I
Le vecchie scatole
conservano le cose ma anche le disperdono. Così, in questa
mia vecchia scatola - conservata con cura in cantina finché
l'umidità non avrà partita vinta sulle buone fibre della
carta intestata di Einaudi - così qui dentro c'è tutto
una storia incredibile, di cui protagonista è "un ragazzo"
"affetto da cretinismo" e "un po' nazista", cioè
io sottoscritto e, comprimarî, due personaggi essenziali del
dopoguerra letterario. (C'è una cantina - quella della casa
editrice Einaudi - dove carteggi come questo si moltiplicano per cento
e centocinquanta comprendendo i più bei - o brutti - nomi della
letteratura italiana di oggi. Potenti nomi: riescono a tener chiusa
quella cantina - e inedito l'epistolario di Vittorini per gli anni
Cinquanta -con la sola minaccia delle loro "riserve". Personalmente
penso invece che sia utile tirar fuori quelle carte, non certo per
mostrare quanto eravamo bravi - se lo eravamo - ma per illustrare
come si costruiva una società letteraria sulle rovine del fascismo
e col materiale umano ereditato da lui. Fine della parentesi).
Tiriamo fuori qualche lettera, dunque, di questo epistolario per aggiungere
altri tasselli al mosaico iniziato con "Vocazione agit prop"
e arricchito col testo di "memoria" (o "testimonianza")
su Vittorini e il vittorinismo che appare su questa rivista e del
quale le lettere che ora sciorino sono in effetti una documentazione
fin ora scampata ai topi della mia cantina. Il primo documento che
i topi hanno preservato è un espresso datato 5 febbraio '53
e indirizzato da Italo Calvino (che lavorava per Einaudi) a Elio Vittorini,
responsabile dei "Gettoni" e abitante a Milano. la lettera
- una trentina di righe - riguarda una decina di (allora) giovani
autori candidati a pubblicare nei "Gettoni". Dice a un certo
momento il Calvino:
"E il De Jaco? Me ne ha scritto Natalia che gli ha parlato. Gli
facciamo fare questo libretto come vuole lui? Perché dice che
i racconti pugliesi non vuole mischiarli ai napoletani; vuole fare
un libro tutto pugliese".
Per la chiarezza aggiungerò che Natalia è Natalia Ginzburg
che ero andato a trovare a Roma chiedendole aiuto per una vicenda
che non riuscivo più a capire. l'equivoco era che io non ritenevo
di aver fornito dei racconti da selezionare e mettere assieme ma:
1) un mosaico di racconti su Napoli che dovevano esprimere la mia
idea della "città napoletana" e dunque avere una
unità organica che non permetteva di mischiarli diversamente
da come io li avevo collocati dividendoli in tre settori con tre corsivi
(sulla bellezza di Napoli, sulla disoccupazione in essa e su un episodio
particolare: l'assalto alla federazione comunista il giorno della
proclamazione della repubblica); 2) un libro di racconti pugliesi,
anzi salentini, che poi è apparso qualche anno fa, nuovo, ma
realizzando una vecchissima idea.
E Vittorini cosa ne pensava? La sua risposta a Calvino del 7 febbraio
1953 è molto chiara:
"Per il De Jaco comincio a scocciarmi. Questo ragazzo fa tutto
alle mie spalle, mi tiene fuori, e vuole il libro quasi a mio dispetto
come meglio crede lui. Ma pubblicare i raccontini che chiamo scritto
sui muri a me farebbe l'impressione di pubblicare Giorgio Piovano,
di cui ricorderai il Poema di noi che fece andare in bestia Pavese.
Ne riparleremo. Per ora c'è il Napoli della Ortese che mi consente
di infischiarmi del suo. E come! Ma non dico, si capisce, che vada
al diavolo. Dico solo riparliamone... ".
E dovettero davvero riparlarne se, come documenta l'epistolario, il
25/2 io "mi spiegavo" con Vittorini e un mese dopo, il 30
marzo, Vittorini mi rispondeva su posizioni più possibiliste.
Ecco la mia lettera:
"Caro Signor Vittorini, Calvino e la signora Ginzburg, mi hanno
scritto (e ne ho avuto notizia anche attraverso una lettera di Mario
Schettini) che lei ha letto il mio "Città napoletana"
e sta esaminando la possibilità di pubblicare fra i "Gettoni"
una parte di quei racconti.
Veramente io vedevo la "città" come un tutto unito
che desse della Napoli degli anni '46-'50 una "versione"
che io ritengo la più giusta; solo questo giustifica i tre
corsivi e anche alcuni dei racconti che sono non più di brevi
note. La stessa disposizione di essi intorno a "Passeggiata panoramica",
"Sant'Anna" (che ho mandato in ritardo sul resto ma che
spero le abbiano fatto pervenire) e "Testa di settembre"
doveva avere un valore in questo senso.
A quanto mi hanno scritto però il suo giudizio sulla raccolta
è solo parzialmente positivo e una decisione pro o contro la
pubblicazione non è stata ancora presa. lo le sarei molto grato
- giacché non mi è possibile venire a trovarla a Milano
- se volesse scrivermi anche brevemente esprimendomi le sue critiche;
ben lieto poi, naturalmente, se anche solo una parte dei racconti
potranno trovar posto nella collana che lei dirige.
Nella speranza di ricevere presto una sua lettera la saluto, Suo Aldo
De Jaco"
E la risposta di Vittorini:
"Caro De Jaco, è già dalla scorsa estate ch'io
vorrei pubblicare un suo volume. La "Passeggiata panoramica"
e alcuni altri scritti del fascicolo mi piacciono moltissimo e mi
persuadono completamente. Due o tre cose invece mi persuadono meno,
come ancora privi del tocco speciale che mi sembra il suo, e che ogni
scrittore non può non avere, ciascuno il suo, per "arricchire"
il mondo. Infine alcuni brevi scritti lirico-politici non mi piacciono
niente. Ma lei è padrone di non cambiare l'organismo del suo
libro. lo posso accettare che il libro sia come lei lo vuole. Solo
che vorrei esser libero di dire, nella presentazione editoriale, che
non condivido né politicamente né letterariamente certe
sue ostentazioni di fede. Gliene scrivo solo ora, e solo ora le rispondo,
perché prima ho voluto parlarne con Einaudi, Calvino e gli
altri. Loro sono d'accordo. Mi dica se è d'accordo anche lei,
e il libro si farò, alla prossima ripresa autunnale.
Con i migliori saluti. Suo Elio Vittorini"
Vittoria del De Jaco, dunque (cioè mia)? Sinceramente non so.
lo difendevo dei "raccontini" che secondo me erano i tasselli
rossi sul mosaico napoletano che intendevo mostrare al lettore. Come
dimenticare però che l'onorevole comunista Giorgio Napolitano,
qualche mese dopo, recensendo il libro attaccava proprio quei raccontini?
Saranno stati dei tasselli rossi ma non erano troppo in linea col
comandamenti del "realismo socialista".
In quanto a Vittorini, c'è una lettera - sua a Natalia Ginzburg
- che ne esprime compiutamente il pensiero. E' senza data ma facilmente
collocabile intorno al marzo '53. Scrive Vittorini:
"Cara Natalia, sì, i racconti del De Jaco hanno indubbiamente
un fascino. Per me forse un po' meno che per te in quanto vittorineggia.
E in ogni modo una buona metà dei racconti brevi mi riescono
svenevoli. Quello che pubblicherei senz'altro e con tutti gli onori
è solo Passeggiata panoramica. Per il resto sceglierei o aspetterei
che il ragazzo maturi e abbia dell'altro e posso mettere insieme un
libro folto. Sopprimerei i corsivi: che rasentano il cretinismo. E
sopprimerei i racconti dove fa del sentimentalismo di partito, dell'infantilismo
di partito con le ruzze aggraziate intorno a nomi o a simboli come
facevano i poeti di Norimberga intorno alla croce uncinato o al nome
di Vessel e Hitler. Di questi racconti in uniforme all'acquarello
(con il "nostro partito" detto alla maniera dei bambini
per far poetica) salverei semmai quello intitolato Un comizio. Ma
preferirei davvero non metterne nessuno. La mia proposta è
di pubblicare nei "Gettoni" solo Passeggiata panoramica
anche per amore dell'unità; e di lasciarvi il resto che mi
stucca un po' per un volume della P.B.S.L. o, con altro che lo rimpolpi,
dei "Coralli". Ciao. Elio".
Dunque è tutto pubblicabile - anche i racconti che all'epoca
erano "in mente dei" (ma che poi puntualmente sono stati
scritti e pubblicati da Vittorini per Mondadori) - meno quei raccontini
politici che esaltavano troppo i comunisti, (ma che non piacevano
neanche ai leaders politico-culturali dei comunisti i quali avrebbero
voluto meno stracciati i foro eroi) e che in definitiva erano - per
Vittorini - nazisteggianti*. La vicenda di "Città napoletana"
- diventata poi "Le domeniche di Napoli" - non èfinita.
Vittorini vuoi pubblicare, ora, il mio testo senza correzione alcuna,
ma scrive una assai pepata presentazione per il risvolto di copertina,
io ... discuto.
Ecco come ne riferisce una lettera di Calvino a Vittorini:
"Caro Elio, ti accludo una lettera di De Jaco al quale avevamo
mandato il testo del tuo risvolto.
Come lui, noi non possiamo che accettare quello che hai scritto. Però
siamo del parere che usare un tono di scherno e quasi di insulto verso
una persona che ha idee diverse dalle tue (parlando di "riverenze",
di "inclinazione alla letteratura aulica") non torno a tuo
onore. Né le lodi che gli fai poi in seguito possono bilanciare
l'impressione scostante delle prime righe. Comunque tu firmi e sei
padrone di dire quei che vuoi".
E questa è la risposta di Vittorini:
"Caro Calvino, tolgo di mezzo quei pittoresco che offende il
De Jaco. Eccoti la nuova versione, qui allegata. E bado, questa annulla
la precedente: io non ti lascio libero di scegliere tra le due. Semmai,
a nuove obiezioni, vorrei correggere su quest'ultima. Ma è
curioso. lo credevo d'esser stato troppo reticente, o quasi ambiguo
addirittura. Saluti.
Aff.mo Elio"
Per mia parte scrivo a Vittorini la seguente lettera di adesione alla
sua proposta e ... incomincio a discutere il testo di presentazione
vittoriniano:
"Caro Vittorini, ho ricevuto con molto piacere la sua lettera.
Naturalmente la cosa migliore per me è che "Città
napoletana" si pubblichi così come è, e la ringrazio
della possibilità che lei mi dà di stampare i miei racconti
nella sua collana sebbene esprima su di essi un giudizio parzialmente
positivo. E' più che giusto d'altra parte che nella presentazione
editoriale lei approfondisca come crede i temi del suo dissenso. Sono
dunque d'accordo con la sua proposta, mi dispiace solo che si debba
rimandare la pubblicazione fino all'autunno, probabilmente però
ciò è ormai indispensabile. Restando dunque in attesa
di sue notizie la saluto cordialmente Aldo De Jaco"
Il libro alla fine uscì in agosto (in agosto!). Una libreria
napoletana assai accreditata ci fece una vetrina ed io ne fui felice.
Mi immaginavo l'Italia -e soprattutto l'Italia povera e vogliosa di
cambiamento - tutta lì, intenta a leggere i miei racconti come
un appello alla lotta comune. Invece non successe niente del tutto.
I miei amici politici mi tolsero la parola e, incontrandomi, facevano
conto di non conoscermi, fino a quando successero due fatti:
1) il "Mondo" pubblicò una recensione assai favorevole
di Arnaldo Bocelli;
2) vinsi il premio "Salento" opera prima.
Ma torniamo all'epistolario. il libro era uscito dunque. Leggiamone
il minaccioso risvolto:
"Non mi piace il lirismo di partito. Per qualunque emblema venga
fatto è sempre la stesso solfa. E io non apprezzo gli "evviva"
coi quali l'autore di questo libro ha bisogno di salutare ogni tanto
la bandiera della propria fede. Tuttavia mi sembra che vi sia abbastanza
novità nelle sue pagine per passar sopra all'inconveniente.
Si legga "Passeggiata panoramica". E' una nenia di stupendo
freschezza che racconta di Napoli, e della sua folla più povera,
come nessuno ne avesse mai parlato. Non c'è più altro
del libro che soddisfi, al confronto: o perché meno vivido
e immediato, meno pungente d'impressioni; o perché, nel tentativo
di approfondire, finisce che risbuca fuori sul vecchio terreno del
naturalismo napoletano. Ma un filo che corre da scritto a scritto
porto ovunque un po' della brezza di "Passeggiata panoramica",
e così il libro si giustifica, si rende poeticamente accettabile,
anche nel suo insieme".
Povero perseverante "ragazzo"! Avuto - o forse ancora no
- il libro nelle mani egli scrive all'amico Calvino (e così
la storia finisce, o meglio questo capitolo della storia letteraria
di un piccolo, vittorineggiante narratore):
"Caro Calvino, sono in campagna, ma so che il libro è
nelle vetrine del librai. Vittorini mi ha scritto a proposito della
mia ultima lettera a te e gli rispondo ora stesso.
Quello che c'è di grottesco in tutto l'affare è che
io, che agli occhi di Vittorini posso - mi pare - per una specie di
"poeta del regime" - sono preoccupato proprio e solo del
giudizio dei miei compagni, di non essere riuscito a spiegare bene
il "nuovo" di Napoli, di aver sbagliato in certe cose (i
corsivi, ecc.) ma non nel senso che dice V.
Grazie per i soldi. Non ti preoccupare, tengo conto del tuo giudizio,
del resto non ho mai pensato di far soldi scrivendo libri. Però
... le 50. 000 lire mi sono servite.
Buone ferie.
Quando avrò finito il racconto che sto scrivendo te lo manderò".
II
Restiamo ancora
nella scatola delle vecchie lettere. Gli anni '40 e anche buona parte
degli anni '50 sono alle nostre spalle, seppelliti. Siamo a quel tragico
anno 1956 che denunzia tutti gli asservimenti della nostra giovinezza
e per parte di quelli stessi che avevamo servito (col nostro cervello
se non con le nostre mani).
Calvino mi scrisse ... Ecco come la racconto in "Vocazione agit-prop":
"Calvino mi scrisse che lasciava il partito, gli risposi che
lo capivo ma che per me - per noi del Mezzogiorno - le cose non si
ponevano casi, il partito vi aveva una funzione e noi con lui. Così
la pensavo, con angosciata sincerità, ma bisogna anche mettere
sul piatto della bilancia che un rivoluzionario professionale deve
avere sempre un gran coraggio nella vita ma soprattutto deve averlo
quando decide di lasciare la sua professione. Come farà a buttarsi
giù dal carro della rivoluzione? E dove andrà a cadere?
Chi gli darà da mangiare, con chi si coricherà la sera?
Chi gli sorriderò? La rivoluzione passa dappertutto, è
l'aria che respiri, non puoi farne senza (questi erano pensieri di
allora che oggi è difficile anche formulare).
La giovinezza comunque era finita, non restava che ripensarci su,
incominciare a spidocchiarsi al sole, pensionato della tua forse immaginaria
rivoluzione, piccolo travet. Non restava che ripensarci e magari scriverci
sopra un racconto. Il che ho fatto quando, ormai non utile e non collocabile
a Napoli (la città più che il partito è crudele,
sta aggrappata alle sue poche possibilità di sopravvivenza
e non può concederti nulla) sono stato spinto fino a Roma,
in questo campo di Agramante disteso sotto le mura del Ministeri,
del Vaticano e del palazzo rosso di via delle Botteghe Oscure".
Sinceramente non so se avevo o no ragione, se la mia teoria non fosse
che la copertura di un fatto pratico: che non avrei saputo dove andare,
cosa fare, come dar da mangiare ai miei figli. Ma no, le cose erano
più complicate: facevamo a gara a chi cambiava di più,
io e il mio partito. Ciò che era impensabile ieri oggi era
senso comune e Togliatti faceva le capriole (in quanto a dialettica)
per essere sempre primo fra tutti, ieri con Stalin oggi contro (e
come la pensava davvero era affar suo). Avevo detto di no a Calvino
ma cosa dicevo a me stesso? Beh, avrà pur avuto un senso se
da "apparatniki" mi ero trasformato, col pieno accordo dei
miei "dirigenti" cui non pareva vero, in giornalista di
Paese Sera, dunque "forse" comunista e in ogni caso un comunista
senza responsabilità, né impegni, né fedi particolari.
Ma ormai la mia attività fondamentale, anche se non ci guadagnavo
una lira, era di scrivere e testimoniare così ... Già,
avevo sempre il vizio di voler testimoniare. E per questo scrivevo.
Intanto i miei unici veri amici - sì, compreso quello che mi
accusava di nazismo - riprendevano a occuparsi di me. Il 24 marzo
'56 Calvino scriveva a Vittorini:
"Ho qui un De Jaco, ma già di qualche anno fa, pare. Sulla
linea dei suoi racconti che a te non piacevano, è il migliore
che ha scritto, mi pare, ma certo ora si vuole una rappresentazione
della realtà politica più complessa, anche se si parla
di cortili napoletani. Lui è imbarazzato a mandartelo perché
litigò con te per difendere scritti che poi i suoi diretti
dirigenti stroncarono con sufficiente pesantezza. Credo che sia un
tipo bravo, e che potrà darci cose buone, anche nel senso di
un nuovo racconto politico, domani. Vuoi vedere questo racconto e
tornare in contatto con lui? Cari saluti. Calvino"
Il 12 aprile Vittorini rispondeva:
"Mandami pure il De Jaco. Non ho nulla contro di lui e sarei
anzi felice se avesse scritto un buon racconto. Se non hai già
tu il manoscritto, scrivigli perché me lo mandi..,.".
Incomincia così la piccola storia che si concluderà
con la pubblicazione presso Mondadori dei tre racconti di "Una
settimana eccezionale". E incomincia ancora con Calvino che tesse
la sua tela di rapporti e per la prima volta mostra di condividere
(ma "con juicio") i miei obiettivi dello scrivere. Mi scrive
Calvino (notare la data: è di quarantotto ore successiva alla
nota al "caro Elio":
"Caro De Jaco, ho letto il tuo racconto giù da parecchi
giorni, e non sono riuscito a scriverti mosso da vari pensieri. A
me piace, e non fa che confermarmi il tuo giudizio positivo sui Il
raccontini di partito" delle Domeniche di Napoli. Le critiche
di Alicata, poi, viste oggi, sembrano lontane di cent'anni. E in questa
luce viene da fartene un'altra: che il tuo limite - tu che pure idillico
in senso dolciastro non sei mai - è che il tuo sguardo verso
i compagni non è mai critico: sei sempre mosso da quello che
pure è un sentimento che succede spesso di provare muovendosi
tra i compagni di base: il senso di ammirazione e commozione a scoprire
che gente bella, chiara e brava sono i comunisti. Ma viviamo in un'epoca
in cui una rappresentazione come questa della realtà ètroppo
semplificato; e, direi, non può essere nemmeno un nostro sogno
ideale, perché l'umanità che ci vuole per risolvere
i problemi che ci sono di fronte non potrà essere che più
complessa di quella che tu, pur con anima di verità, descrivi.
Comincerò a tastare il terreno con Vittorini che mi pare sia
molto "disgelato" anche lui. Ma credo che - dal punto di
vista nostro - questa sia ancora una cosa buona in una direzione che
non ci soddisfa più.
Teniamoci in contatto. Cari saluti. Calvino"
Non so se fu da parte mia sincera autocritica o sovrana furbizia ma
ecco, nella lettera che accompagnava una copia dattiloscritta del
racconto "Novità nella casa senza porte", faccio
con poche parole giustizia di tutte le posizioni che avevo strenuamente
difeso fino allora presentandomi... disarmato. Sarò stato sincero
o semplicemente furbo? Si tenga conto che eravamo nel terribile 1956
e non ci fu alcuno, in quei mesi, che non sbandò da una parte
o dall'altra, fino a che l'ungherese Kadar senza più unghie
nelle mani non mise d'accordo tutti (o quasi).
Io presentavo allora così (la lettera non ha data) il mio nuovo
racconto a Vittorini:
"Caro Vittorini, dopo una dura faticata elettorale ritorno a
occuparmi delle cose che più particolarmente mi stanno a cuore.
Non so se lei abbia iniziato la lettura del mio racconto; voglio dirle
subito comunque che io ne sento profondamente i limiti di schematismo
ecc. Questo racconto ha i difetti che lei ebbe a rilevare in una parte
dei racconti de "Le domeniche di Napoli", difetti che non
sono ancora riuscito a superare e che anzi fino a non molto tempo
fa ritenevo di non dover superare affatto.
Voglio dirle con sincerità che sono stato sordo alle sue critiche,
che solo avvenimenti di natura politica (non escluso lo stesso dato
elettorale) mi hanno in un secondo tempo aiutato a comprendere.
Con questo non voglio dirle che volto le spalle al mio tentativo di
narrare certi fatti nuovi che mi sembra vi siano in certi settori
della società napoletano, della vita della mia città
- e perché spero ancora nella validità di certi E' mi
e del mio tentativo, io sono lieto che il mio racconto sia arrivato
fino alla sua scrivania - ho però abbandonato, e da tempo sento
il desiderio di scriverglielo, quella infantile presunzione (che si
è, in definitiva, drappeggiata di "nuovo", di tipico,
di "realismo socialista", ecc., ma non era poi che presunzione
e infantilismo) che mi ha portato a difendere ogni virgola e ogni...
bandiera del mio primo dattiloscritto. Conto di ultimare questa estate
un racconto che sia meno lirico, volontaristico - non so se sono chiaro
- e più vicino alla ricca, complessa realtà napoletana,
più libero e sciolto, anche, nell'ispirazione. Perché
mandarle dunque questa "Novità nella casa senza porte"?
In verità l'ho spedito prima che certe cose mi si chiarissero
(almeno per quanto basta per mostrarmi che potevo aver torto), sono
però contento, ripeto, che lei lo legga e spero che vorrà
darmene un giudizio che mi aiuti per il futuro. Cordiali saluti, suo
Aldo De Jaco"
E Vittorini rispondeva - il 28 giugno - con una lettera tormentata
di cancellature e testi sovrascritti, in un paio di posti addirittura
strappata dal troppo insistere della penna:
"Cara De Jaco, ho letto il racconto. E non mi sembra ci sia quello
schematismo di cui lei ha paura. Per niente. E' raccontato bene e
la storia si regge, è animata, viva. Piuttosto direi che non
l'ha raccontata fino in fondo; non ha cercato di individuare altri
episodi che potevano nascerne. Il racconto non lo vedo concluso dove
lei lo conclude. La stessa scena finale della proiezione del documentario
sulla legge truffa è poco svolta. A questo punto lei avrebbe
potuto far discorrere i suoi personaggi a lungo e liberamente (come
prima nelle loro stanze e su per le scale e dalle finestre della grande
casa popolare) in modo da cogliere il loro tono popolare anche in
una specie di commento alle immagini del film che avrebbe potuto essere
un commento a tutto intera la politica italiana dal '45 ad oggi. Dopo
di che avrebbe avuto modo di fare avanzare la narrazione su altri
fatti, sviluppando figure rimaste in ombra. Ma ripeto, il racconto
mi piace, oltre che per quello che potrebbe diventare anche per quello
che è nella suo freschezza. Se lei lo approfondisse e sviluppasse
lo pubblicherei da solo. Sennò aspetterei che lei gli unisse
altre storie. Le restituisco intanto il manoscritto.
Molti cordiali saluti, suo Elio Vittorini"
"Mi scusi tutte queste correzioni così scarabocchiate
ma se lascio qui la lettera da ricopiare ritarderò ancora a
risponderle".
In effetti Vittorini torno così al vecchio (e dopotutto ingenuo)
metodo di leggere "creativamente", cioè suggerendo
varianti, sviluppi, cambiamenti... E' un metodo che hanno parecchi
"lettori" (molti con meno meriti di Vittorini ... ) e che
può portare il giovane narratore, in accoppiata con qualche
altro guaio, fino al suicidio (il lettore tenga conto che so quel
che dico e potrei far nomi e circostanze. Naturalmente la colpa è
dei nervi dell'autore che non hanno retto ... ). Né reggono
quelli del "ragazzo" De Jaco che sta rapidamente diventando
vecchio. Egli risponde così a Vittorini:
"Caro Vittorini; la suo lettera mi ha fatto molto piacere e mi
ha tolto un peso dallo stomaco. il suo giudizio, infatti, sul racconto
"Novità nella cosa senza porte" mi aiuto a guardare
con più tranquillità a ciò che ho fatto in quest'ultimo
periodo (dopo "Le domeniche di Napoli") e che temevo fosse
inficiato da certe concezioni da me accettate acriticamente e che
si sono rivelate - anche a non accettare gli avvenimenti in un modo
ancora acritico - sterili e sbagliate. Mi piacerebbe discutere con
lei di queste questioni ma per lettera trovo che è un po' difficile.
Se avrò occasione - come spero - di venir presto a Milano verrò
a trovarla e spero che lei mi possa dedicare una mezz'ora.
Il racconto "Novità... " non lo toccherò,
non me ne sento l'animo. Sto scrivendo un altro racconto, invece (un
centinaio di cartelle in tutto), che spero di portar bene in porto
durante l'estate; ho ancora dei racconti brevi fra i quali si potrà
sceglierne qualcuno: così spero si possa comporre un libro
nuovo che le sottoporrò, e potrebbe essere il libro che lei
mi dice pubblicabile nei Gettoni.
Il mese venturo uscirà intanto una mia cronaca (un po' affrettata)
delle quattro giornate di Napoli, pubblicata dagli "Editori Riuniti".
Gliene invierò una copia.
La saluto intanto cordialmente, suo Aldo De Jaco"
Vittorini ebbe e giudicò assai bene "La città insorge",
ma lasciamo perdere il particolare per non allungar troppo questa
storia che è in definitiva una storia degli equivoci.
- Equivoci? Che equivoci? - chiederò a questo punto il lettore.
Beh, si parla ora di tre racconti che Vittorini proporrà e
pubblicherà nella "Medusa" di Mondadori. E' destino
però che fra me e Vittorini ci sia sempre una specie di commedia
degli equivoci. Questa volta, mentre io continuo a non correggere
neanche un rigo, lui "legge" le correzioni e se ne compiace.
Così mi scrive due volte a marzo del '57:
"Caro De Jaco, dei racconti ho già riletto LA CASA SENZA
PORTE. I pochi tagli a cui l'ha sottoposto e la nuova sistemazione
dato al finale mi pare abbiano resa viva anche l'ultima parte.
Finalmente mi pare che lei non punti più sulla rappresentazione
lirica di una polemica e che muova, invece, il racconto sui personaggi
in cui questa polemica si incontra. Così la polemica che era
"suo" è diventato la "loro", e insomma
si èoggettivato.
Una stretta di mano dal suo Elio Vittorini"
"Caro De Jaco, ho visto anche VIAGGIO DI NOZZE e gli altri racconti
brevi. VIAGGIO Di NOZZE mi piace; è fresco, lo si legge con
vero piacere. Non era facile dargli quella tenuità di colore
che ha: lei c'è riuscito. Mi è rimasta però l'impressione
che possa diventare migliore di come è, se lei riesce a rendere
evidente lo spunto drammatico che c'è dentro, ad esempio precisando
il posto che vi ha la figura della giovane Anno, i suoi desideri e
i suoi sogni, la sua improvvisa tristezza di fronte a Lucia che, più
giovane di lei, già possiede una diverso libertà nell'essere
"cittadina" e nell'"essere" sposa. Quello di Anna
è un esempio: lei dovrebbe trovare anche altri sentieri per
portare il racconto un po' più lontano sulla sua strada del
confronto tra poveri di città e poveri di compagno.
Degli altri, il migliore mi è parso I FUCILI SELVAGGI. Tuttavia
anch'esso ha un tono crepuscolare che non convince. Questi altri pezzi
sono un po' come "versi scritti col lapis". Siccome il suo
posto fra i giovani narratori italiani è ben precisato ed è
su una strada autenticamente nuova, direi che sarebbe meglio non render
pubblico questo aspetto del suo lavoro.
Forse lei ha un terzo racconto da aggiungere a VIAGGIO Di NOZZE e
LA CASA SENZA FINESTRE. Tre racconti così farebbero un bel
libro. Ma anche se il libro restasse costituito da quei due soltanto
io lo proporrei per la pubblicazione. Le faccio rispedire il dattiloscritto,
perché veda se può ritornare sul VIAGGIO.
Una stretto di mano, suo. Elio Vittorini"
Dopo di che il 19 agosto io scrivo a Vittorini:
"Caro Vittorini, con un poco di ritardo rispetto alla data per
cui m'ero impegnata con lei e con me stesso, le ho inviato poco fa
il mio dattiloscritto. Ho seguito il suo consiglio. Al posto dei raccontini
brevi che apparivano ed erano un riempitivo rispetto a "Viaggio
di nozze" e "La casa senza porte", le ho inviato ora
un nuovo racconto, "Una settimana eccezionale" (e questo
sarebbe il titolo anche del libro), che spero le piacerà.
Non è certo un riempitivo questo racconto, anzi, nella mia
intenzione dovrebbe essere il racconto fondamentale, un passo in avanti
rispetto ai due altri; certo è che io vi ho messo particolare
impegno, soprattutto per la descrizione del personaggio intorno a
cui ruota la vicenda, Vincenzo Montagna, un uomo di Napoli confuso,
pieno di complessi, smarrito, come io credo ci siano a Napoli e rappresentino
meglio di ogni altro la città. Ci sono riuscito?
Talvolta mi è sembrato che mi mancassero i mezzi, narrare quella
vicenda mi è sembrata una presunzione - descrivere Piedigrotta
per esempio! - del resto è facile nel penetrare in un personaggio
"complicato", "smarrito", incamminarsi per un
labirinto e non uscirne.
Ma l'impegno morale della scrivere non permette a nessuno, credo,
di scegliere fra molte storielle, s'impone quella che esprime ciò
che si ha da dire. Ora io volevo dire appunto come oggi per tanta
gente, per una città, per una massa di uomini - la povera gente
- la situazione sia senza via d'uscita, e uno sia estraneo all'altro
e a barlumi di coscienza, e al desiderio di rivolta segua poi l'isolamento,
a tratti la disperazione. Solo l'abitudine a vivere così e
lo scetticismo mettono calma in quelle menti, li aiutano ad andare
comunque avanti.
Non voglio qui farle tutto un ragionamento a introduzione o difesa
del racconto, spero che lei vi legga quello che io ho creduto di scriverci,
in questo caso vedrà come il mio racconto sia "attuale",
intervenga in una polemica assai viva. Se poi anche questa è
una presunzione... me lo dirà certo a chiare lettere lei nella
sua risposta. Della quale resto in attesa. Suo, De Jaco"
Seguono mesi di un intenso epistolario, un epistolario che però
non ha retto alla critica dei topi. Ne cavo fuori le lettere dell'accordo
finale, dopodichè il postino mi porterà il contratto
di casa Mondadori. la prima (di Vittorini) è del 3 ottobre:
"Caro De Jaco, il libro, così come si presenta in questa
terza stesura mi sembra che vada bene. L'ultimo racconto mi è
piaciuto: non avendo da suggerirle modificazioni non mi fermo, perciò,
a dare un giudizio circostanziato.
Questa volta mi interessa parlare di un'altra faccenda. L'Einaudi
è in un periodo di crisi e con i Gettoni siamo a un punto fermo;
con i 15 manoscritti, ancora da pubblicare, giù accettati che
aspettano la stampa, si coprirò (al ritmo di 3 o 4 volumi all'anno)
il programma della collana per molto tempo. Né ancora è
certo se, sfornati quei 15 manoscritti, la collana potrò continuare.
Per cui vorrei chiederle se sarebbe disposto a passare il volume ad
un altro editore, Mondadori, ad esempio.
Aspetto una risposta. Coi migliori saluti Vittorini"
La seconda, la mia risposta, è del 10 successivo (a stretto
giro di posta, naturalmente):
"Caro Vittorini, ho ricevuto la sua lettera. Sono senz'altro
d'accordo che lei presenti a Mondadori il mio manoscritto. Onore e
piacere, come si dice al mio paese. Se anche potesse farmi esitare
il fatto di aver già pubblicato per Einaudi - il non voler,
dunque, "cambiare bandiera" -l'attuale situazione del Gettoni
non mi lascia possibilità di scelta.
Ma il fatto essenziale è che io non ho impegni con alcuno,
ho solo un rapporto epistolare con lei e devo al suo interessamento
di poter accedere all'una o all'altra casa editrice. Come dunque esitare?
Il suo giudizio sul libro - e in particolare sull'ultimo racconto
- acqueta ora le mie preoccupazioni. La verità è che
non mi decidevo a iniziare il lavoro di preparazione - che mi impegnerà
per quasi tutto l'inverno - per il prossimo libro, un nuovo libro
comprendente una storia sola. Ora credo che potrò farlo.
La verità è, ancora, che ho bisogno di pubblicare presto
- nei limiti del possibile - per ragioni anche extra letterarie. Senza
aver la pretesa infatti di dedicarmi solo a scrivere, pure vorrei
creare una situazione che mi permettesse di dedicare maggior tempo
a questa attività. E per questo è essenziale la pubblicazione
di "Una settimana eccezionale". La ringrazio dunque del
suo interessamento.
Resto in attesa di sue notizie. Arrivederci De Jaco"
"P.S. Invio questa lettera per espresso nella speranza che così
gliela facciano pervenire senza che lei passi dalla sede di Einaudi.
La prego di prender nota che io ho cambiato in questi giorni indirizzo".
III
Non c'è
quasi più niente nella mia scatola di cartone. Nel '62 - credo
- Mondadori pubblicava "Una settimana eccezionale", poi...
Poi dopo il '62 viene il '63, per me come per Vittorini e per Calvino.
Per me non significa molto; leggerò "Quindici" come
prima leggevo "Il Politecnico", ma per Vittorini (e anche
per Calvino) significa moltissimo e così molto sacrificheranno
(dico: come "operatori culturali" che non vogliono essere
messi da parte) alle ragioni del "Gruppo '63". Intanto Vittorini
è giunto alla fine della sua parabola e la sua voce a un tratto
si tace. Calvino continua a proteggermi (Dio mio, non abbiamo mai
scambiato una parola assieme!) e in effetti mi pubblicherà
un nuovo libro presso Einaudi).
Tolgo da questa inutile scatola di cartone tre lettere, ancora, di
un rapporto che si va diradando ma che darà ancora qualche
frutto.
A marzo del '62 Calvino mi scrive due lettere, il 7 e il 21. Scrive
il 7:
"Caro De Jaco, ho cominciato a leggere i tuoi racconti e mi pare
che sono d'un livello molto buono. Volendo finirne la lettura al più
presto li ho portati a Roma (io sto un po' a Torino e un po' a Roma),
poi ho avuto tante altre cose da fare, ho lasciato il dattiloscritto
a Roma e sono tornato a Torino. Andrò a Roma la settimana ventura,
finirò la lettura e deciderò cosa consigliarti, anche
in base alle prospettive di data d'uscita.
Il libro di racconti come sai non è la cosa che entusiasmi
di più un editore (a meno che non siano d'un autore best-seller,
o che si prestino al 1 caso', ecc.). Perciò potrebbe anche
darsi che un libro di racconti anche se presentati da me come ottimi,
nel programma dei 'Coralli' che è gremitissimo, finissero per
far la coda. Mentre Mondadori ora lancia una collana nuova, deve far
breccia con molti autori, ecc. Insomma, ti dirò. Cari saluti.
Tuo Calvino"
E il 21:
"Caro De Jaco, m'aspettavo di, vederti a Napoli per parlare dei
racconti. Avevo finito di leggerli appunto pensando che ti avrei visto.
Mi pare che sei andato molto avanti nella maturazione del tuo linguaggio
e nella forza delle tue immagini. C'è in te una spinto a rompere
il clichè della solita narrativa meridionale nella direzione
di una carica romantica. Carmela e il seduttore è il pezzo
più forte e questo casamento coi suoi abitatori non si dimentica.
Il tappeto persiano (che è un tipo di racconto piuttosto curioso:
in certi toni cupi ricorda Bilenchi) mi pare ancora un esperimento.
li primo racconto della raccolta è di ottimo livello anche
se meno nuovo. L'ultimo, nel tema non nuovo, riesce a dare bene lo
spessore della storia di questi anni.
Il linguaggio è in genere molto sicuro e ricco; solo qualche
piccola caduta nel generico o nell'astratto o nel ripetuto.
Approvo molto il tuo lavoro, proprio perché ti sento in una
fase di ricerca. Un libro come questo possiamo pubblicarlo appunto
come testimonianza d'una ricerca in corso: quindi non puoi aspettarti
il lancio che tocca ai romanzi che si presentano come dei risultati
compiuti da affidare all'onda del boom librario; oppure ai 'casi letterari'
che possono diventare un avvenimento proprio per il loro carattere
di rozzezza e di curiosità. Ti dico questo perché tu
possa decidere con obiettività se dare il libro a me o a Gallo.
Certo, terremmo molto a riaverti come autore 'figliol prodigo'. Un
cordiale saluto. Calvino"
(Per la cronaca i racconti di cui Calvino parla non sono ancora apparsi
in libro: difficile e accidentata è la via del racconto in
Italia).
Infine una lettera-critica su "Un paio di quanti perduto"
che uscirà presso Einaudi col titolo cambiato (e peggiorato)
in "Viaggio di ritorno":
"Caro De Jaco, ho letto Un paio di guanti perduto e mi è
piaciuto molto. Il senso del tempo che passa, della prospettiva storica
diversa da quella che ci si aspettava, viene fuori molto bene, soprattutto
quando è rappresentato negli atteggiamenti e rapporti della
famiglia. In questo senso la prima parte è bellissima, anzi
direi tutto fin dove Vincenzo non viene in primo piano con la sua
coscienza, ma resta un testimone, un po' reticente e schivo. Invece
non mi piacciono i monologhi interiori, le confessioni liriche: ci
sono quattro interi capitoli che ti consiglio di sopprimere: 19°,
20° 31°, 32°, tanto non sono utili per lo sviluppo dell'azione;
a capire quello che passa nella testa di Vincenzo basta e avanza quello
che gli vediamo dire e fare (e anche pensare, ma rapidamente, di scorcio)
nei capitoli più propriamente narrativi.
(Un altro punto che non mi piace, ma solo un capoverso, è a
p. 31, ed è il discorso di Paolo, che va troppo nel patetico).
Il bello di quei primi capitoli è che sono duri, cupi, con
un corruccio sotto che non si esprime mai del tutto, e il lettore
è interessato a scoprire il dramma d'ognuno del membri della
famiglia.
Col cap. 9° si entra in un altro tipo di interesse: la discussione
di partito, resa benissimo, eccellente anche dal punto di vista documentario:
ma il centro d'interesse si è già spostato.
Andando avanti il racconto si sfrangia, ognuno pensa per conto suo
tutto quello che ha da pensare, non restano più segreti, la
storia di Ida non che sia male ma ha quei tanto di prevedibilità
di tutte le storie d'amore, e tutto si concentra sul fatto del XX
congresso e dell'esame di coscienza di Vincenzo.
Ora forse questo è il punto: questo non era partito per essere
il racconto del XX congresso vissuto alla base, era qualcosa di più
universale: un racconto sul tempo che passa vissuto da una famiglia
operaio, con tutto quello che resta immobile (e si credeva doversi
muoversi) benissimo rappresentato nella cecità di Paolo, e
quello che si muove (e non si credeva che si muovesse). Il XX congresso
(che poi potrebbe essere anche il XXIII, o l'esonero di Krusciov)
in questo quadro è solo uno dei vari particolari, come l'andato
in pensione di Antonio, la cecità di Paolo, il benessere commerciale
di Giovanni? Non dovrebbe diventare il motivo dominante, ossia, sì,
dovrebbe esserlo, ma restando un po' in sordina, continuando a saltare
fuori ogni tanto nei dialoghi e nelle riflessioni. Il finale tende
a una soluzione di moderato ottimismo; forse l'avrei voluto più
teso e interrogativo e drammatico; ma non è il punto più
criticabile il pericolo di cadere nel 'patetico rivoluzionario' è
più forte in certi altri punti prima.
Non so se queste cose che ti dico ti daranno la voglia di rimettere
le mani sul racconto. lo credo che ne vale la pena, che è un
libro che vale molto, molto più di tutti i vari...
Bè, non voglio fare nomi.
Pubblicarlo da Einaudi? Io lo presenterò, e mi batterò
per farlo, ma non ti assicuro ancora niente. Come il tuo racconto
spiega bene, la nostra generazione si è ritrovata vecchia da
un momento all'altro e così questo nostro tipo di letteratura
con tutti i suoi piani morali e politici e lirici e di osservazione
oggettiva e d'interiorità, è una cosa che adesso tutti
la guardano come una roba invecchiata.
Mi piacerebbe sapere, prima di presentarlo, cosa pensi delle mie osservazioni,
e se ci rimetteresti le mani. Cari saluti tuo Calvino"
La nera scatola non ha più lettere ma la mia memoria ne ha
qualcuno ancora. Si ricominciava con Calvino come con Vittorini? No,
questa volta sentivo di non aver quasi nulla da difendere, cioè
ero pieno di incertezze. Così accolsi i consigli e pubblicai
il libro e vinsi anche un premio. Nella memoria c'è ancora
qualche altra lettera come nella realtà qualche altro libro,
ma le occasioni di fare bene i conti, fra me e Calvino, erano ormai
finite. Il futuro aveva altri metodi, altri nomi, altre violenze.
E anch'io avevo voltato la testa verso altro nella speranza di far
luce sulla mia storia e sulla altrui.
Del resto, lo vogliam dire?, un'epoca era finita.
NOTE
* Una curiosità: perché Vittorini, in lettere private,
cioè credendoci, mi accusa di fanatismo nazista - il che era
assai lontano da me - e non di stalinismo, in modo da centrare l'obiettivo?
Escludo che non si rendesse conto di che si trattava, ma evidentemente
l'accusa di stalinismo non gli sembrava abbastanza dura e definitiva.
Diciamo allora Zdanovismo? In ogni caso non avrebbe colto nel segno
perché il mio vero problema era di sentirmi in torto di discutere
con lui, transfuga del comunismo e fargli delle concessioni, mentre
letterariamente peraltro continuavo a esserne un ammiratore e un imitatore.
Il "ragazzo" aveva una bella confusione in testa...
Il "ragazzo"
Aldo De Jaco è nato a Maglie (Lecce) nel 1923, ha vissuto in
Sicilia e per lungo tempo a Napoli. Dal 1963 vive a Roma, non senza
tornare al paese natale almeno per le feste comandate. Giornalista
professionista, è sfato inviato speciale dell'Unità
e di Paese Sera. Ha collaborato e collabora a numerose riviste, fra
cui Il Contemporaneo, Rinascita, Prove, Le Ragioni narrative, Cronache
meridionali, La Battana. Si è occupato e si occupa di poesia
e di narrativa, nonché di storia. Sue opere sono state tradotte
in Germania Federale, in URSS, in Bielorussia, in Grecia, in Bulgaria,
in Romania, in Cecoslovacchia, in Cina.
Ha lavorato, per il cinema, alla sceneggiatura di Quant'è bello
lu murire acciso e, per la radio, alle venti puntate di Voci e volti
della questione meridionale. E' segretario generale del Sindacato
Nazionale Scrittori.
Opere principali pubblicate
NARRATIVA: Le domeniche di Napoli (Einaudi, 1954 - Premio "Salento"
opera prima); Una settimana eccezionale (Mondadori, 1959 - Premio
"Settembrini-Mestre"); Viaggio di ritorno (Einaudi, 1966
- Premio "Castellammare"); Con finale in prigione (Marsilio,
1975); Vocazione agit prop (Marsilio, 1975 - Premio "Calabria");
Diario di un ospite ingrato (Ciminiera, 1981); Nel giardino del cattivo
amministratore (Levante, 1983); Nica libre (Il Ventaglio, 1984); La
casa di tufo (E.R., 1986).
STORIA: Presso gli Editori Riuniti sono stati pubblicati cinque volumi
dell'"Antistoria dell'Italia unita": Il Brigantaggio meridionale
(1969); Antistoria di Roma capitale (1970); Gli anarchici (1971);
Di mal d'Africa si muore (1972); I socialisti.
POESIA: Stazione di posta (Il Laboratorio, 1986 - Premio "Napoli").
Sono stati pubblicati inoltre, sempre presso gli Editori Riuniti:
La città insorge / Le quattro giornate di Napoli (1956); Colonnelli
e resistenza in Grecia (1970); Inchiesta su un Comune meridionale
(1972).
Presso altri editori sono comparsi: Diario di tutti. 1943-1947 (ESI,
1976); Ieri, oggi, domani la cooperazione (lega delle Cooperative,
1979); Napoli / Monarchica, milionaria, repubblicana (Newton Compton,
1982 - Premio "Presidenza del Consiglio").