in uso corrente nell'architettura romanica, dalla secentesca e stucchevole volta a cassettoni, sfarzosa e rilucente di ori che "grava - commenta l'autore - come una lastra tombale sull'ambiente." (p. 35).
Nel quadrato del transetto, è ripreso il motivo dei "tondi" dei mesi, ma su quattro file di quattro medaglioni ciascuna, dodici raffiguranti simbologie di animali e quattro con le figure della regina di Saba, del re Salomone, di Adamo e di Eva. Oltre il transetto, nell'abside, a parte le zone dove il mosaico è andato perduto, i temi rappresentati si legano ai fatti del profeta Giona e a scene di caccia, alla lotta di Sansone con il leone e a scontri di animali.
Si ritorna poi in basso, verso il portale, nella navata laterale sinistra, dove un tronco, analogo a quello della navata centrale, ma di più modeste dimensioni, poggiando sulla groppa di un toro, si spinge in alto, affiancato sulla sinistra da un altro tronco più piccolo che culmina in due rami, dove la figurazione è per lo più vegetale, ad indicare il giardino dei Santi, nel quale si trovano effigiati i profeti Isacco, Abramo e Giacobbe.
Nella navata laterale destra, a partire sempre dal portale, si ritrova lo schema dell'altra navata: un tronco che però ramifica a destra e a sinistra, quasi a spartire, con le dritte propaggini parallele dei rami, zone nelle quali si ritrovano poche figure umane e molti "esseri animaleschi, favolosi e ibridi", tra i quali fa spicco una movimentata lotta del leone col serpente che sta ingoiando un caprone, metà corpo del quale pende esanime dalla bocca del serpente, a sua volta azzannato dal leone.
Fonti iconografiche e letterarie. Tentativi di interpretazione, è il titolo dell'attività dei mosaicisti medievali. Su queste fondamenta per un lavoro di approfondimento, Willemsen ha ripercorso, criticamente, quanto è stato scritto su Otranto e sul mosaico pavimentale, a partire dalla prima opera che lo descrive, cercando di sciogliere i significati, spesso ermetici e a volte ambigui delle figurazioni, dovuta a H. W. Schulz, Monumenti della cultura medievale in Italia meridionale (Dresda, 1860). A quella prima ricerca, seguirono le pubblicazioni di autori locali che, in opere generali, come quella di Luigi Maggiulli, Otranto. Ricordi (Lecce, 1893) o in studi specifici sulla Cattedrale, come Il pavimento a mosaico della Cattedrale di Otranto (in "Studi Medievali", 1906-1907) di Carlo Garufi, e La Cattedrale di Otranto (Maglie, 1913) di Luigi Maruccia che pubblicò poi, sulla rivista "Salento", nel 1928 e nel 1931, due studi sul mosaico. "Il luogo di edizione era però così fuori mano - commenta Willemsen - che le tre pubblicazioni restarono praticamente sconosciute oltre i confini del Salento." (p. 139).
La ripresa dell'interesse per il capolavoro otrantino, si ha nel secondo dopoguerra con Antonio Antonaci, Otranto, Testi e Monumenti (Galatina, 1955) una terza parte del lavoro, dove Willemsen espone i tentativi di sciogliere gli enigmi che la simbologia del mosaico, opera da fare "leggere" ai fedeli per la maggior parte analfabeti in quei tempi, presenta di difficile comprensione o di facile fraintendimento anche per quegli studiosi che, ricchi di dottrina e di mezzi bibliografici, si dannano ancora ad intenderne i corretti significati. Può darsi, ma è supposizione gratuita del recensore, che l'incultura dei fedeli, compensata dal candore spirituale, intendesse la Bibbia dei poveri descritta dal mosaico otrantino, se non nei particolari simbologici, nel messaggio di fondo: la superbia punita, ,il male vinto dall'umiltà e dal bene. Dio, assente dalle figurazioni, è disseminato nel vasto mondo simbolico, ora leone, ora grifone, ora mano che condanna. Willemsen condensa in tre temi tutta la massa narrativa del mosaico: 1) il ciclo di Giona, 2) il ciclo dei mesi, 3) il cielo della Genesi.
Il primo, quello di Giona, è uno dei "temi particolarmente prediletti dall'arte sepolcrale" (p. 81) nel periodo paleocristiano con una sceneggiatura quasi ripetitiva: "la gettata in mare, il rigetto da parte del cetaceo ed il riposo sotto la capanna, costituita dalla zucca" (p. 81); nel mosaico di Otranto, manca la seconda delle tre scene. Le scene otrantine, Willemsen le ha ritrovate in miniature di codici bizantini, dove però non sono mai contenute quelle che seguono ad Otranto ed illustrano la caduta di Ninive quasi ad identificare i suonatori di tromba che faranno crollare le mura della superba città, con gli angeli che preannunciano il Giudizio Universale.
Giona poi, suppone Willemsen, potrebbe essere un modo di glorificare l'arcivescovo Gionata che fu il committente del pavimento.
Non scenderemo alla esposizione delle congetture avanzate e alle interpretazioni rifiutate da Willemsen, ma per sommi capi indicheremo che l'autore ritiene di facile soluzione il ciclo dei mesi, mentre più arduo è penetrare nei significati del ciclo della Genesi.
Intanto, egli rapporta le figurazioni di Otranto, per la parte del peccato originale e della cacciata dall'Eden, agli affreschi di Sant'Angelo in Formis (Caserta), al mosaico della Cappella Palatina a Palermo ed alle tavolette d'avorio nel Museo del Duomo di Salerno, e mette in evidenza il tormentato problema del perché l'effigie del re Artù, che cavalca un caprone, animale demoniaco simbolo della lussuria, sia connesso alla cacciata dal Paradiso.
Altra interpolazione che fa pensare ad un inserimento incoerente, è quella del ciclo dei mesi che, senza alcuna evidente connessione, segue la rappresentazione dell'episodio di Caino e di Abele, dominato da un crudo realismo.
Willemsen non sa poi spiegarsi i motivi per i quali dopo il tondo del mese di dicembre, si stendono i riquadri del racconto di Noè coi tre figli Sem, Cam e Jafet; dell'arca; del diluvio e dei lavori agricoli, condividendo il giudizio della Bargellini che considera la illustrazione otrantina "come la più complicata tra quelle risalenti al XII secolo." (p. 100).
E come per re Artù che compare, d'improvviso, dopo Adamo ed Eva, così senza una logica ragione, dopo la Torre di Babele, simbolo della smisurata superbia punita, appaiono le figure della regina di Saba e di re Salomone. Willemsen si chiede perché proprio a questo punto sia fissato l'incontro tra i due, non soddisfatto della soluzione della Settis Frugoni, la quale trova nel Vangelo di Matteo (12, 39-42), nelle parole di Gesù ai farisei che il Salvatore è più grande di Salomone e di Giona, la spiegazione della vicinanza del re alla Torre di Babele nel mosaico otrantino.
Ricorrente, nel presentare le supposizioni interpretative dei vari studiosi, è un trattato di autore anonimo del II sec. d.C., il Physiologus (Il Naturalista) che presentava trenta animali, dandone i significati simbolici dei vizi e delle virtù da loro rappresentati. Willemsen, spesso, cautamente collega a quella simbologia animale (gatto, rettile cornuto, cervo, centauro, dromedario, liocorno, etc.) i vizi e le virtù rappresentate.
Nel tema del Giudizio Universale, tratto da fonti letterarie bizantine, Willemsen fa rimarcare che esso è monco della presenza di Dio ed è esplicato, sinteticamente, nella spartizione tra eletti e dannati con la presenza invece di Satana, incoronato e seduto su un trono che è il dorso di un mostro infernale. I dannati sono azzannati da draghi e serpenti, in quelle parti del corpo che corrispondono al peccato capitale di cui si sono macchiati. L'arcangelo Michele che, secondo la tradizione, dovrebbe pesare le anime, è sostituito nel mosaico, senza una fonte letteraria di riferimento, da un diavolo che regge la bilancia.
Willemsen indugia poi sulla figura di Alexander Rex che potrebbe sorprendere per lo spicco iconografico e la posizione di preminenza che occupa in una chiesa cristiana e spiega la presenza con la diffusa leggenda della sua ascensione e col Romanzo di Alessandro che circolò in tutta Europa ai tempi della cavalleria. Dei resto, un riscontro della tradizione letteraria e iconografica sul re macedone, si aveva nel mosaico del Duomo di Taranto, di cui però rimane solo un disegno eseguito nel secolo scorso, nel 1884; nella Cattedrale di Trani e in un capitello della navata centrale della Cattedrale di Bitonto.
Le conclusione ermeneutiche condividono le indicazioni di Chiara Settis Frugoni, che assegna alle figurazioni il fine generale didattico, individuando come fondamentale il peccato della superbia sia nella Genesi (Babele, Ninive, Alessandro) che nel ciclo di Giona e nella lotta tra Sansone e il leone. Le conseguenze punitive di questa deviazione spirituale, si esprimono nella cacciata dal Paradiso, nel primo fratricidio, nel lavoro affaticante dei tondi dei mesi, nel diluvio. Ma è evidente che la "lezione" divina non si limita all'ammonimento terrificante del castigo, essa si svolge verso il perdono, sintetizzandosi, dice la studiosa citata, in "un'unica omelia figurale ed un discorso di salvezza". (p. 128)
Ma ai significati religiosi si affiancano, sempre secondo la Settis Frugoni, anche quelli politici di propaganda antibizantina, tesi ribadita dalle studiose Fabbri e Bargellini, che vedono un collegamento tra la simbolicità dell'albero, come metafora del potere e della sovranità, e i re normanni Ruggero II e Guglielmo I, mentre Haug amplia questa interpretazione con più libertà di argomentazioni. Infine, come ultimo problema, Willemsen riferisce il tentativo operato dagli studiosi di risolvere il quesito se alla realizzazione del mosaico presiedesse un disegno generale completo e predisposto, che la Bargellini esclude, mentre Haug ipotizza addirittura la esistenza di un vasto disegno al quale Pantaleone si rifaceva pur concedendosi libertà creativa in corso di opera. Willemsen non propende né per l'una né per l'altra tesi, e considera questo non il solo problema da proporsi ancora; vi sono, egli sostiene, "enigmi che si rifiutano ad una spiegazione", motivo questo di vitalità continua del mosaico e di sollecitazione agli studiosi a venire ad Otranto.
Il volume, in quarto, 214 pagine in carta patinata, con 84 figure nel testo e 64 tavole a colori fuori testo, in una edizione accurata e come di consueto elegante, è destinato al settore degli specialisti di storia dell'arte e di studi medievali di tutto il mondo, ma dovrebbe andare anche tra le mani di quanti si interessano alla cultura in generale e a quella pugliese e salentina in particolare. Sarà d'ostacolo ad una larga diffusione il costo, non elevato rispetto all'edizione, ma fuori dalla portata del lettore medio. E' un motivo di dispiacenza per chi, come noi, vorrebbe ampliare l'area della diffusione del libro, perché questo di Willemsen, nonostante si presenti come testo per specialisti, è un volume di lettura facile e piacevole, somma di quanto è stato scritto da stranieri, italiani e salentini e perciò punto di arrivo anche per chi non abbia notizie sull'argomento.

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