§ DIBATTITI

I CARATTERI DELLA QUESTIONE MERIDIONALE




Gabriele Pescatore



I) - Gli inizi della questione meridionale risalgono ad oltre un secolo prima dell'unificazione dello Stato italiano. Assumendo come inizio del moderno sviluppo l'avvento al trono delle Due Sicilie di Carlo III di Borbone (1734), si può affermare che il Mezzogiorno, nei 125 anni che hanno preceduto l'unità, abbia avuto un'evoluzione istituzionale, economica e politica simile a quella delle altre regioni d'Italia. La liquidazione dei residui feudali e dei benefici ecclesiastici e corporativi e lo sviluppo della produzione agricola sulla base dei nuovi rapporti di proprietà borghese e dei meccanismi di mercato, hanno progredito nel Mezzogiorno, come nel Centro e nel Nord. Analogamente, il Mezzogiorno ha preso parte - come, e talvolta più delle altre regioni - ai processi del rinnovamento politico e sociale del Paese, sia nel '700, in relazione al movimento illuministico e riformatore, sia nelle vicende legate alla rivoluzione francese, al dominio napoleonico e all'instaurazione di nuovi regimi, sia infine nei moti liberali del Risorgimento.
L'unificazione, con l'annessione al Regno d'Italia, oltre ai gravi problemi di ordine psicologico determinati dall'introduzione dell'ordinamento piemontese nelle province meridionali, indusse gravi conseguenze di ordine economico con l'improvvisa apertura di un mercato unico nazionale e l'introduzione del regime fiscale di Torino. L'abbattimento delle barriere protezionistiche, che avevano separato sino col 1860 il Mezzogiorno dalle altre regioni, stroncò quasi per intero il complesso industriale sorto nell'ultimo periodo borbonico, determinando in questo settore una situazione dalla quale il Mezzogiorno a stento si solleverà solo dopo molti decenni. Perfino la produzione agricola, che dall'allargamento del mercato (in quel tempo di prezzi elevati) avrebbe dovuto trarre immediato vantaggio, ne fu per qualche tempo turbata.
Il regime fiscale piemontese era divenuto particolarmente pesante in conseguenza delle guerre di indipendenza, dal accresciuto apparato burocratico e della costosa politica ferroviaria (la cosiddetta "cura di ferro") voluta da Cavour con l'intento di accelerare l'unità economica e politica del Paese. L'immediata applicazione di quel regime fu risentita in modo particolarmente grave nelle province meridionali, per il raffronto con il regime fiscale relativamente mite della finanza borbonica e per l'alta incidenza dell'imposta fondiaria e di quelle indirette sui consumi popolari (gravissima fra tutte l'imposta sul "macinato"), che colpivano redditi e consumi tipici del Mezzogiorno e meno si prestavano all'evasione (1).
Può dunque affermarsi che il problema del Mezzogiorno trasse le sue ragioni da un complesso di elementi culturali ed economici, cioé storici, stratificatisi in molti secoli, raggiunse li suo punto critico nel periodo immediatamente successivo all'unificazione dello Stato e formò oggetto di attente analisi, naturalmente ispirate dalle valutazioni politiche di coloro che le formularono (2). La conclusione di gran parte di esse può sintetizzarsi nella fiducia nel libero svolgersi delle forze del sistema economico, nel quadro di uno Stato vigile, anche se non determinante; mentre da talune, dissolto il mito del "buon governo", la soluzione del problema fu vista attraverso la rottura dell'equilibrio per il contributo determinante della borghesia umanistica o per l'unione degli operai del Nord con i contadini del Sud.
La rivalutazione della questione, fatta successivamente alle due guerre mondiali, l'ha posta nella luce sua propria, riportandola alle gravi deficienze di strutture dell'economia e della società meridionale: raffrontato con quello del Centro-Nord del Paese, il sistema economico del Mezzogiorno apparve caratterizzato dalla scarsa incidenza, nella formazione del reddito, delle attività industriali; dalle peculiarità fisiche e strutturali dell'agricoltura, raramente inquadrata in forme aziendali autosufficienti, nonché dall'eccesso della popolazione, con la conseguenza di un cronico stato di disoccupazione e sottoccupazione: tutto ciò causa ed effetto anche dell'inadeguatezza e talora della totale mancanza delle cosiddette "economie esterne" o infrastrutture civili e umane (scuole, strade, acquedotti, ospedali, elettrificazioni, amministratori pubblici e privati; dirigenti e personale professionalmente istruito e tecnicamente qualificato) che costituiscono la base, che sostiene e qualifica una determinata società.
Tale situazione non poteva non riflettersi sulla fisionomia civico-sociale delle comunità meridionali, caratterizzate - come fu acutamente rilevato - da una grande disgregazione sociale, derivante dal contrasto tra una borghesia terriera sempre più tendente a distaccarsi dalla terra, alla ricerca di altre occupazioni di sostegno, e la grande massa dei contadini, sprovvisti o inadeguatamente provvisti di terra: non fu quindi possibile realizzare la coesione tra questi gruppi, anche per la mancanza di "corpi intermedi" che fungessero da coagulo delle due componenti. Ne derivò debolezza di struttura e di qualificazione negli Enti locali, nonché difetto di formazione, oltre che di spirito comunitario, di una classe dirigente che potesse assumere il ruolo di protagonista della rottura di quell'ambiente chiuso ed adeguarsi all'evoluzione della restante parte del Paese (3). Tutto ciò rese sempre più acuto il contrasto con la struttura economica e sociale delle regioni del Centro-Nord, che mostravano una visibile tendenza al continuo sviluppo, attraverso l'industrializzazione, il miglioramento delle colture agricole, l'incremento dei traffici, l'aumento del benessere e del tenore di vita.
Il Sud, all'opposto, ristagnava in uno stato di depressione generale, che anzi, con il passare degli anni, andava sempre più accentuandosi. Le scarse industrie preesistenti andavano scomparendo sotto la pressione della concorrenza di quelle settentrionali; l'agricoltura si impoveriva ed era travagliata da crisi sempre più frequenti; i commerci languivano; la disoccupazione si estendeva, alimentando un flusso migratorio sempre più rilevante; le condizioni di vita, non soltanto economica ma anche sociale e civile, andavano via via deteriorandosi.
Così si era venuta determinando e sempre più consolidando quella struttura "dualistica" dell'economia del Paese, caratterizzata dall'esistenza di due aree con caratteristiche, ritmi di produzione e redditi del tutto diversi: con ovvii riflessi di ordine civile, economico, sociale e culturale. Una società può essere definita "economicamente unificata" quando le forze di lavoro, che danno o possono dare la stessa prestazione, sono prontamente utilizzate nel compito e con il saggio di retribuzione che le singole capacità professionali comportano (4).
Il nostro Paese costituisce, ancora oggi (anche e soprattutto dopo le gravi vicende determinatesi a partire dal 1973, a causa della crisi petrolifera e all'estensione a tutto il territorio dei problemi dell'occupazione), un tipico caso di economia "non unificata", in quanto sussiste tuttora una forza di lavoro che non trova occupazione adeguata alle proprie capacità.
Il rilevante divario economico esistente tra Nord e Sud apparve dunque come uno dei più gravi problemi del nuovo Stato unitario; la storia della legislazione di tale Stato, riferita al Mezzogiorno, si identifica con i tentativi posti in essere con specifici provvedimenti legislativi diretti a rimuovere le condizioni di arretratezza dell'area meridionale.

II) - Superate le iniziali tendenze volte all'unificazione della legislazione in tutto il territorio dello Stato, col progressivo attenuarsi delle remore poste da quelle valutazioni globali, comparvero nella legislazione le prime disposizioni che - nell'ambito delle opere previste dalla legge sui lavori pubblici 20 marzo 1865, numero 2248, ali. F. - istituivano speciali provvidenze per il Mezzogiorno nel modo di esecuzione di alcune opere e nella previsione delle relative spese. Si trattava peraltro dell'inizio di una diversificazione di trattamento finanziario in materia di opere pubbliche, che non incideva sulla struttura del sistema economico, il quale continuava ad operare secondo i suoi autonomi impulsi.
Le misure prese in questa prima fase (fase che si prolungherà per circa un quarantennio) tendono all'obiettivo principale della politica d'intervento, quello di unificare il quadro nel quale l'imprenditoria delle diverse regioni poteva operare. Più precisamente, quella politica si propose di unificare: a) le pubbliche istituzioni operanti nel campo economico; b) i modi e le condizioni dell'azione svolta dalle istituzioni stesse, nonché c) le strutture fondamentali della proprietà terriera. Tale obiettivo è stato definito come obiettivo di "unificazione normativa".
Caratteristica di tale unificazione fu il suo settorialismo, in quanto essa si riferì a talune scelte, in prevalenza connesse a quella dei lavori pubblici, stabilendo, nell'ambito della disciplina generale posta dalla legge 20 marzo 1865, speciali provvidenze per il Mezzogiorno (cfr. R.D. 12 ottobre 1865, numero 2530; R.D. 15 agosto 1866, numero 3442; legge 27 giugno 1869, numero 5147), ovvero ebbe di mira il miglioramento della situazione di alcune realtà regionali, considerate meritevoli di particolare cura (così la legge 2 agosto 1897, numero 382 per la Sardegna, con finalità prevalentemente agricole; la legge 31 marzo 1904, numero 140, per la Basilicata, che segna una maggiore estensione e diversificazione degli obiettivi; la legge 25 giugno 1906, numero 255, per la Calabria, e quella 9 luglio 1908, numero 445, a favore della Basilicata e della Calabria).

III) - Peraltro, l'azione di "unificazione normativa" non vale ad avvicinare l'obiettivo generale dell'unificazione; importanti elementi, del tutto nuovi, devono essere introdotti nell'azione intrapresa immediatamente dopo l'unificazione e la natura di tali elementi sta ad indicare che è fenomeno superabile solo mediante provvedimenti unificatori di istituzioni, di politiche e di strutture proprietarie, cioé come effetto della già ricordata politica di unificazione normativa; per la prima volta si ha qualche misura ispirata da intenti di propulsione economica, cioé non sorretta soltanto dalla esigenza di livellare situazioni di partenza, ma anche dalla finalità di creare situazioni di favore nel Mezzogiorno nei confronti delle altre regioni d'Italia (5).
Siffatta concezione, che emergeva dalle impostazioni più illuminate, venne a trovarsi in una difficile posizione tra la "scelta nordista e industrialista" di Giolitti, la cecità e ostilità delle Deputazioni meridionali nel parlamento e l'impossibilità di un contributo efficace delle forze di lavoro meridionali (ancora prive del diritto di voto e incapaci di dar vita a un movimento paragonabile a quello del Nord). Essa fu costretta a muoversi sul piano intellettuale dell'analisi critica e delle azioni di minoranza; non valse a mettere definitivamente in luce, oltre che le ragioni del divario tra Nord e Sud, le contraddizioni per le intrinseche debolezze della costruzione unitaria. Per questo la sua influenza si fece sentire in seguito in modo duraturo nella formazione della coscienza storica e politica della nazione. Ispirandosi a una concezione austera dello Stato e ad una visione rigorosamente unitaria dei problemi, essa considerò la questione meridionale esclusivamente nel quadro e nei termini di una corretta condotta della politica nazionale (6).
Nella corrente di idee, che suoi definirsi come "meridionalismo", e che si incentra sulla figura di Giustino Fortunato, si profilano due tendenze: quella di Salvemini, che corre fino a Guido Dorso e ad Antonio Gramsci, che ipotizza il radicale mutamento dei rapporti di classe nella società meridionale e italiana, attraverso la rottura del sistema; quella che ripone la speranza nello sviluppo guidato dall'intervento pubblico e dalla programmazione e accetta, pur volendo modificarla, la realtà sociale e politica, qual'essa è: Nitti, Amendola, Sturzo. L'incisiva frase di Giovanni Amendola del 1919 riassume questo indirizzo: "Occorre che lo Stato si assuma tutto intero il peso e il merito dell'iniziativa per trasformare razionalmente il Mezzogiorno" (7).
L'elemento comune, dunque, di queste tendenze - che è il carattere unitario, nazionale, del problema del Mezzogiorno - fu felicemente riassunto nelle seguenti proposizioni:
1) l'aderenza delle misure di intervento alla situazione e all'evoluzione degli elementi che la caratterizzano;
2) la considerazione del problema del Mezzogiorno nell'ambito dei temi delle aree depresse;
3) il riferimento costante del problema specifico al quadro generale e unitario del Paese: lo sviluppo del Mezzogiorno è da considerare come condizione per lo sviluppo dell'intera economia nazionale;
4) la necessità di adeguamento del disegno al mutamento delle vicende generali e il costante controllo del "costo" di tali generali vicende sull'azione meridionalistica (8).
Nel secondo dopoguerra i primi interventi legislativi per il Mezzogiorno non si ispirarono a tale concezione, poiché furono inizialmente caratterizzati dalla finalità di soccorrere situazioni di emergenza, con conseguente carattere di provvisorietà (9). Si tratta di provvedimenti in gran parte determinati da necessità contingenti, per rimediare alle più elementari insufficienze amministrative, tecniche, finanziarie, civili ed organizzative (ad esempio, la totale carenza degli organi del credito industriale e la penuria di capitali, con i conseguenti altissimi saggi di interesse).
Soltanto nel 1950 il problema fu visto con carattere di organicità e fu elaborata la legge che impegnava lo Stato italiano ad affrontare con ampia visione la "questione meridionale", con un primo tentativo di rottura dello schema tradizionale dell'intervento rivolto frammentariamente ad ovviare alle più palesi insufficienze nel campo delle opere pubbliche. Questa volta si affrontavano le necessità del Mezzogiorno come un tutto, come una vasta regione tutta bisognosa di essere reimmessa nel circuito economico del Paese. Si può dire che nel 1950 si prese piena coscienza del carattere "dualistico" dell'economia italiana, per cui oltre un terzo del Paese ristagnava in forme di economia arretrata, mentre le regioni più vicine ai centri, dai quali nel corso del secolo XIX si era irradiato lo sviluppo economico europeo, continuavano a progredire (10).
Il governo, presieduto da De Gasperi, presentava infatti il 17 marzo 1950 un disegno di legge (numero 1170) nella cui relazione si affermava: "L'esigenza di creare le condizioni necessarie perché l'annosa questione meridionale trovi modo di avviarsi verso una soluzione definitiva, suscettibile di ulteriori naturali sviluppi, comporta un'impostazione d'insieme che deve derivare da un impegno globale pluriennale dello Stato, capace di consentire più ampio respiro nella programmazione delle opere e nel coordinamento dei singoli progetti. Pertanto il presente disegno di legge prevede che siano eseguite opere per un importo complessivo di 1.000 miliardi. Solo attraverso un impegno preciso e determinato nel suo ammontare può darsi vita ad un efficiente e coordinato programma di opere, evitando una frammentaria programmazione, inadeguata a risolvere così gravi problemi, e una discontinuità di realizzazione".
Nella stessa relazione, dopo essersi posto in rilievo che per l'effettiva disponibilità di così ingente somma sarebbe occorso tanto tempo da rendere l'esecuzione del programma discontinua, irrazionale e dispendiosa, si rilevava la necessità di un meccanismo in grado di integrare le disponibilità di bilancio attingendo al mercato del risparmio e si precisava: "La necessità di dar vita ad un simile meccanismo ha concorso, insieme con altre ragioni, a far ritenere indispensabile la costituzione di un Ente apposito che presiedesse allo svolgimento del programma per unicità e costanza di direttive e con l'elasticità necessaria per adottare la programmazione e l'esecuzione delle opere, con adeguata sollecitudine, alle mutevoli esigenze economiche e sociali". E più oltre: "E' appena il caso di rilevare che il nuovo Ente di diritto pubblico, cui viene attribuita la denominazione di Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell'Italia Meridionale e, più brevemente, di Cassa per il Mezzogiorno, pur nella sua autonomia di struttura e di funzione, opererà con riguardo alla sostanziale disciplina legislativa nei vari settori nei quali essa svolgerà i suoi programmi" (11).
Se si riflette al dibattito parlamentare, che fu occasionato dalla discussione del disegno di legge De Gasperi, non si può non rimanere impressionati dalla novità con cui maggioranza e opposizione inserirono il tema nel quadro politico ed economico generale: dalle valutazioni del provvedimento fatte da De Gasperi, dalle relazioni degli onn. Jervolino e Scoca, dall'intervento dell'on. Lucifredi (inquadramento della legge sulla Cassa nel tema mondiale delle aree depresse), alle riserve dell'on. De Martino, intese a sottolineare l'esigenza del cambiamento della struttura dell'economia e dei rapporti sociali delle classi, all'opposizione degli onn. Mario Alicata e Giorgio Amendola, l'intervento del quale collegò il problema della politica delle aree depresse con quello dell'espansione del capitalismo (12).
La visione politica del tema superò l'impostazione economica, per lo meno sotto un duplice aspetto: quello della visione istituzionale dello strumento fondamentale di attuazione della politica meridionalistica, capace di concepire in termini razionali la spesa pubblica e di attuarla rapidamente; quello della concezione più equilibrata e più completa dell'intervento con riguardo alle infrastrutture e all'agricoltura, in una visione che trova li suo punto di forza nei "complessi organici".
Vero è che, spesso, nella pratica applicazione dei piani di intervento, così lucidamente visti, la direttiva non è stata sempre coerente: è certo però che essa assorbì, in lineea di massima nella fase della prima attuazione della legge, l'indicazione migliore delle proposizioni del meridionalismo attivo e vi dette un largo respiro.


NOTE
1) Questa sintesi della situazione pre-e-post-unitaria del Mezzogiorno è tratta dalla fondamentale voce di M. Rossi Doria, La questione meridionale, in "Enc. Agr. lt.", vol. IX.
2) Cfr. M. Rossi Doria, voce Mezzogiorno (Questione del), in "Enc. lt.", Appendice III, 1949-1960, pagg. 99-100. Per una disamina storica della "questione", cfr. Salvadori, Il mito del buongoverno, Torino, 1960, e le raccolte antologiche di Caizzi, Antologia della questione meridionale, Milano, 1955, e di Villari, Il Sud nella storia d'Italia, Bari, 1978.
3) Rossi Doria, op. ult. cit., pag. 101.
4) Saraceno, La mancata unificazione economica italiana a cento anni dall'unificazione politica, (Biblioteca di Economia e Storia, VI, 1961, pagg. 692 e segg.). Per i riflessi europeistici del dualismo, all'attuale situazione della CEE allargata, cfr. le riflessioni del Ministro per il Mezzogiorno, Capria, Relazione alla "Giornata del Mezzogiorno", Bari, 20 settembre 1980, in "Informazioni Svimez", 1980.
5) Saraceno, op. cit., pag. 696, con riferimento alla legislazione speciale regionale per la Sardegna, la Sicilia e la Calabria.
6) Rossi Doria, op. cit.
7) Per ampie, approfondite valutazioni di questi orientamenti, cfr. ancora Rossi Doria, op. cit. Rilevante la posizione di Galasso, Vecchi e nuovi orientamenti del pensiero meridionalistico, in "Nord e Sud nella società e nell'economia italiana d'oggi", Torino, 1968, pag. 85.
8) Saraceno, op. cit.
9) Cfr. ampie indicazioni in Pescatore, Mezzogiorno (Provvedimenti per), in Noviss. Dig. lt., vol. X, Torino, 1964, pagg. 653, 657 e segg.
10) Cfr. Di Nardi, I provvedimenti per il Mezzogiorno 1950-1960, in " Economia e Storia", 1960, pagg. 489 e segg.; Carabba, Introduzione a "Mezzogiorno e programmazione", nella collana Morandi-Svimez, Milano, 1980, pagg. 2 e segg.
11) Sull'origine della Cassa per il Mezzogiorno e sul contributo di pensiero e di attuazione dati da Campilli, Giordano, Menichella e Saraceno, cfr. Barucci, Introduzione a Il meridionalismo dopo la ricostruzione di Saraceno, Milano, 1974; Cafiero, La nascita della "Cassa", in "Studi in onore di Saraceno", Milano, 1975, pagg. 177 e segg.; Carabba, op. cit.
12) Il contenuto del dibattito parlamentare può leggersi in Il Mezzogiorno nel Parlamento repubblicano (1948-1972), collana Rodolfo Morandi-Svimez, a cura di P. Bini, I, Milano, 1976, pagg. 329 e segg. Per una valutazione delle posizioni parlamentari, cfr. Annesi, Mezzogiorno (legislazione per il), in Enc. Dir., vol. XXVI, Milano, 1976, pagg. 221 e 222.


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