Antonio Sforza: la vita e le opere




Enzo Panareo



Tranquilla e consueta era la vita, negli anni tra la fine dell'Ottocento ed i primi del Novecento, a Otranto quando, il 17 Giugno del 1891, il poeta Antonio Sforza vi nacque.
Ecco come un reporter descrisse il piccolo borgo medievale, arroccato sul mare levantino: "...quella marina splendida, tutta sinuosità, a ridosso della quale vi è una pianeggiante e verdeggiante collina, quella piccola rada, dove approdano le barche da pesca, e dove sorge un embrione di bagni in muratura, quella loggia a mare ben selciata e pulita, cinta d'una ringhiera in ferro che costituisce il piccolo square di Otranto, formano un insieme così armonico e seducente, da rilevare anche una volta in questo estremo punto della bella penisola, il radioso incanto delle marine italiane... vie linde, pulite, tutte ben lastricate, dei piccoli e graziosi negozi... graziose palazzine circondate da verdeggianti giardini ...".(1)
Non mancavano, comunque, i problemi nel paesino tutto chiuso nelle sue mura brunite dal tempo, problemi gravi e necessitanti soluzioni che sollevassero la minuscola comunità di pescatori e di agricoltori, che, colpita anch'essa dalla nefasta crisi agraria di fine secolo, versava in condizioni di penoso disagio economico e sociale. Situazione dalla quale -in un tessuto sociale estremamente differenziato-derivavano agitazioni di contadini i quali di tanto in tanto esplodevano, reclamando lavoro e più umane condizioni di vita.
Uno dei problemi che più urgevano, dalla cui soluzione la comunità molto s'aspettava in rapporto alla sfera del lavoro, era quello del porto, problema continuamente, anche se senza molta convinzione, proposto dalle autorità cittadine e mai radicalmente affrontato sul piano, tecnico dalle autorità governative, per oggettiva indisponibilità del porto, comunque, che non poteva essere portato, malgrado ogni eventuale intervento, al livello di altri porti italiani. Il porto di Otranto era in quegli anni considerato di prima categoria nei riguardi della difesa militare dello Stato, ferma restando, tuttavia, la sua iscrizione nella quarta classe, seconda categoria, per quanto riguardava il commercio (2).
Questa classificazione, peraltro non sgradita per motivi di supremazia a qualche esponente della borghesia locale, incideva notevolmente sulla modesta economia del luogo, affidata quasi esclusivamente all'attività, molto precaria, della pesca ed a quella della villeggiatura estiva, dato che a Otranto, più che in altre marine del Salento, d'estate concorreva numerosa folla di villeggianti dai comuni limitrofi e dal capoluogo.
Lo stabilimento balneare della signora Filomena Ruggio s'offriva accogliente e conferiva alla spiaggia un'atmosfera di sobria mondanità.
L'altro problema che gravata pesantemente sull'economia locale era quello della malaria che, arrecando danni inestimabili alla salute dei lavoratori, incideva sullo sviluppo all'agricoltura cui sottraeva braccia valide. Di tanto in tanto, comunque, erano affrontati lavori di bonifica, sia ai laghi Alimini che nella valle dell'Idro, dove un nubifragio nel 1901, miseramente mandò in rovina alcuni dei pochi lavori realizzati.
La vita nel complesso si svolgeva tranquilla in paese e le poche corrispondenze giornalistiche da Otranto in quegli anni riflettono nella maggior parte l'attività della Curia Arcivescovile, registrando affollati quaresimali tenuti da eruditi ecclesiastici, ordinazioni, avanzamenti e decessi di prelati, applaudite accademie poetiche di giovani, visite di scolaresche.
Una vita paesana densa di minuti eventi, per lo più intessuta del pittoresco protagonismo di figure e figurette che restano nell'anima e determinano, con il trascorrere del tempo, seguendo lo svolgersi della memoria vigile ed il decantarsi delle passioni, una stupefatta atmosfera trascolorante tra realtà e mito. Si convertono allora in commosse faville di pensosa umanità per i cittadini idealmente protetti dall'ombra della cattedrale vetusta, l'intransigenza laica del vecchio e glorioso garibaldino, la bonaria irrascibilità dell'onesto farmacista gran dispensiere di sciroppi e cartine, l'innocua saccenteria del folklorico sacrista, l'amorevole assiduità del burbero insegnante, esponenti di una microscopica società circoscritta dalla consuetudine del ritmo esistenziale, la quale attende, eternamente, ed anche innocentemente, speranzosa, un tempo migliore che, in realtà, non verrà mai, dato che il tempo migliore è quello della verità umana, cioè della verità interiore, che delle piccole cose s'alimenta e s'appaga. Perché il tempo - appare evidente quando diventa patrimonio della coscienza - si ferma sempre in una dimensione del cuore, che non può non convertirsi, nel momento in cui gli impulsi sono autentici, ed agiscono nella direzione della memoria storica, nella direzione della poesia.
E' la dimensioni nella quale vive il giovane Antonio Sforza, diligente studente della classi ginnasiali nell'austero seminario arcivescovile di Otranto, dove dottissimi religiosi gli trasmettono il gusto della buona poesia classica ed il senso di una religiosità che affonda radici in una concezione etica della vita.
Fervida è in lui la fantasia, mutuata da quel Francesco Sforza, suo padre, capostazione, che stupisce i concittadini con il suo temperamento versatile, ricco di humor, rinomato per una inventiva fertile dalla quale trae partito per porre in risalto i prodotti più arguti della sua stupefacente intelligenza. Fa di tutto e su tutto lascia l'impronta di una personalità estroversa, piena di spunti creativi.
Elegante, di bell'aspetto, il figlio sa farsi valere nelle riunioni mondane e raccoglie consensi.
L'impatto vivificante di Antonio Sforza - che giovanissimo entra nell'amministrazione delle poste - con la poesia avviene a Venezia, nel calore dell'amicizia di Vittorio Locchi.
Sceso dalla stazione si avvia " ... per Lista di Spagna, che toccai la prima volta, nella lontanissima sera del 19 Settembre 1910 ..."(3) e bussa alla porta del n. 205 di Calle Giocacchina.
Dirà nel 1917: Uscivo da la pace de le piccole strade / e preso fui dal limpido veleno / che vaporano i marmi, i cieli e l'acque / di Venezia regale!(4). Si lasciava alle spalle un piccolo mondo provinciale, angusto anche se permeato di certezze salde, e tra queste un amore teneramente allevato, per correre l'avventura della vita.
L'esuberanza esistenziale ed intellettuale del poeta di Figline Valdarno, anch'egli nell'amministrazione postale, fa presa sulla desta sensibilità dell'idruntino, di due anni più giovane del toscano, che s'accorge d'aver trovato un fratello d'anima.
Il sodalizio con Vittorio Locchi, pertanto, è corroborante. Nella goliardinca atmosfera locchiana "Toni", che a Venezia abita nella stessa casa nella quale abita il poeta, matura tutta una somma di stimoli, nel contesto di una visione militantistica dell'impegno intellettuale.
"Toni" - così, infatti, l'apostrofa il sodale - entra senz'altro nella "Tavolissima", la seconda brigata di amici della poesia - prima, a Firenze, c'è stata quella, molto più rumorosa e fertile, "del Giacchio" -create da Locchi, con sede nel quattrocentesco palazzo Bembo.
In questa raccolta di giovani, convivialmente denominata "La Tavolissima", " ... ci sono i suoi compagni di lavoro, i più intelligenti: legge a loro i suoi versi, le opere di poesia di cui parlano i giornali e che si fa mandar da Figline; gode di portarli fuori dalla chiusa aria e di tra le scartoffie, nel suo bel cielo di poeta: persino tra i bolli, la ceralacca e le ricevute è riuscito a scovare anime come quelle del "Giacchio"; anche qui lo circondano, lo ammirano, lo amano ... "(5). La soda cultura toscana di Locchi, percorsa da sani e sapidi umori popolareschi, suscita in chi vi aderisce molteplici tensioni intellettuali, sviluppate sempre sotto l'ala guizzante della poesia, giovanilmente agitata nel corso di esaltanti conversari, dai quali vengon fuori le problematiche più disparate, le dispute più appassionanti.
Agevola questa intesa d'anime il fascino straordinario di Venezia fiabesca, misteriosamente splendente nella sua trama liquida.
Nel 1914 appaiono Le canzoni del Giacchio di Locchi, il quale ha anche steso un atto, La tempesta e spera che la compagnia Sainati glielo reciti: il teatro è per Locchi la vita nella sua immediatezza espressiva. Sem Benelli, intanto, accoglie con grande favore Le Canzoni del Giacchio e Papini pubblica, nel 1915, nella collezione "Scrittori nostri" di Carabba l'edizione, curata da Locchi, degli Strambotti(6) del poeta ed umanista veneziano Leonardo Giustianian.
Sono queste, per Sforza, occasioni determinanti, largamente tesaurizzate. E' in quest'atmosfera che egli delinea, sull'onda del dibattito che si va avviando nel Paese, il proprio nazionalismo, ed, in questo l'interventismo, nel cui confuso crogiolo alcune speranze giovanili pensano d'aver raggiunto il punto di fusione di molteplici ipotesi e proposte politiche e culturali.
Cominciano ad agire nell'animo dei giovani intellettuali italiani le seduzioni rivendicazionistiche, espansioniste ed eroiche del Pascoli, ma soprattutto quelle portate dall'assordante clamore di D'Annunzio, i quali tracciano nelle fantasie arroventate dalla propaganda, abilmente orchestrata, di marca bellicista, l'improbabile volto di un'Italia la quale s'accinge ad occupare il posto, che quei giovani pensano le debba competere, nel consenso dei Paesi europei.
Ed è in questa atmosfera che Sforza pubblica, nel 1915, La nascita del tedesco ossia il diavolo creatore(7) un agile polimetro nel quale, sotto il segno della tensione tedescofoba, Confluisce, intelligentemente organata, una considerevole somma di esperienze letterarie e di cultura, tributarie, per lo più, di Dante, ma non prive di echi del salentino De Dominicis, ed anche di tutta la congerie pamphlettistica che in quegli anni andava invadendo il Paese(8). Il testo si colloca, pertanto, nel variegato tessuto di quella pubblicistica propagandistica ampiamente utilizzata poi, nel corso del conflitto, dai giornali di trincea,' nella quale il nemico per antonomasia, tedesco e austriaco, è abbondantemente demonizzato -è, in questo caso, l'accezione più adatta - allo scopo di realizzare un uso politico, che però deve apparire come un uso patriottico, della guerra.
"La leggenda sulla nascita del tedesco, così come è narrata in questo assai modesto polimetro, è diffusissima nel Belgio, nella Francia e specialmente nell'Alsazia-Lorena ... " Il tema è semplice. Compiuta l'opera della creazione, Iddio la stava a guardare compiaciuto, quando Lucifero, roso dall'invidia, volle anch'egli creare qualcosa. Si presentò alle porte del Paradiso per essere ammesso alla presenza del Padreterno, ma gli fu sbarrato il passo da San Pietro. Facendo violenza a costui, Lucifero s'introduce nel Paradiso, dove il Padreterno lo accoglie senza tanti riguardi e gli chiede che cosa voglia. Lucifero chiede, dunque, d'essere abilitato a creare un uomo. Il Padreterno dapprima rifiuta, poi si lascia convincere, trascinato dalla sua bontà, ed accetta. Lucifero si mette all'opera e, una volta terminato il suo lavoro, si reca dal Padreterno per presentarglielo. Il Padreterno s'accorge subito, naturalmente, che il manufatto prodotto da Lucifero è difettoso in quanto, significativamente, manca del cuore ed ha due stomachi. Si rifiuta, allora, di dargli la vita, ma Lucifero si ribella. Infine il Padreterno acconsente a far vivere l'uomo creato da Lucifero e "ch'esso sia tedesco! ".
Proprio in virtù della varietà dei metri - e c'è da aggiungere che l'endecasillabo è trattato con molto buon gusto ed il settenario ha una sua compiaciuta musicalità - il poemetto - ché tale è - si presenta estremamente mosso, con un verseggiare dal tono sostenuto, in alcuni punti addirittura aulico. A parte la tedescofobia, insistentemente diffusa in quel clima politico, nel quale le immagini truculente dovevano servire a determinare, nei processi psicologici interessati a catturare il consenso delle masse, l'ideologia, del nemico, il dato letterario che più emerge, nell'insieme, è rappresentato, al di là di un dantismo in alcuni tratti eccessivamente scoperto anche se sagacemente integrato, da una efficace capacità di sintesi che introduce il componimento in un autentico clima storico.
Vittorio Locchi parte per la guerra, con lui partono altri sodali de "La Tavolissima", non parte, invece, Antonio Sforza, già nel 1911 riformato per un malessere assai marcato, riscontrato all'ospedale militare, all'occhio sinistro. Successivamente, nel 1916, nel corso di una nuova visita all'ospedale militare gli riscontrano ammalato anche l'occhio destro, che risulterà spento del tutto, in seguito ad un'ultima osservazione, alla fine del 1917.
La guerra che infuria, seminando lutti e dolori, provoca nello Sforza, escluso dalla partecipazione al conflitto, lontano da casa, un ripiegamento della coscienza ed un'esigenza di cose domestiche, di certezze in grado di sostenere la prova delle tragiche emozioni sull'onda delle quali la storia in quei mesi di fuoco progredisce. Prodotto di questo stato d'animo è nel 1917, la canzone Mamma(10), dedicata alla Fedelissima Donna/ che vegli, preghi piangi e benedici!
Sforza realizza, in questo momento di grave ambascia, la poesia della memoria, il canto del vagheggiamento degli effetti domestici recuperati, in chiave di memoria commossa, nel protettivo tepore dell'ambiente nel quale essi sono custoditi. Tuttavia memoria vuoi dire anche rimpianto, per i trascorsi anni della fanciullezza, in questo caso, e dell'adolescenza, tra volti esponenti di quel piccolo mondo paesano, dove speranze ed illusioni furono trepidamente allevate: Oh, come a le tue bianche / piccole case aperte in faccia al mare, / Otranto mia lontana, / corre anelo il pensiero! - ma c'è la guerra che tutto disumanizza e Sforza ne dà testimonianza con un verso molto bello: Anche l'azzurro quando splende è triste!
Datato da Padova, Gennaio - Luglio 1917 - e si sa che il 15 Febbraio del 1917 Vittorio Locchi perì nel naufragio del "Minas", un trasporto di truppe diretto a Salonicco e che la notizia della morte del poeta si diffuse subito negli ambienti della cultura italiana dove il Locchi s'era meritato amici ed estimatori (11) - il poemetto è importante anche per le due note introduttive, una a mo' di lettera indirizzata al padre defunto nel 1918, datata Valona, Marzo 1920 - la pubblicazione del poemetto avvenne alcuni anni dopo la stesura, molto laboriosa peraltro se si tiene conto del fatto che essa durò alcuni mesi -, l'altra, datata Sassari, Giugno 1925, le quali danno, tra l'altro, anche la nozione della vita errabonda che Sforza, sull'onda di alcune vicende familiari, condusse dopo la fine del conflitto.
S'avverte, d'altro canto, in questa composizione - dove di nuovo una serie di risuonanti endecasillabi danno la misura della capacità da parte del poeta di trattare il verso tendendo ad una gradevole musicalità, dove, peraltro, appare il gusto discreto della metafora, dell'uso sorvegliato dalla similitudine, del rapido e sonoro enjambement - l'ansia delle conquiste cui il giovane si sente chiamato dalla vita e dalla sua insopprimibile vocazione alla poesia. Ma non si nasconde, quel giovane, le innumerevoli difficoltà insite nei suoi ambiziosi sogni di poesia e trepida e soffre e chiede all'ombra materna di assisterlo nei cimenti futuri: scorge, in somma l'"agognata vetta" e vi tende con "volontà che taglia come accetta", dove ingenuamente scoperta è l'immagine di puro segno dannunziano, diffuso, comunque, questo segno lungo tutta l'intelaiatura della composizione. Di D'Annunzio Sforza era, per così dire, innamorato. Del pescarese, in realtà, lo seduceva innanzi tutto la musicalità del verso e poi il gusto per la composizione ampia, ricca di fremiti, aperta a soluzioni eroiche. Ma del pescarese lo seduceva anche l'ineffabile capacità di scavare nelle piccole cose, ricavandone orizzonti sconfinanti, aperti sulla gloria e sul mistero.
Ma in Mamma, al di là delle aspirazioni alla poesia, c'è tanto altro: le amarezze per gli errori compiuti ed i presagi delle amarezze che verranno. E c'è il segno di una vita che, comunque, va affrontata serenamente. Invece è in agguato il segno del destino. Dopo aver sofferto a lungo, alternando speranze e delusioni cocenti, nel 1927 Antonio Sforza comincia a vivere in una nuova dimensione esistenziale, la drammatica dimensione delle tenebre, nella quale i sentimenti - ansie, impulsi, passioni - diventano più incisivi, più penetranti. Le cose assumono al suo sguardo ormai spento del tutto nuovi lineamenti, quelli della consapevolezza interiore, che raccoglie ed amalgama quanto dell'uomo è la parte più vibratile.
Dopo la sciagura della cecità torna nel Salento, a Otranto, e subito dopo si riduce nel piccolo borgo di Uggiano La Chiesa. Proviene da Sassari, dove era ancora funzionario nell'amministrazione postale.
Nel 1931 appaiono gli Esercizi de lingua Otrantina (12). Tornando nel Salento, sia pure nella condizione di spirito in cui la cecità lo ha fatto precipitare - di quella economica non è da parlare, dato che è stato dimesso dall'amministrazione postale -, Antonio Sforza recupera decisamente il dialetto natio e prende contatti con la cultura salentina. Significativa è l'epigrafe sotto il cui segno gli Esercizi sono offerti: "Nuddha lingua aggiu studiata / E de nuddha sacciu nienti: / Sulu quiddha de lu tata / Me sta scioca ntra li dienti ."(13) Il dialetto così non è un materiale o uno strumento di poesia, è una cultura, mediata, in questo momento, e per sempre, comunque, dal bisogno che ha il poeta, nella sua condizione, di affidare la sua espressione ad una certezza che non può venir meno, che non può tradire.
Il "Giornale del Popolo" di Lecce gli pubblica, nel 1932 ,(14) una lirica, Cunfessione. Si tratta di una serie di distici d'occasione, con i quali Sforza si confronta con il poeta Oberdan Leone e si giustifica per non aver potuto, a causa della cecità, lavorare di lima suglie Esercizi. Nei quali il Leone ha trovato che "... solo qualche verso dovrebbe essere corretto: il numero delle sillabe e gli accenti alcune volte, rare in vero, non tornano. "Con gli Esercizi - ed è già significativa l'accezione - Sforza si cimenta umilmente, dunque, con il dialetto, recuperando il calore della cultura d'origine, e, fatte salve le osservazione, pertinenti senza dubbio, del Leone, raggiunge, con un dettato semplice, con uno strumento poetico manegevolissimo e con materiali trasparenti nella loro genuina umanità, risultati apprezzabili. Traspare da questi versi, a parte il lamento per la cecità inesorabile, accettata serenamente comunque, un'arguzia bonaria e molto penetrante. Quella dei materiali, per così dire, poveri che Sforza predilige, d'altro canto, è una scelta meditata nel senso che sono questi materiali a riportare il poeta nell'alveo di una vita paesana nella cui consuetudine, peraltro ricca di fermenti di sana umanità, erano cresciute la sua fanciullezza e la sua speranzosa adolescenza.
Nel 1933 poi con una lirica in dialetto s'inserisce in una polemica 15 sollevata dallo scrittore Ezio Savino, il quale con un articolo dell'8 Giugno ed una replica del 29 dello stesso mese, su un quotidiano, partendo da Renan per arrivare a Papini, autore di un Dante vivo, ha impietosamente stroncato il lavoro dello scrittore toscano, esaltando, di rimando, il lavoro del pensatore francese. Perla penna del sacerdote Vincenzo Nuzzone, pubblicista di buon tempra, "L'Ordine" settimanale clericale di Lecce, allestisce in due articoli una difesa del convertito Papini, il secondo dei quali articoli ha come pittoresca appendice poetica la lirica dello Sforza. Il quale, fingendo un dialetto maldestramente elevato qua e là a dignità di lingua colta da un incolto salentino, assume anch'egli le difese del Papini, ma soprattutto si scaglia contro la iattanza del Savino. Non si possono sottacere, a proposito di questa scelta dello Sforza, almeno due considerazioni che valgano a determinare la personalità del poeta: in questa scelta agiscono, innanzi tutto, gli stimoli provenienti dall'ambiente fiorentino che allo Sforza erano provenuti dall'entusiastica sollecitudine di Locchi, e poi il senso di una religiosità vissuta, derivata allo Sforza da antica e consolidata formazione etica ed intellettuale.
Nel 1934 - Sforza si è già allontanato di nuovo dal Salento, diretto nel Veneto, dove ha altre radici - il "Giornale del Popolo" di Lecce gli pubblica una lunga lirica, Nuvembre (16).
Impostata secondo un ritmo che ha del prosastico, in distici di buona fattura, Nuvembre esprime la malinconia che il mese invernale porta naturalmente con sé, la malinconia di chi non ha nulla in cui sperare. Solo chi ha un amore sa approfittare dell'inclemenza dell'inverno ottenendo, quando le strade sono deserte, un convegno nel corso del quale strappa alla sua donna pegni d'amore: e torna, con questo concetto, una situazione già presente in Mamma, che è, evidentemente, situazione di carattere autobiografico. Non sente il peso dell'inverno, infine, chi, tra la desolazione della natura, conserva in sé l'allegrezza ed è quiddhu ca sente, nella morte, la vita, perché quando nel cuore c'è la speranza, pur tra i disagi innumerevoli che l'inverno comporta, è sempre estate.
L'8 Settembre del 1943 Sforza che ha attraversato tutta una somma di non liete vicissitudini familiari -, indignato per il voltafaccia degli italiani nei riguardi dell'alleato tedesco, mettendo a profitto la cecità, s'arruola nella difesa contraerea ed è impegnato, in qualità di aerofonista, a Bologna. Una scelta, questa di Sforza, che sottolinea la simpatia del poeta per il duce del fascismo, visto come l'interprete del nazionalismo e dell'irredentismo assimilato da Sforza durante la lunga permanenza nel Veneto. D'altro canto Sforza ha sempre manifestato un temperamento deciso, tenace, spregiudicatamente ostile ai compromessi e ad ogni altro atteggiamento che possa suonare come rinunzia e pavidità. Con l'arruolamento e la scelta di campo, che allora poteva sembrare anche temeraria, Sforza intese ribadire una coerenza che non era l'ultima delle sue qualità etiche e psicologiche. Infatti, va anche detto che, malgrado la cecità, non smise mai, a Venezia, di frequentare il teatro, divenendo un appassionato "loggionista" de "La Fenice", dove, accompagnato da qualche conoscente, riusciva a rendersi conto perfettamente della rappresentazione seguita con interesse e profitto.
Ai primi del 1946, una volta liberata l'Italia, Sforza rientra a Otranto, in grigioverde, e l'anno successivo se ne va a vivere a Uggiano la Chiesa. Questo comunello situato nell'entroterra otrantino, in amena posizione tra la campagna e il mare poco lontano, rappresenta per il poeta con la sua idillica quiete, con la serena e disinteressata ospitalità dei suoi abitanti, il buon retiro, il porto al quale l'anima in pena del poeta chiede ormai la pace. Otranto, d'altronde sebbene lasciata a malincuore non è più quella di un tempo. I nuovi parametri socioesistenziali introdotti dal nuovo clima politico sopraggiunto con la democrazia hanno modificato il carattere dei suoi abitanti. Intervengono nuovi costumi, senz'altro più moderni, sorretti dalla consapevolezza dei diritti e dei doveri personali, intervengono nuovi modi di concepire e realizzare i rapporti interpersonali, e, comunque, vanno scomparendo gli uomini che caratterizzarono, nel piccolo e abbandonato borgo marinaro proteso sull'Adriatico - che Sforza, dannunzianamente, definiva "amarissimo" -, gli anni precedenti la prima guerra mondiale. Temperamento estremamente vibratile, pronto a percepire qualsiasi variazione del costume e del sentire, Sforza s'accorge d'essere, a Otranto, quasi un sopravvisuto rispetto ad un tempo che resta serenamente ancorato nella memoria trepida, dove uomini e fatti segnano la traccia degli anni felicemente mitici della fanciullezza e dell'adolescenza. Vive in lui, imperituro, l'amore per le pietre di Otranto, per le memorie storiche, che però inesorabilmente si vanno dissipando sotto l'incalzare di una frenesia che vuole essere di vita ed è, invece, di morte. Le discordie civiche, infatti, avvelenano gli animi e, mentre sembrano costruire sotto il segno della democrazia, in realtà distruggono, dato che sulla discordia civica, quando essa è vilmente fomentata, non si costruisce, se così può dirsi, che la parte più caduca dell'uomo.
Nel 1949 appare Suonate campane... (Le campane de Uscianu) (17). Sforza assume l'evento paesano del rinnovo delle campane e dell'orologio sulla torre per rammentare una lunga somma di situazioni locali. Campane ed orologio finiscono con l'assumere, a loro volta, un certo valore emblematico. Si traducono, in sostanza, nei referenti di una situazione dello spirito nella quale la poesia diventa valore consolatorio. Il fascicoletto è esilissimo, le composizioni sono appena sette, dal tono pacato e dall'aroma di cose che la coscienza ha rinverginato, alternate tra lingua e dialetto sul filo di un dissidio che Sforza non riuscirà mai a comporre.
Ma il 1949 è anche l'anno di Utrantu mia (18). Si tratta di una collana di sonetti in dialetto, divisa in due parti e conclusa, significativamente, dalla riproduzione del testo della lapide murata nella Chiesa di S. Francesco di Paola, sul colle della Minerva a Otranto. La prima parte della raccolta riflette, a volte con toni enfatici, appesantiti dalla retorica, non privi comunque di fresche immagini di carattere paesistico, la storia di Otranto, l'evento drammatico del quale la cittadina adriatica fu protagonista nel 1480. La seconda parte, senz'altro la più vitale, invece rivisita figure caratteristiche di Otranto nella seconda metà dell'Ottocento, verso la fine del secolo, figure che segnarono i momenti umani più importanti nella formazione etica ed intellettuale del poeta. A ripensarli adesso, quegli anni, a ripensarle adesso, quelle figure, danno l'idea di sbiaditi daggherròtipi nei quali però circola ancora una vita linfatica che suscita la commozione.
C'è in queste composizioni in dialetto, molto spesso, l'immagine sapientemente letteraria, non manca qualche forzatura rappresentata dal termine ricercato, colto, estraneo, in fondo, al contesto linguistico ad inserito, a viva forza, nel tessuto dialettale. L'animus rievocativo però è autentico, sorretto da un amore senza confini, da una riconoscenza illimitata per le creature che in anni ormai lontani concessero al poeta il dono della loro calda umanità. Mediante la notazione, estremamente calzante, di tipo psicologico e di carattere discorsivo quelle figure emergono dal fondo della memoria come a tutto tondo e ricompongono, nell'insieme, un'epoca storica. Intelligentemente pittoresche sono, infine, le notazioni paesaggistiche, dettate da un commosso riecheggiamento della memoria sollecitata che consente di scrutare, pur nel buio della vista, nelle profondità del cuore, dove quelle immagini, di persone e di paese, sono custodite.
Nel maggio del 1957 Antonio Sforza è a Brindisi: nel teatro principale, davanti ad un pubblico vivamente interessato, dice, con toni' epici che le si addicono, La Sagra di Santa Goriza del mai dimenticato Vittorio Locchi (19). E' il quarantesimo della morte del poeta ed il vecchio sodale salentino ne ripropone, di fronte ad un pubblico vivamente interessato, adesso la canzone di guerra.
Va sottolineato, a questo punto, un dato che mette in luce la vitalità dello Sforza, il quale, malgrado la minorazione, non perde occasione per coltivarsi sul filo di uno spirito coraggiosamente giovanile. Ovviamente, facendosi accompagnare, viaggia, frequenta il cinema, si fa leggere gli autori che più lo seducono: D'Annunzio naturalmente, Pascoli, Manzoni, Trilussa, autori di poesie che lette e rilette da qualche amico -durante lunghe e salutari passeggiate lungo la costa - Sforza manda prodigiosamente a memoria In oltre tiene corrispondenza con letterati e con uomini di cultura cui fa conoscere i suoi versi.
Tra il Settembre e l'Ottobre del 1957 Sforza compone La città del pianto (20), una collana di versi -prevale il sonetto - la quale riprende una tematica che al poeta è ormai consueta, cioè Otranto, il valore dei suoi cittadini e l'abbandono cui l'hanno immeritatamente condannata i posteri. Il motivo polemico, comunque, è condotto con pacatezza, senza irosità, senza invettive, con la serenità di chi, guardando le cose d'alto della saggezza che gli anni comportano, sa di impegnarsi per una causa giusta.
Ormai Sforza si è stabilito definitivamente nel Salento, dove allevando antichi affetti familiari ed amicali, circondato da giovani i quali gli voglion bene e ne apprezzano l'intensa umanità, trascorre gli anni di una serena vecchiezza. La città del pianto rappresenta, a sua volta, una delle sezioni di La mia luce (21) un nutritissimo volume di poesie che si giova di una affettuosa prefazione di Cesare d'Angelantonio e della riproduzione di alcune xilografie di Bruno da Osimo, uomini con i quali il poeta è entrato in affettuosa corrispondenza. In questa prefazione il d'Angelantonio dà notizia di una edizione dattilografata, in trenta esemplari elegantemente rilegati, de La mia Luce, realizzata da P.A.M. Speet, olandese, direttore della radio cattolica olandese, al quale lo Sforza aveva inviato il dattiloscritto. Lo Speet era venuto a conoscenza dell'esistenza di questo poeta nel 1955, attraverso la lettura del libro Confidenze d'avvocato, nel quale il d'Angelantonio aveva trasferito le conversazioni tenute nella rubrica radiofonica "Siparietto", della quale lo Sforza era stato assiduo ascoltatore ed attraverso la quale s'era messo in contatto con il d'Angelantonio.
Ed ecco il d'Angelantonio a proposito dello Sforza che "... come immerso nel rapimento estatico di una prodigiosa luce intima, esala la bontà dell'anima in una raccolta di versi... Si tratta di settantadue sonetti in cui sì contiene la parafrasi di tutte le preghiere cristiane... versi semplici, ingenui, quali possono fiorire sulle labbra del popolo; tutti infiammati di nobile e ardentissima fede ... ".
Il motivo della parafrasi è ripreso dal narratore e saggista Nino Salvaneschi, divenuto cieco nel 1924, il quale aveva realizzato, in chiave di meditazione, un commento alle sette opere di misericordia temporale ed alle sette opere di misericordia spirituale della catechesi cattolica (22). Intanto, va sottolineato che questi settantadue sonetti sono condotti con un periodare elegante ed, in alcuni punti, anche sostenuto, nelle cui volute il sentimento religioso procede seguendo il ritmo interiore di una ispirazione genuina sorretta dalla consapevolezza della luce, che è quella dell'anima, dalla quale traggono verità umana i bisogni interiori del poeta. Nella scelta del lessico, nell'impostazione della frase poetica, nella ricerca degli accenti e delle rime, infine, ci si sente il trasporto verso un poetare colto, letterario.
Ma la mia Luce non contiene soltanto i settantadue sonetti celebrati dal d'Angelantonio e che formano la prima parte della raccolta. Le altre sono Piccole luci nella notte, la più nutrita senz'altro, da la città del pianto e versi bilingui, dove appaiono composizioni, non molte in realtà, in dialetto veneto - usato con la stessa disinvoltura e perizia con la quale è usato quello salentino - e in dialetto salentino, anzi, per essere precisi, in dialetto otrantino, che rispetto ad altre aree linguistiche salentine ha proprie peculiarità e propri caratteri.
Piccole luci nella notte - la sezione più nutrita, come s'è detto, de La mia luce - può essere considerata un po' sul piano della traduzione in poesia la "summa" degli effetti domestici, terreni, umani e civili del poeta, il quale è pervenuto, con gli anni, ad una chiarezza dello spirito attraverso la quale può contemplare serenamente tutto ciò che intorno gli si agita e gli produce esperienza. Un'esperienza che passata attraverso il filtro, angoscioso, della cecità diventa, di momento in momento, motivo di crescita spirituale, valore di poesia. Purezza, dunque, dello spirito affaticato, indomito, tuttavia, nella consapevolezza d'aver affrontato e superato il travaglio delle passioni.
Ma Antonio Sforza è già vecchio, stanco, anche se non gravato spiritualmente dal peso della cecità rassegnatamente accettata. Ed accettata con fecondo spirito di cristiana letizia. Ha contatti, sporadici, con la cultura salentina fiorita negli anni del dopoguerra(23).
Infine dall'eremo di Uggiano La Chiesa si riduce in ospedale, a Scorrano, dove, dopo lunga ed estenuante degenza, muore il 19 Gennaio del 1979.


NOTE
1) Vita otrantina in "La Provincia di Lecce", 7 aprile 1907.
2) I periodici salentini degli anni del primo decennio del '900 riportano spesso, in prima pagina ed in cronaca, le risoluzioni adottate dal Consiglio Superiore del LL.PP. circa i progetti e le opere di sistemazione del porto di Otranto. Tali risoluzioni erano rese note dal "Giornale dei Lavori Pubblici" e riprese dai giornali salentini. Questo vale anche per i lavori di bonifica dei Laghi Alimini e della Valle dell'idro. Per il porto di Otranto nel sistema dei porti pugliesi cfr. anche A. PEROTTI, Porti e porticini in "la Provincia di Lecce", 26 Maggio 1907.
3) Cfr. la testimonianza di A. SFORZA nel fascicolo miscellaneo Vittorio Locchi poeta italico. Nel quarantesimo della morte 1917-1957. Firenze, Tipografia G. Cencetti, 1957, p. 44.
4) In A. SFORZA, Mamma. Firenze, Casa Editrice "LA VIA", s.a.
5) Cfr. E. COZZANI, Come visse e come morì Vittorio Locchi. Milano, L'Eroica, 1937, p. 54. In Vittorio Locchi poeta italico cit., a pag. 54, è resa da ARIEL questa testimonianza, a proposito de "Le tre brigate": " ... Della veneziana "Tavolissima" sono viventi Antonio Sforza, il buon Toni di Vittorio, pugliese di Otranto, dolce poeta e dicitore sensitivo, e Pasquale Vasio. Allo Sforza, divenuto sventuratamente cieco è rimasto solamente la gioia di comunicare agli altri i tesori della sua anima veramente nobile e ricca. Ha detto la "Sagra" e continua tutt' ora a recitarla nelle piazze di tutti i paesi pugliesi e lucani dove si fa accompagnare ... ".
6) L. GIUSTINIAN, Strambotti e ballate. A cura di Vittorio Locchi, Lanciano, R. Carabba, Editore, 1915.
7) A. SFORZA, La nascita del tedesco ossia il diavolo creatore (Polimetro) Padova, Stab. Tip. L. Crescini e C., 1915.
8) Cfr. in quest'ottica V.D. Palumbo, La Creazione (variante del c.I del Genesi) - Guglielmo Il redentore Rivelazione. Calimera, V. Taube, Editore, 1914. Una breve recensione di questo componimento in "Corriere Meridionale", 22 Ottobre 1914.
9) Per i giornali di trincea cfr. M. ISNENGHI, Giornali di trincea 1915-1918. Torino Einaudi, 1977. Cfr. Anche A. Monti, Dalle trincee alle retrovie. Bologna, L. Cappelli Editore, 1933. Ovviamente, la problematica storiografica entro la quale è collocata quest'opera è di gran lunga diversa rispetto a quella dell'opera dell' Isnenghi.
10) A. SFORZA, Mamma cit.
11) IL COZZANI NEL SUO LIBRO D AMPIA TESTIMONIANZA DEL CORDOGLIO CHE LA MORTE DEL LOCCHI SUSCITA NEL MONDO INTELLETTUALE ITALIANO. A TALE CORDOGLIO PARTECIPA VIVAMENTE ANCHE LA POETESSA ADA NEGRI.
12) A. SFORZA, Esercizi de lingua otrantina. Brindisi, Tip. Ditta Cav. G. Durano, 1931-Anno IX.
13) L'epigrafe è tratta da Francescantonio D'Amelio. Puesei a lingua leccese de lu Franciscantoni D'Amelio de Lecce. Dedecate a soa ccellenza D. Carlo Ungaro Duca di Montejasi, Calieri de l'ordene Mperiale de Santu Leupordu, e Ntendente de la Pruincia de Terra de Ontrantu, Lecce, 1832, Da la Stamparia de la Ntendenza. Questi versi rappresentano la quarta strofe della Dedeca, p. 3 n.n.
14) Cfr. "II Giornale del Popolo" (Lecce), 23 Gennaio 1932. Nel medesimo anno G. GHEZZI pubblicò sul "La Voce del salento" (Lecce), 5 Ottobre un articolo di critica sulla poesia dello Sforza. Il tono dell'articolo è, comunque, molto enfatico e non reca alcun contributo.
15) A. SFORZA, Lettera aperta in Otrantino pulito a Ezio Savino impampinato stroncatore, in "L'Ordine" (Lecce), 7 Luglio 1933-XI, p. 2 La polemica era stata avviata dal Savino su "Gazzetta del Mezzogiorno".
16) A. SFORZA, Nuvembre in "Il Giornale del Popolo" (Lecce), 10 Novembre 1934.
17) A. SFORZA, Suonate campane... (Le campane de Uscianu). Lecce, Tip. "La modernissima", 1949.
18) A. SFORZA, Utrantu mia. Lecce, Tip. "La Commerciale", 1949.
19) Cfr. Vittorio Locchi poeta italico cit., p. 66
20) A. SFORZA, la città del pianto. Si tratta di un fascicoletto dattiloscritto in carta leggera, dall'aspetto invecchiato. Le composizioni sono in vario metro, ma prevale il sonetto. Alcuni versi recano accanto, tra parentesi, anche alcune varianti, qualcuna delle quali accettata nella scelta contenuta in La mia luce.
21) A. SFORZA, La mia luce. Galatina, Editore mariano, 1964.
22) Cfr. N. SALVANESCHI, Il libro dell'anima... Milano, "Corbaccio", dall'Oglio, Editore, 1941 -XIX.
23) Pubblica Cala la sira (poesia in dialetto leccese) in "La Zagaglia" a.V.N. 18 - Giugno 1963, pp. 220-221; A nnu canarinu cecu in "Almanacco salentino 1968-69". Editrice Nuova Apulia 1968, a cura di Mario Congedo e Vittorio E. Zacchino.


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