§ Asterischi comiani

L'"Accademia Salentina" attraverso inediti




Gino Pisaṇ



a) Le valutazioni, la storia.

Nel panorama dell'attività letteraria del Salento, nei primi anni del secondo dopoguerra, in un clima di rinnovata fiducia nella forza della parola e della libertà ritrovata, occupa un posto centrale un piccolo sodalizio di uomini grandi: l'"Accademia Salentina" voluta e fondata il 3 gennaio 1948 (1) da Girolamo Comi, Oreste Macrí, Michele Pierri. Della esigua pattuglia dei fondatori doveva far parte Mario Marti che un luttuoso evento (la morte della madre) tenne lontano da Lucugnano all'atto della fondazione (2).
Sul carattere del sodalizio, più che sulla sua storia di cui si tenterà, in questa sede, di tracciare per la prima volta le linee essenziali, si è detto per rapidi ma vigorosi cenni da parte di alcuni studiosi le cui prospettive di ordine critico non sempre sono apparse convergenti.
Donato Valli, nel suo Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), definendo la posizione storica ce "L'Albero", rivista organo dell'Accademia fino al 1953, prendeva le distanze da Vittorio Bodini in ordine al giudizio "di astratta universalità e di classico conformismo" (3) che il poeta de La luna aveva espresso all'indirizzo dell'Accademia stessa. Così Bodini: "C'è, in un angolo sperduto della [ ... ]provincia, a Lucugnano [ ... ], un'Accademia Salentina della quale fanno parte nientemeno che Falqui, Anceschi, Macrí, Ciardo, Assunto, Ferrazzi, il tarantino Pierri e Maria Corti. E' un nobile svago personale di Girolamo Comi che vive a Lucugnano ripartendo la sua attività fra sonetti e saggi cattolici e le cure di un oleificio" (4). Bodini, poi, rincarava la dose definendo "L'Albero" come "disparato zibaldone" che lungo il solco di un post-ermetismo cattolico rincorreva "vaghi miti di universalità" (5). Questa la replica di Valli: "Sfuggiva a Bodini che l'eredità ideale di "Vedetta mediterranea" e di "Libera Voce" era stata assunta da ''L'albero'' [ ... ]. Aristocratica nel senso più alto del termine, la rivista di Comi conservò sempre le caratteristiche di questo suo attributo, distinguendosi nettamente dai periodici contemporanei per il marcato privilegio accordato alla letteratura e all'arte e mantenendo una sorta di nobile distacco dai problemi del precario e del contingente storico. [ ... ] Tra i neo-realismi, i populismi e le iconoclastie imperversanti, la sua lezione di spiritualità e di elevatezza non trovò larga risonanza. Ma col tempo se ne riconobbe la serietà indiscutibile, e la élite che si radunava sotto l'ombra del grande ulivo campeggiante sul frontespizio ebbe un motivo in più [ ... ] per erigersi davvero a modello di una comunità di intellettuali fiduciosi nel prestigio e nel primato degli integrali valori culturali, letterari ed artistici dell'Occidente cristiano" (6).
Più recentemente Franco Martina, con diversa prospettiva, individuava ne "L'Albero" l'espressione "più che dell'Accademia salentina, del clima politico e culturale di quegli anni, tutto segnato dallo sforzo di imporre un'integrale egemonia cattolica" e fissava l'impegno di quella comunità di intellettuali nella ricomposizione, attraverso la rivista, del "rapporto arte-società al lume dell'esperienza cristiana" (7). Inoltre, replicando a Maria Corti (8), Martina rimarcava la sua tesi sostenendo che "l'Accademia salentina appare più un modo di celebrare la cultura, in specie quella letteraria, che di farla: un modo più di chiudersi (per chi la proponeva) nella tradizione ("terra di accademie e di monaci sapientissimi") che di aprirsi alla realtà circostante" (9).
Maria Corti, che fu la più giovane fra gli accademici e, inizialmente, la segretaria del sodalizio, aveva opposto, infatti, alle valutazioni di Martina il suo punto di vista in ordine allo spirito dell'Accademia, ricordandone "il panorama non certo locale né particolarmente cattolico" (10), l'impegno nel sociale ("Comi aveva ideato un ciclo di produzione dalle campagne a oliveti, a un oleificio e da questo alla Accademia e alla rivista: dal lavoro manuale, preindustriale al culturale e viceversa") (11) ed ancora il carattere alquanto giocoso delle sedute in grazia del quale si temperava la gravitas delle discussioni inerenti alla filosofia, alla letteratura e all'arte.
Mario Marti, infine, ricordando le origini del sodalizio e l'amicizia con Comi, sosteneva che l'Accademia salentina "nonostante da molti fosse considerata un po' stantia almeno nella sua specifica etichetta e dunque nella sua orientativa presentazione alla società degli studi e della cultura, era pienamente immersa in un'atmosfera tutt'altro che accademica, anzi assolutamente libera e originale, direi perfino scapigliata e comunque ideologicamente e letterariamente sempre militante" (12).
Nell'esporre il mio punto di vista partirò, oltreché dalle testimonianze della Corti e del Marti che mi sembrano assumere un incontestabile carattere di fonti per la valenza autoptica e autobiografica che le connota e alle quali corrisponde quanto ho appreso in più occasioni da Oreste Macrí (13), anche da una considerazione di ordine storico generale. Le riviste salentine degli anni Quaranta del Novecento (da "Vedetta mediterranea" a "Libera Voce", ad "Antico e nuovo") sono caratterizzate, fatta salva la diversa e opposta matrice ideologica di "Vedetta", da un comune denominatore che attiene al riguardo letterario: l'intento di collegare il Salento al resto della nazione e all'Europa mediante una chiamata a raccolta delle forze amicali, voglio dire degli intellettuali non salentini (ma, ovviamente, anche salentini) con i quali Bodini, Macrí, Comi, Pagano avevano istituito rapporti di frequentazione oltre le mura della piccola patria. Su questo aspetto ho avuto modo di soffermarmi sulle pagine di questa stessa rivista, a proposito di Gatto e di Caproni (14), e di sottolineare il ruolo determinante che ebbero tali rapporti sicché ermetismo e liberalsocialismo convissero sulle pagine di "Libera Voce" e, più tardi, un ermetico come Gatto trovò ospitalità su un foglio di impegno neorealistico come "Il Campo". Questo carattere di "condivisione", lungi dall'essere un limite, fu un referente sul sentiero della sprovincializzazione della cultura salentina e della sua "apertura" nei confronti delle tensioni europee, con prevalenza di quelle franco-ispaniche, in quegli anni segnati dall'urgenza di mettersi al passo coi tempi, presto e comunque, sicché ciascuno portava al mulino della renovatio culturale e sociale del Salento il proprio contributo. E Girolamo Comi, volendo e fondando l'Accademia salentina, evitò uno iato verosimilmente pernicioso per la continuità ideale di quanto "Vedetta" e "Libera Voce" avevano prodotto in termini di rinnovamento letterario.
Gli anni in cui ebbe vita l'Accademia furono quelli compresi fra il '48 e il '53 e "L'Albero" costituì l'unico tramite di collegamento e interazione fra Lecce, Roma e Firenze prima che "L'Esperienza poetica" (1954-56) di Bodini e De Rosa e "Il Critone" (1956-66) di Santoro e Pagano fornissero altri concreti sviluppi in tal senso. Questo assunto trova la sua ragion d'essere nell'editoriale del primo numero de "L'Albero": "E infatti, i programmi venivano dopo; si trattava, innanzitutto, di cedere a un ente l'anima e il cuore di un uomo vivente che avesse creduto in talune certezze fondamentali circa la vita e la poesia, e ora rivolgesse un appello ai migliori uomini di Puglia, un libero e sereno appello nello spirito di 'amicizia' e di affratellamento 'cristiano', nel significato più ampio, eppure più antico e più rigoroso della parola. A tale richiamo rispondessero gli amici degli amici di altre terre, da qualunque terra, nella quale dimorino uomini disposti a un patto di assoluta chiarezza reciproca [ ... ] onde possiamo sapere 'chi siamo' e 'quanti siamo', trovandoci ad uno ad uno, perché impariamo nuovamente a rivolgerci delle domande e a risponderci senza dubbi" (15). Amicizia e affratellamento le ragioni ideali che compattavano i ranghi dell'Accademia cui procurava fondamento la gnosi mistico-cristiana di Comi, peraltro talmente aristocratica da non poter condividere alcuno sforzo o ipotesi di corriva simpatia elettoralistico-clericale. E risposero all'"appello", nel giro di un anno, oltre ai citati Macrí, Pierri e Marti, anche Luciano Anceschi, Rosario Assunto, Vincenzo Ciardo, Maria Corti, Luigi Corvaglia, Enrico Falqui, Ferruccio Ferrazzi, Giuseppe Macrí. Rompere il cerchio della solitudine fu, dunque, il primo e più incalzante obiettivo, per venir fuori da quella ostracizzante "condizione generale dell'uomo, che oggi si arrovella su un varco [ ... ] in solitudine" (16). A quella condizione reagivano, con altre esperienze e in altre forme, il Camus de La peste o il Vittorini de "Il Politecnico" o il Bodini de "L'Esperienza poetica". Ciascuno secondo il proprio carattere, la propria Bildung. Una vena di utopia indubbiamente trascorre quell'empito non solo di ordine etico ma anche civile che trasuda dalle enunciazioni programmatiche dell'Accademia comiana: "occorre ancora una volta procedere per simboli e modelli, sia pure viventi e concreti, per liberarci dalla fuga, per appartenerci domandando e rispondendo" (17). Volontà di dialogo e umanismo non contrastano con le posizioni ermetiche, in realtà ne rappresentano l'ideale evoluzione in forme e spiriti nuovi, lungo il solco già tracciato da Bo.
L'Accademia si proponeva come una comunità (18) "in una terra di sangue, costume e cultura" (19) per disegnare un "modello di società fondata sull'arte e la critica, sciogliendo in essa società il demonico potere assorbente e funesto dell'arte e della poesia" (20).
Certo prevalse la letteratura sulla vita, il livello "puro", speculativo, su quello "storico", operativo, ma non si può valutarne il merito con parametri, per così dire, esterni o seriori, né si può negare l'intento, cui assolse Comi a sue spese e a suo irreversibile danno (21), di collegare cultura e società pel tramite dell'Accademia che si proponeva "di esplicare i suoi interessi spirituali e letterari con pubblicazioni, conferenze, ritiri [ ... ], di dotare [come fu dotata] la sede lucugnanese di una sufficiente biblioteca" (22) e, soprattutto, di reclutare "nelle scuole della zona e nelle associazioni universitarie [ ... ] giovani provvisti di evidenti capacità creative o critiche, onde provvederli di sussidi e borse, nel caso fossero poveri" (23). Ma a dare la misura della tensione verso il sociale ed anche della carica utopica che la connotava, è la creazione, in Lucugnano nel 1948, di uno "Stabilimento per l'estrazione dell'olio e aggiunta Raffineria" (24), alle cui casse doveva attingere l'Accademia per sopravvivere, nella prospettiva del "riscatto del basso Salento, al fine di industrializzare la materie prime del luogo" (25). Ferrazzi, in un encausto che raffigurava San Rocco, protettore di Lucugnano, ai piedi di un grande ulivo "festante i fronde e di bacchiatori", trascrisse lo spirito con il quale l'opificio nasceva. L'oleificio sociale produsse speranze non solo nei soci del sodalizio ma, soprattutto, nella comunità operaia lucugnanese allorché giunsero da Milano, acquistate con leggerezza, alcune macchine per la lavorazione dell'olio, le quali, usurate o difettose, (26) causarono invece il fallimento del progetto comiano, determinando una pesante situazione debitoria a esclusivo carico del poeta. Dalla terra all'ulivo, all'olio, all'Accademia, alla cultura, (finalmente liberata da camarille editoriali o compromessi) che doveva restituire alla terra quanto da essa le era derivato sotto altre forme: questa la mappa in scala dell'utopia comiana che fu tale esclusivamente perché le forze economiche di Comi non furono pari a quelle intellettuali e perché l'eccentricità geografica del Salento giocò un ruolo negativo che, come vedremo, fu determinante. Questo conato ideale di una liberazione ("liberarsi per essere" si legge in Necessità dello stato poetico) della cultura corrisponde al graduale allontanarsi di Comi "dalla cittadella letteraria del potere, dei virtuosismi, dei traffici, degli 'arcipelaghi', delle eresie avvincenti, delle preminenze e delle gerarchie per uno 'stato' laddove la 'sostanza poetica' in sé avrebbe rimesso alla poesia il suo mandato superlativo e trascendentale" (27).
Un esempio di intervento dell'Accademia sul territorio, come oggi usa dire, fu l'assegnazione dei premi annuali (lire 120.000) "a tre insegnanti rispettivamente delle scuole elementari (5ª) di Lucugnano, della (5ª) classe ginnasiale di Maglie e della terza classe liceale di Lecce" (28) cui seguì l'istituzione di tre borse di studio "da assegnarsi al miglior allievo licenziato rispettivamente dalla scuola elementare di Lucugnano, dal liceo classico 'Capece' di Maglie e dal liceo classico 'Palmieri' di Lecce" (29).
Ma era la vita dello Spirito "intesa in senso integrale, cioè umano e divino" (30) che occupava il posto centrale nella mente di Comi, nella sua poesia e nella sua riflessione, sicché tanto l'Accademia quanto "L'Albero" nacquero "da persuasioni intense d'ordine interiore oltre che poetico e artistico [ ... ] nel clima di una libertà illuminata dalla ispirazione e dalla ricerca di una armonia, direi programmatica, sempre più consapevole, attiva e vibrante" (31).
C'erano dunque il contatto con la vita e le tensioni ideali di Comi, non certo di maniera ma consustanziate con la sua natura e con la sua poesia. C'era, alla base, il mito umanistico dell'intelligenza ma soprattutto il culto dello Spirito, della sua vita cosmica che solo la poetica del Verbo può attingere nell'ascensus mistico-poetico. Altro che "svago personale"! Ma le valutazioni bodiniane risentivano, naturalmente, delle polemiche nei confronti dell'ermetismo e, comunque, erano incardinate in una temperie epocale che impediva, proprio per la prossimità del quotidiano e del reale, una distaccata esegesi storica.
Anche per altri aspetti l'Accademia ebbe significato: permise che si incontrassero, come dice Marti, ai "carceres di partenza", o quasi, alcuni fra i suoi soci allora poco più che trentenni e che imbastissero fra loro trame di sodalità che durano tuttora. Penso alla Corti, a Marti, a Macrí, ad Anceschi o ai più giovani Accrocca ("frequentò" l'Accademia intensamente fra il '50 e il '51, rimanendo legato, come Gatto e altri, agli amici leccesi), Valli, Cassieri, per non dire del compianto Pagano che meriterebbe un capitolo a parte. Chi erano allora? Chi sono oggi? L'Accademia fu l'incunabolo di certi loro itinerari futuri e ne preconizzò il valore e le fortune. Quanto al tentativo di imporre "un'integrale egemonia cattolica", tre nomi ne contrastano l'ipotesi: Luigi Corvaglia, che visse la sua vita all'insegna dell'anticlericalismo più fiero e nel culto della laicità dell'intelligenza (32), Rosario Assunto (33), filosofo dell'arte fra i massimi del pensiero laico, Luciano Anceschi (34). Ciò che univa, in realtà, questi uomini fra loro era la comune volontà di confrontarsi e riflettere per una teoresi dell'arte, della letteratura e della vita. Loro compito, quello "di accogliere e fecondare la nascita di opere che [ ... ] rispondano [ ... ] alle più alte necessità dello spirito, oltrepassando i limiti di una ricerca tecnica" (35) per un umanesimo integrale: "non quindi mera accademia, ma vita delle lettere e fermento di quella problematica che rende gli autori partecipi della coscienza contemporanea, tesa sensibilmente a superare ogni astratto della cultura" (36). Conseguenziale il bando di un concorso, di ambito pugliese, per due premi ad opere inedite di economia, dialettologia, storia dell'arte, storia politica da pubblicare a spese dell'Accademia (37). Un documento dell'attività teoretica ci viene dal Convegno del 27 agosto 1949. Così verbalizzava Maria Corti: "[ ... ] La mattinata è trascorsa in conversazioni sul problema della fenomenologia dell'arte, impostato da Luigi Corvaglia sulla concezione di una continuità di sviluppo che escluda salti qualitativi, fra stato poetico e creazione artistica e discusso dagli altri soci e in particolare da Oreste Macrí nel senso che tale visione del problema, eliminando la fondamentale differenza qualitativa tra il mondo psicologico [ ... ]di uno stato poetico e la realtà metafisica e storica dell'opera d'arte come 'consegna' di ogni artista [ ... ] arriverebbe in definitiva a negare la fenomenologia dell'arte" (38).
Nel Convegno successivo (27 agosto - 9 settembre 1950), si discusse, con prospettive ideologiche diverse, sul tema Significato e funzione della cultura. Fra le tesi (39) si segnalano quelle di Macrí (carattere strumentale della cultura in quanto momento analitico del pensiero che si attua soltanto nell'ambito della filosofia e della teologia), di Anceschi e Assunto (mondo di valori in fieri in cui coesistono il momento analitico e quello sintetico), di Comi (cultura come mezzo "concreto e vitale" di ascesa verso il trascendente), della Corti che, richiamando "l'ampia disponibilità semantica del termine" proponeva una "riduzione del tema a un piano di problematicità più tecnicamente e storicamente concreta" (40).
La prima polemica fra i soci dell'Accademia si registra sul secondo fascicolo de "L'Albero" proprio sul fronte del problema religioso (41) che fu ripreso e trattato nel Convegno suddetto nella prospettiva del rapporto EsteticaReligione (42).
Ai convegni si alternavano le riunioni della durata di un giorno come momenti deputati al dialogo e alla organizzazione dell'attività sociale. Particolarmente significativa per la storia del sodalizio è quella del 3 gennaio 1949. Vi partecipano O. Macrí, Marti, Ciardo, G. Macrí, Pierri, Anceschi, Corti, Ferrazzi, Albertina Baldo, Comi e Spagnoletti (quest'ultimo in veste di "osservatore") (43). Si disegnano i programmi ("pubblicazione di un periodico trimestrale dal titolo L'Albero in cui vengono raccolti gli Atti dell'Accademia stessa e gli scritti dei soci e amici, la pubblicazione di edizioni letterarie scientifiche, lo stanziamento di somme per borse di studio, l'organizzazione di premi letterari, l'istituzione di ritiri stagionali di studio nella sede di Lucugnano, fornita di biblioteca e Galleria d'Arte") (44) e si dà mandato "al fondatore Girolamo Comi [ ... ] di espletare tutte le pratiche necessarie al riconoscimento di detta società quale ente morale". Iniziava così la storia de "L'Albero" il cui primo numero uscì in cinquecento copie. Si affidò a Ciardo e a Ferrazzi (45) il compito di realizzare un grafico, da porre in copertina, il quale raffigurasse un olivo. La scelta di questo soggetto, come emblema della terra salentina, aveva le sue ragioni in ciò che l'olivo significò, nei secoli, per l'economia, la vita, la pietà religiosa e la cultura in Terra d'Otranto) (46). Comi condusse (47) Ferrazzi in un oliveto nell'agro lucugnanese perché traesse ispirazione da taluni nodosi e giganteschi alberi secolari, sotto uno dei quali, nei pressi di Montesano, la tradizione voleva che si fosse assiso il Mommsen durante una sua escursione salentina. Realizzati i disegni, Comi preferì quello di Ferrazzi, suscitando un passeggero risentimento in Vincenzo Ciardo. Altra seduta di notevole rilevanza fu quella del 4 gennaio 1951. Vi parteciparono Anceschi, Assunto, Ciardo, Corti e Comi. Fu dibattuto il tema Libertà e Cattolicesimo che vide confrontarsi i laici' Assunto e Anceschi e il cattolico Comi. Seguirono riflessioni revisionistiche dell'estetica kantiana (Assunto), discussioni di critica letteraria, "intesa come dialogo fra lettore e opera" (Corti, Anceschi), e d'arte: Ciardo negava ogni possibilità di sviluppo all'astrattismo pur riconoscendone alcuni valori storici, Anceschi individuava il significato della pittura astratta in un linguaggio progressivo in ordine all'espressione e alla "parola" dell'artista, Assunto rivisitava la dicotomia classico-romantico fondandola sulle kantiane categorie universali del bello e del sublime alla luce di una ricerca dell'"esteticità" come forma pura dell'essere, sicché riconduceva i termini Rinascimento, Barocco, classico, romantico a figurazioni fenomenologiche di tali categorie e Anceschi ne precisava il rapporto con l'"esteticità" come conoscenza della realtà in sé in quanto "esistenza sensibile" (48).
I Convegni successivi sono due. Quello del 2-7 settembre 1952 vede presente Oreste e Albertina Macrí, Ciardo, Pierri, Ferrazzi, Comi e Luigi Corvaglia che "si rivela accademicamente inedito, felicissimo" nella esposizione delle sue tesi inerenti a Giulio Cesare Scaligero (49) che costituisce il tema della prima giornata chiusa, poi, con la registrazione sull'Album di un sonetto (50) di Oreste Macrí

Altra notte. Veloce, la pianura
ha spento le cicale. Un seme arguto
fiorisce sull'inane onda matura
dei grani gialli, e cala il gregge muto

delle nubi di Puglia, e già s'indura
la collina ferace e il cielo astuto,
vanissimo nel giro senza mura.
Un corno dai pagliai sibila acuto.

Ma sentirai, fra tanto esiguo lume
quant'arde nelle crete di Messapia,
l'elemento del male domo al gioco

delle squallide conche, delle dune,
dei greti, onde è palese quanto sappia
toccare questo lungo canto roco.

Nell'ultima giornata (7 settembre) ognuno dei presenti espone alcuni aspetti "riguardanti la propria intima esperienza di uomo, di studioso, di artista". Ferrazzi collega a Leonardo e al leonardismo ("simbolo storico di arte intellettiva e geometrica") le sue prime esperienze futuriste e cubiste su cui si sarebbe innestata poi quella "necessità nuova, legata a un proprio rivolgimento interiore di natura etico-religiosa, di un'arte obbiettiva e corale" sorta da "un'intuizione di dinamismo spirituale che si diparte da Leonardo stesso" per integrarsi nella "visione unitaria e organica di un mondo nuovo, nel quale l'artista diviene persona operante" (51) in simbiosi con la società. Luigi Corvaglia, dopo aver discorso sull'aristotelico-averroista Gerolamo Baldovino (52) di Montesardo, chiarisce i termini del suo razionalismo "fondato sui sensi e sull'esperienza, contro il dogmatismo e l'autoritarismo" (53), mentre Pierri, Comi, lo stesso Corvaglia, la Corti e Macrí ricordano le vicende politiche personali, talvolta dolorose, vissute durante il fascismo e la guerra.
Meno frequentato il Convegno del 28 dicembre 1952 (tema: Gide, morte e dannazione) che registra solo le presenze di Pierri, Ciardo e Comi il quale "insiste su una cecità [di Gide] volontariamente esibita" come possibile difesa estrema contro il dubbio (54).
Fra il serio e il giocoso trascorre la giornata del 3 gennaio 1953 che, per il quinto anniversario della fondazione de "L'Albero", registra le presenze di Cesare Segre, presentato da Maria Corti, di Mario e Franca Marti, di Donato Valli, di Comi. Lo stesso carattere, lieto di umori conviviali, intriso di autoironia, si coglie nella riunione del 22 agosto 1954 (presenti Bice Onofri, Oreste e Albertina Macrí, Vittorio e Marcella Pagano, Luigi Corvaglia, Rina Durante e Comi) (55) e in quella del 28 dicembre dello stesso anno (56) che può ritenersi l'ultima fra quelle iscrivibili nel clima dell'Accademia che il 25 aprile 1953 si era estinta esitando nella "Casa editrice dell'Albero". Fu Comiche, di sua iniziativa, volle sciogliere l'Accademia che, nonostante i voti dei soci, non era stata trasformata in Ente morale. Quali i motivi? A darcene ragione è una lettera del poeta a Oreste Macrí il quale così si era espresso in una sua del 30 dicembre '53:

Caro Girolamo,
posso dirvi che mi è doluta - a Pierri, che mi ha scritto una mestissima lettera, a qualcun altro la tua intervista alla Fiera (57). Per noi pochissimi l'Accademia è stata qualcosa di intimo e di bello, e ci èspiaciuto il tuo atto di scioglimento senza aver chiesto il nostro parere, anzi contro il nostro parere che era esplicito. Tutto tramonta costaggiù. Pazienza. Tu sai bene che non credo nella casa editrice né nel nuovo Albero, anodino, personale e vetrina di poeti, sia pure notevoli. La tua prima promessa di elevare l'Accademia a ente morale non fu mantenuta, altrimenti l'istituzione avrebbe avuto sviluppo ben diverso, e avremmo immesso nuove forze locali e nazionali. Ma di questo non ti abbiamo mai mosso rimprovero; in contraccambio ti chiediamo, Michele [Pierri] e io che siamo rimasti più colpiti, di risparmiarci la pubblicità e la stampa. Per giustificare il tuo atto basta la naturale evoluzione della tua personalità artistica e letteraria, e la tua volontà di fondazione dell'istituto.
Ti abbraccio e ti auguro buon anno Oreste

Comi replicò a Macrí con questa lettera (58) di cui si offre integralmente il testo

Gennaio 1954

Caro Oreste
molto mi duole che vi siate doluti di una cosa di cui non mi pare che sia il caso di dolersi... Una trasformazione non è scioglimento,. né io ho inteso sciogliere nulla di quel che fu - spiritualmente - legato il giorno della nostra Fondazione (3 gennaio 1948). L'Accademia salentina (1948) diventata Casa de L'Albero (1953) - il quale Albero rappresentava, secondo le tue stesse parole, l'Accademia stessa - conserva e mantiene la sua figura iniziale la quale è tutt'uno con la sua funzione che è quella di una società letteraria ispirata ai più alti valori della tradizione, dell'intelligenza e del cuore. Dialogo sempre aperto, dunque, anche se alcuni sodali si sono allontanati dal nostro ceppo molto prima della trasformazione dell'Accademia. Se l'Accademia non fu eretta ad Entecome era nei miei propositi e nei miei voti - non è perché fosse mutato il mio orientamento, ma perché le mutatissime condizioni economiche da una parte e le difficoltà ad esse connesse e da esse derivanti e determinate, dall'altra, non me lo hanno consentito.
Se ci fossimo rivisti un po' più spesso, ti avrei, vi avrei informato - almeno nei particolari essenziali - delle ragioni e degli impedimenti, tutti gravi e validi, che non mi hanno permesso di portare a compimento il progetto della primissima ora. Ma l'importante mi pare, caro Oreste, è che l'Accademia, ora casa dell'Albero (e casa ospitale come prima e meglio di prima) viva oggi. come ieri, sotto il segno e l'insegna di una Civiltà Letteraria ricca di ambizioni luminose e illuminanti, di propositi attivi e di realizzazioni armoniose. Perché dispiacersi di una trasformazione che non comporta mutamenti ed esclusioni sul piano morale, affettivo e culturale e che sul piano concreto può offrire la possibilità di sviluppi maggiori? Comunque, se peccato c'è stato da parte mia, esso è reperibile nella forma: ché nella sostanza (e in questo caso è la sola che conta) le cose sono andate e stanno come sopra ti ho detto. Manderò copia di questa lettera agli amici.
E intanto continuo a contare sulla vostra amicizia e sulla vostra collaborazione. Tante cose care e credimi con un abbraccio
Tuo aff.mo G.

Dalla lettera di Comi emergono le difficoltà economiche dalle quali il poeta già era irretito (aumenteranno con il passare degli anni) e alle quali va riconosciuto il ruolo preminente in ordine alla decisione di sciogliere il sodalizio. Ma vi furono anche altre ragioni meno palesi. Prima fra tutte, la diaspora di alcuni soci ("alcuni sodali si sono allontanati dal nostro ceppo molto prima della trasformazione dell'Accademia") ai quali l'ingresso nei ruoli universitari apriva altri circuiti, altri spazi entro i quali maturavano nuovi interessi sicché per loro l'Accademia salentina rappresentava ormai una tappa del proprio itinerario biografico e culturale già compiuto, un momento senz'altro positivo ma irremeabile nella storia della loro formazione. Inoltre l'eccentricità del Salento rispetto a Milano, Firenze, Roma, Urbino, ove risiedevano Anceschi, Corti, Macrí, Ferrazzi, Marti, Assunto rese sempre meno frequenti le riunioni e i convegni. Fu allora "L'Albero" ad assicurare continuità allo spirito del sodalizio anche se la sua pubblicazione (come anche la vita dell'Accademia) non sempre fu agevole per certa "abbastanza facile e troppo esercitata malignità" (59) o per altre ragioni evidenziate da Anceschi in una lettera a Comi (60): "[ ... ] Ho riflettuto molto sull'Albero in questi giorni. E debbo dirti che sempre più mi appare giustificata la proposta di fare due grossi numeri all'anno, corrispondenti alle due tornate dell'Accademia. Eccone le ragioni: 1) Le difficoltà delle distanze [...]. 2) La difficoltà di avere buon materiale [ ... ]. E noi dobbiamo avere sempre materiale ottimo [ ... ]. 3) Il rivolgerci a giovani, a nuovi, crea certe difficoltà".
Ma forse veniva meno anche il "bisogno di ritrovarsi" che fu sì vivo negli anni immediatamente successivi alla guerra. La realtà storica e sociale cambiava: l'Italia del '54 non era più quella del '47, la ricostruzione era in atto ed erano meno insistenti i fantasmi della guerra. Sul versante letterario il neorealismo faceva apparire anacronistica (61) certa attività letteraria ma non ne intaccava la sostanza - che oggi riscopriamo - perché "L'Albero" continuava a vivere e a perpetuare "ciò che fu spiritualmente legato il 3 gennaio 1948". Soprattutto lo spirito di libertà a proposito del quale così scriveva a Comi, da Roma, Elio Filippo Accrocca: "Se non ti avessi spedito il mio libretto avrei menomato quell'intimo e serio legame che unisce, ciascuno nel suo lavoro e nella libertà del proprio pensiero, gli amici dell'Accademia salentina [ ... ]. Ognuno di noi è veramente libero di operare [ ... ] a seconde delle proprie convinzioni e delle proprie possibilità. […] Lascia che te ne dia atto onestamente" (62).
Circa il rapporto fra letteratura e vita, ecco quanto Comi dichiarava a Edoardo Gennarini riguardo alle nascenti Edizioni dell'Albero: "I problemi sono disparati, ma tutti tendono alla chiarificazione dell'uomo integrale come sintesi possibile delle esperienze moderne. L'oleificio e la poesia, la casa editrice e l'attivismo economico non sono per me una contaminazione ma frutto di un'unica attività dello spirito [ ... ]. Noi vogliamo con tutto l'ardore richiamare l'individuo alla società, a una ideale società che tuttavia non significa metafisica o simbolo trascendentale" (63).


E fra "stenti che avrebbero stroncato la buona volontà di chiunque", (64) Comi portò avanti, negli anni che gli rimasero da vivere, nella sua Casa (65) che divenne un mito intellettuale e un approdo dell'anima, "L'Albero" che di quella felice stagione dell'Accademia raccoglieva l'eredità e ne perpetuava la consegna di una nobilissima concezione della vita e dell'arte.
Mi è sembrato opportuno pubblicare in questa sede solo alcune fra le testimonianze letterarie o epistolari che giacciono inedite e sconosciute sotto la coltre di un polveroso oblio che fascia la vita segreta dell'Accademia. Una vita fatta di memorie e di sensazioni ancora vive e palpitanti che è dato cogliere sfogliando i fogli ingialliti dell'Album. La nota odeporico-memoriale di Ferruccio Ferrazzi (non fu pubblicata per non so quali ragioni) si trovava in una cartella nella quale erano raccolti alla rinfusa i contributi che sarebbero poi apparsi sul n. 19-22 de "L'Albero" (1954). Essa attiene al Convegno del settembre 1952, di cui si è detto innanzi, e ne fissa, in una prosa lirica vibrante e sospesa, l'atmosfera di aristocratica misura, la tensione spirituale, la Stimmung. Ma soprattutto ritrae i presenti (Maria Corti, Luigi Corvaglia, Oreste e Albertina Macrí, Michele Pierri, Comi) nei loro modi, nei loro gesti che suscitano vaghe risonanze dantesche, "essercito gentile" raccolto, in attesa della sera, in una sorta di valletta dei principi, la casa di Comi, dove "anche le ombre sono amiche". Sullo sfondo, un Salento arcaico e mitico che oggi non c'è più, idoleggiato dall'impressionismo narrativo del Ferrazzi. La lettera della Corti, invece, fa parte di un cospicuo carteggio che la scrittrice milanese istituì con Comi. Fra le tante, ho scelto questa che fa luce sulla polimorfa natura dei contributi apparsi su "L'Albero" e nell'ultima parte affida a una prosa elegante e commossa teneri sentimenti di abbandono lirico e spirituale.


b) Testimonianze inedite.


- L'Accademia Salentina nel diario di Ferruccio Ferrazzi

Sono ripartito da Roma, dopo il Congresso di Assisi, con un caldo afoso. Di buon mattino però fino a mezzogiorno, mi son rifatto rivedendo queste pianure pugliesi, dove l'occhio si sofferma sui bianchi delle case simili a lenzuola, ombre geometriche, sassaie distese, macchie tonde di alberi, trascorrenti fichidindia dalle labbra carnose... Su questa pianura, che il sole quasi impolvera, l'uomo appare un punto, una virgola sul rullo di carta che si svolge al di qua e al di là del finestrino del treno, su cui gli alberi cupi, il biancore delle case, le terre rosse, le pietraie e le opunzie s'imprimono senza fine.
Fantasticavo fermo fuori della stazione di Lecce in un barbaglio di grigiori. Le carrozzelle, da cui son discesi i lussuosi landau, ancora onusti di remoti fasti, si allineavano formando una cortina impenetrabile. Da quella rigatteria animata emerse Gerolamo. Sforzava la sua abituale compostezza per cercarmi. Impolverato di vestito grigio-chiaro, smagrito, mi venne incontro. La sua apparizione disperdeva i dubbi innumerevoli di quei minuti di attesa. Mi parve abbracciare con lui tutta l'immagine di terra e di cose che durava da tante ore.
Seduti come in bilico in una carrozzella, si aveva la sensazione di stare sulla soma ossuta di un asino, così scontorte erano le molle del sedile. Sotto il soffietto alzato, che ci teneva in una botte calda, si andò prima per diritto e poi ci si cacciò tra le viuzze serpeggianti del centro.
Ora l'amico mi accennava all'incendio della sua macchina distrutta giorni prima da un ritorno di fiamma. La sua voce restava sempre quella abituale, dominata, distaccata. Me ne informava, per spiegarmi di non avermi atteso con la sua automobile. La nuova ci aspettava dopo colazione. Gli piaceva che l'inaugurassi io, con quel primo viaggio per Lucugnano. Prima di partire, compimmo una visita minuziosa e interessante alla "Scuola d'arte" di Lecce, diretta con maestria dal pittore Lauriello di Roma. In particolar modo rilevanti le attività d'arte locale, come quelle del ferro battuto e dello sbalzo dirette dal noto artista leccese D'Andrea. L'Istituto intende anche sviluppare l'arte della ceramica con ottimi impianti ed ottimi risultati. (Mi proverò anch'io a trattare su questo materiale l'Albero dell'Accademia).
Eravamo ormai a Lucugnano in casa di Gerolamo: nel palazzotto di garbato neoclassicismo, si snodava l'ampia scala dell'atrio; da grandi olle venivan su intrecci di chiaro verde trapuntato di gelsomini bianchi. Poi le stanze susseguentesi su variazioni di spazio e di cubo. Tutt'intorno una penombra discreta, un'austera frescura, un'ordinata disposizione al raccoglimento. In quell'atmosfera la figura dell'amico acquistava rilievo, emergeva quasi dalle cose: il suo silenzio abituale interrotto da parole rade, dette sempre a mezza voce, gli ordini più accennati che espressi, il sorriso appena abbozzato. In quella luce il suo passo claudicante si alleggeriva. Ma a definirlo, più che la luce, conferiva la penombra, l'elemento più congeniale con la sua spiritualità, così intimamente vigile e tormentata dalla meditazione e pur così serena nelle volontarie certezze. S'intuiva che in lui ogni processo interiore si componeva nell'atto di esternarsi, chiarendosi nell'espressione ferma ed apollinea della fronte. Dominio silenzioso, entro e anche fuori, su se stesso, sulle cose e sugli uomini del suo piccolo mondo.
Nelle sale ovunque libri. La discoteca. Le stanze di un gusto sapientemente sobrio. La terrazza con l'oliveto pénsile, la più salentina delle terrazze, in virtù dell'elaia callistefana. Questi arbusti si allineavano in grandi anfore ancora greche di sagoma, a dominio del sottostante giardino, dove la vegetazione, crescendo rigogliosa, ricomponeva anche intorno alla casa un'atmosfera di penombra.
La sera di sabato 6, Gerolamo fu ancora di corvé alla stazione di Lecce a prendervi Michele Pierri, chirurgo e poeta salentino.
Pierri ha una decina di anni meno di me e di Comi, dal quale mi distaccano tre mesi dal mio marzo. Non ci vedevamo da qualche anno e fu un piacere riabbracciarci.
Ha indole mite e riservata. La sua testa tonda e calva trova l'accento acuto in un naso sottile fino all'arguzia volterriana, ma la bocca devia in bontà umana da un mento che ferma il viso non scarno.
La pelle rossiccia si fa lucida intorno ai pomelli infantili. Gli occhi mobili si muovono vigili dietro le lenti. Dall'andatura compassata si direbbe calmo. Ma è una parvenza. La sua anima candida si muove come fiamma al soffio più lieve. Un cenno casuale ci ha consentito di conoscere le sue traversie di "estremista", durante il ventennio. Ma abbiamo dovuto cavarglielo di tra i denti, tanto si faceva vergognoso a rievocare queste testimonianze della sua nobiltà d'animo. Ha stemperato il racconto in particolari scherzosi: durante un anno di galera, ebbe la sua cella accanto a quella del brigante Salomone; sull'una e sull'altra avevano appiccato il cartello "soggetto pericoloso". Ma nel tono quasi afono e scolorito della narrazione, sotto quell'apparenza di rassegnata volontà, tu avvertivi la tempera di acciaio, la passione inesausta della libertà. Anche ora egli vive votato a questa testimonianza rischiosa: padre di dieci figli, col genitore ottantenne a carico, corre il pericolo di essere cacciato dall'Ospedale di Taranto, dove per trent'anni ha prestata con valentia e umanità incomparabili l'opera sua. Eppure condisce la sua amarezza di sali casalinghi sulla superstizione della sua compagna di vita, che dagli elementi più disparati ricava l'oroscopo dell'incerto avvenire. Non sai quanto in lui sia istintivo o volontario della sommissione alla legge della sua vita, che un destino non propizio domina. Vero è che nel suo spirito si contemperano le intuizioni del chirurgo con quelle del credente. Infatti, com'è esatto nello scientismo, così è esatto nel suo cattolicesimo, che si fa preciso sino alla regola. La sua Comunione nell'ambito della fede si alimenta di certezza; il dubbio, anche il dubbio degli altri, suscita in lui, quando s'impegna in discussioni, risonanze interiori dolorose, che si traducono fin nei tratti del viso ieratico.
Domenica, 7 settembre. Più che vederla, sentii arrivare Maria Corti, durante la Messa, celebrata nella breve ampiezza della Casa.
Davanti all'altare spoglio s'appesantiva la figura del sacerdote Monsign. ... A riscontro una Madonna del Dolci (La copia non dava più che un vuoto contenuto originale sfumato seppure aggraziato. Mi teneva il ricordo nostalgico delle tante copie che in altri tempi ne facevamo in casa mia per arrotondare il proprio bilancio). Mons. ..., curvo sul messale o fra le diverse mansioni del rito, rendeva un senso penoso di sforzo, ansimando. La voce grave s'arrochiva sul testo latino; il capo grondava sudore. I movimenti stentati, strascicati. Sicché l'apparizione di Maria Corti così agile, sarei per dire dell'andatura alata, mi liberò d'incanto dalla suggestione di fatica che mi aveva impedito di rivivere il santo Sacrifizio.
La Corti ha un'anima sensibile. Avvampa e scolora con una frequenza che colpisce. Ma forse per effetto della dimestichezza con gli studii analitici della filologia, in cui è versatissima, era lontana dall'immedesimarsi, come m'immedesimavo io, nella trascendenza dell'Atto.
Dopo la Messa, io Pierri con la Corti, parlammo delle sue cose: il suo bel saggio di canti funebri greci 6 6 vivi ancora in questa terra del Salento, ch'ella pubblicò sull'Albero, finché non sopraggiunsero, con Gerolamo, Oreste Macrí, la sua Signora Albertina e Luigi Corvaglia. Luigi Corvaglia, che non avevo ancora conosciuto di presenza, mi strinse la mano con cordialità irruente nella sua enorme, come in una morsa. Un petto da ulivo salentino. La testa, piantata su larga base quadrata, par che esca dalla toga di un senatore romano. La Signora Albertina, con gli occhi che si socchiudono in celeri alternative, sorride ai fiori di alcune folte campanule chiare. Il marito protende il volto, in atteggiamento abituale di ricerca, come fiutando. Incede con passo rapido, ora si arresta, ora gira intorno, col fare di un segugio di razza. Gli occhi acuti, rifratti dalle lenti, hanno una mobilità penetrante da inquisitore spagnolo.
Il discorso si mosse dapprima svagato, a sbalzi, accordi preliminari di un concerto. Fu lanciata l'idea di andare nel salone delle riunioni. Io avrei fatto un appunto ad acquerello, mentre gli amici discutevano. In breve l'annotazione fu pronta: un ambiente dalle lunghe luci-oro. Divano e poltrone su altro tocco di giallo, tavoli e scaffali. Tra questi il tratto di un nero, di un rosso viola. il gesto di qualcuno accennato...
Poi, cercando la frescura e l'intimità, ci trasferimmo a tener la seduta nella saletta di redazione dell'Albero. Ambiente raccolto accanto alla terrazza, presso gli ulivi del poeta, che già conosciamo, aperto sulla linea di platea dolce sulle rocce grigio-rosa macchiate dagli scuri degli alberi che Vincenzo Ciardo ha fissati così suggestivamente nei paesaggi dei suoi bruciati e gli ulivi intrisi di cielo folle di luce che da quell'abbaglio respinge l'occhio alle cose più vicine.

La seduta
Oreste Macrí, a nome di tutti, simpaticamente volle che io iniziassi le comunicazioni all'Accademia, dopo tanto che mancavo alle sedute.
Così in parte spiegai a voce il movente artistico e religioso del tema, in parte lessi alcune note preparate il giorno prima.
"Risalire la montagna" fu il mio tema, sul presupposto di due antinomie sorte in un medesimo tempo e clima: Michelangelo e Leonardo, entità, la prima ancora medioevale come spirito ultimo che raccoglie il coro di epopea eroico-religiosa nell'architettura dell'uomo e la plasma sulla montagna Cristiano-Cattolica - l'altra in Leonardo, inquietante proiezione dello stesso Medioevo, sul pieno Rinascimento. Magico e corrosivo "il voto nasce quando speranza more", è sua espressione, liberazione nel mondo del dubbio e della indagine speculativa, dove arriva a creare il Demiurgo della libertà assoluta anche nell'arte, nella pura astrazione dal valore fisico e rappresentativo delle cose.
Le conseguenze furono vicine e lontane le più varie ed opposte, fino a potervi rintracciare i germi negativi del nulla di oggi. Nel 1914-15, investito giovanissimo dalle fiammate futuriste che mi bruciarono i residui di visioni pastorali Segantiniane, proprio su Leonardo dovevo ritrovare, non più i primi elementi disegnativi appresi nell'adolescenza dai suoi studi, ma la misura di uno "spazio prismatico" e di moto non meccanico futurista, cioè la "unità dinamica delle passioni", forza drammatica espressa nelle due prime versioni cubiste "dei caratteri della famiglia", quella del 1917 esposta a Milano al Cova nella mostra futurista, quella definitiva del 1922-23, svolgimento simultaneo di un romanzo interiore pittorico, come in Ospedale 1918 e Ballo, che furono esposti a Ginevra nell'Internazionale del 1920.
Ora questi problemi sono ripresi e sviluppati con altra ampiezza di contenuto nelle ultime concezioni spaziali religiose degli affreschi recenti.
Ma la libertà nell'arte, conclusi, se ci riporta l'inquietante problema individuale, lo frantuma di fronte alla collettività sempre più distratta nella sensibilità delle ricerche e delle notazioni di una realtà ridotta ad ornato e giroglifico oppure autobiografiche.
Ed allora, fatto tesoro delle esperienze raggiunte, non possiamo fare e disfare con una polemica individualistica e corrosiva, ma, abbandonando una parvenza di libertà com'è ridotta l'arte attuale, occorre risalire la "Montagna di quel medioevo", dove l'artista ritrovi attorno a sé chi lo comprenda da uomo a uomo in una necessità operante di "Ordinazioni".
Le obiezioni cordiali furono varie:
Pierri domandò quale può essere questa forza coesiva per l'arte nella società: lo Stato? Io risposi: la Chiesa, come timidamente e contrastatamente è nella ripresa.
Maria Corti trovò simbolico il mio raffronto più che realistico. Corvaglia accentuò il problema centrale "della dinamica delle passioni" su quella della movibilità delle cose con rapporti delle concezioni dello Scaligero e di altri pensatori del cinque-seicento.
Comi condivise l'aspirazione dell'arte in un contenuto sociale e corale religioso.
Macrí, da pari suo, fece delle riserve. Queste grandi figure del Rinascimento, poste nella loro realtà storica, restano in una marcia parallela di ordine umanistico. In quest'ordine, anche se esso può dividersi in una visione, corale l'una e individualistica l'altra, Leonardo resta il simbolo di un arbitrio intellettivo dell'arte contemporanea nella concezione di spazio tempo, fino allo schematismo trascendentale dell'estetica kantiana, nella libertà che Apollinaire ha ravvisata.
Così ebbe termine la seduta. Già la Tina aveva preparato il pranzo nella sala delle agapi accademiche dei dodici.
Senza gravi problemi, anzi divagando su l'Islamismo di Corvaglia, sull'ordine e sul paganesimo della vita allietate dalle contenute postillazioni delle Signore, grati della ospitalità di Comi definita "dono da lontani re agli amici", tutti andarono a riposare per il caldo. lo rimasi a parlare con Corvaglia che mi aprii spiragli sul prossimo passato trascorso, sull'umanismo, sui suoi studi filosofici, sull'antica origine dei luoghi di S. Maria di Leuca faro di Atena come oggi venerato Santuario della Vergine.
Bella serata salentina. Per la pianura fonda diffluivano gli aspetti del giorno. Sotto la volta del cielo si raccoglievano le luci del sole al tramonto. Dal mare vicino, veniva il vento sugli ulivi e sugli aranci. Più tardi si diffondeva un chiarore che verso la costa sembrava un'alba. S'insinuava sospesa la luna con la curva verso terra, orlata nell'ombra del quarto dopo il plenilunio. Sembrava un sasso enorme. Così l'ho dipinta sopra il pastore nell'affresco di Cascia.
E sospesi erano anche i discorsi di tutti noi, raccolti sulla terrazza, raggrumati come sassi nel cielo. Comi quasi timidamente disse con la sua voce lenta, bassa e pausata, nei punti salienti scandita: "II campo aperto dell'Albero resta senza testimonianze per quello che deve essere la ossatura ideale della crescita dell'albero stesso nell'opera integrale del Cristiano. Sull'agitarsi delle passioni e delle idealità opposte in conformazione teorica, se mi arrivano risposte lontane, tra noi invece pullulano sì le riserve e i dubbi di ordine formale, ma non si entra mai nel vivo del problema".
Vi fu una pausa, poi Macrí, con la sua greggia chiarezza, rispose: "Caro Gerolamo, il tuo dogmatismo è troppo implacabile e feudale. (Anche Comi rise con tutti noi.) La tua conseguenza è reale ed attiva, ma, permetticelo, noi non possiamo seguirti fino a questo tuo rigore e sopprimere il dubbio e la volontà di trovare da noi e in noi un nostro equilibrio. I nostri studi e la collaborazione all'Albero sono per se stessi la testimonianza di tanti apporti in questo campo comune".
Così la conversazione si conchiuse, in fraternità, dopo che Macrí ebbe parlato del Cervantes, dell'Ariosto, dello sviluppo epico e romantico nella Spagna.
Salutammo Corvaglia diretto alla sua casa non lontana.
Io e Pierri scendemmo nel giardino, mentre la macchina era pronta per accompagnare Oreste Macrí e la Signora con Maria Corti a Maglie.
In un clima così denso di problemi, il miglior saluto che potemmo farci fu l'augurio di continuare un discorso che resta sempre aperto ad altri imprevisti sviluppi, all'ombra dell'Albero di Lucugnano.
Ferruccio Ferrazzi
Roma-Lucugnano, 5-9 Settembre 1952


- Lettera di Maria Corti a Girolamo Comi

Como 29-11-55

Caro Comi,
perdoni il ritardo con cui la ringrazio dell'invio di parte delle copie dell'Albero, ma la colpa di tale ritardo sta nella vita assurda che faccio quest'anno (ginnasio a Corno e università a Pavia); così assurda che per poco la continuerò. Ma di questo discorreremo a voce a Natale. Ora non desidero che discorrere dell'Albero, del bellissimo numero dell'Albero; dico bellissimo non per farle un complimento, né perché proprio tutti gli articoli mi piacciano, ma perché il numero è costituito da una ricchezza di apporti e da una varietà di ricerche che veramente fa della rivista una realtà non paragonabile ad altre - l'Albero è nato e resta una rivista speciale, su cui scrive un poeta maledetto di fianco a un filologo, un cattolicissimo di fianco a un marxista, e, qui viene il bello, il tutto fa unità, fa lo spirito dell'Albero. Come questo avvenga è difficile a definirsi, ma avviene; e buona parte del merito sta nel suo direttore, nello spirito della casa del suo direttore... - Ecco perché è lei che dobbiamo ringraziare di donarci l'Albero. Dei particolari discorreremo a voce; è veramente un numero interessante. Esso poi è penetrato questa volta in nuove sedi, per l'invio delle copie fatto da me, e a voce le dirò i favorevoli commenti. Le altre copie promessemi non si prendano il disturbo di spedirmele; me le daranno a Natale e io le invierò dalla Puglia stessa.
Arrivederci presto e, speriamo, con calma; vorrei fare una lunga e bella chiacchierata con lei e con gli amici.
Come sta? Se sapesse che autunno dolcissimo di odori e di luci abbiamo avuto sul lago questo anno; vi erano giorni in cui tutto era biondo, le colline cariche di foglie ingiallite, le case, i tetti, il cielo pieno di sole. Da due giorni è scesa la nebbia, che sempre mi confonde e mi incanta 67 per quel suo rendere tutte le cose tremanti nell'ombra. Ieri era così fitta che ho sbagliato strada; che c'è di più bello che essere condotti a dover scoprire daccapo il proprio paese e la propria casa? Se non mi desse in dono i reumatismi, la nebbia mi farebbe felice; è l'aspetto più avventuroso che il mondo possa prendere.
Ma quanto chiaccherare! Mi perdoni.
Tanti affettuosi saluti
Maria [Corti]


NOTE
1) Cfr. l'Album dell'Accademia (d'ora in poi citato con la sigla Am) f. 4. L'Album, come ho già avuto modo di dire nel mio Lettere inedite di Giorgio Caproni a Girolamo Comi (su questa stessa rivista, n. 1, gennaio-marzo 1991), è un inedito brogliaccio zibaldonesco in cui sono manoscritti i verbali sia delle sedute che dei convegni del sodalizio. Vi si registrano anche versi, meditazioni, disegni (quasi tutti estemporanei) di intellettuali che frequentarono casa Comi e di semplici amici o estimatori del poeta. L'Album è conservato, insieme con i manoscritti utilizzati in questa sede, presso l'archivio storico di Casa Comi in Lucugnano il cui personale ringrazio (in particolare i sigg. Indino, Minerva e Bramato) per aver favorito le mie ricerche.
2) Cfr. MARIO MARTI, Un modesto tributo d'anamnesi comiana, vent'anni dopo, in "Giovani realtà", VIII, n. 28, ottobre-dicembre 1988, p. 127. Marti ricostruisce, in questo saggio, la storia dei suoi rapporti amicali con Comi: "La nostra conoscenza, che poi divenne affettuosa amicizia, ebbe origine con l'istituzione dell'Accademia salentina da lui programmata, fondata e generosamente sostenuta fino all'impossibile. Affettuoso e sempre illuminato tramite dell'inizio dei rapporti tra me e Comi fu, naturalmente, Oreste Macrì. Fu lui che suggerì il mio nome come membro dell'originario Comitato" (Ibidem).
3) DONATO VALLI, Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Milella, 1985, p. 135.
4) VITTORIO BODINI, Lettera pugliese, in Panorama dell'arte italiana a cura di M. Valsecchi e U. Apollonio, Torino, Lattes, 1951, pp. 169-171.
5) Ibidem. Sulle posizioni antiermetiche di Bodini maturate dopo la guerra, si vedano almeno ARMIDA MARASCO, Introduzione a "L'Esperíenza poetica", r.f., Galatina, Congedo, 1980, pp. XXXIII-XLI, A. LUCIO GIANNONE, Bodini prima della "Luna", Lecce, Milella, 1982, p. 56 e ss. ("I1 primo importante articolo, La cultura tradizionale e la giovane letteratura, è già sintomatico del calore e della passione con cui Bodini ripensava a una funzione da assegnare alla letteratura in un clima storico profondamente mutato, anche in rapporto alle proprie personali esigenze") e, limitatamente ai saggi attinenti all'assunto, AA.VV., Le terre di Carlo V, studi su Vittorio Bodint, a cura di ORESTE MACRI', ENNIO BONEA, DONATO VALLI, Galatina, Congedo, 1984.
6) DONATO VALLI, Op. cit., p. 136.
7) FRANCO MARTINA, Il fascino di Medusa, per una storia degli intellettuali salentini tra cultura e politica (1848-1964), p. 227. Si veda anche ID., I cento anni di solitudine del letterato salentino, in "Contributi", V, n. 2, giugno 1986, pp. 29-35.
8) MARIA CORTI, Intellettuali e cultura a Lecce, "L'immaginazione", n. 44-45, agosto-settembre 1987, p. 16.
9) FRANCO MARTINA, L'Arcadia nel Salento, in "Quotidiano" del 7 gennaio 1988.
10) MARIA CORTI, intellettuali ecc., cit.
11) Ibidem.
12) MARIO MARTI, Un modesto tributo ecc., cit., p. 119.
13) Nel confermarmi che fu Ferruccio Ferrazzi e non Vincenzo Ciardo l'autore del disegno che raffigura un ulivo sulla copertina de "L'Albero", l'illustre studioso mi ha fornito anche altri particolari sulla scelta del disegno di Ferrazzi preferito a quello di Ciardo. Se ne dirà innanzi.
14) Cfr. GINO PISANO', A proposito di Comi, inediti salentini di Alfonso Gatto, in "Sudpuglia", XVI, n. 2, giugno 1990, p. 103 e ss. e ID., Lettere inedite di Giorgio Caproni ecc., cit.
15) Cfr. Cronaca della Fondazione, "L'Albero" (d'ora in poi citato con la sigla AL), n. 1, gennaio-marzo 1949, p. 7.
16) Ibidem, p. 8.
17) Ibidem.
18) Il termine fu scartato come eponimo e gli si preferì quello di "Accadernia Salentina" perché "non si sospettasse alcunché di torbido e di utopistico" ibidem.
19) Ibidem.
20) Ibidem.
21) Cfr. CARMELO INDINO, ENRICO MINERVA (a cura di), Girolamo Comi uomo di ogni giorno, Gallipoli, Nuovi orientamenti oggi, 1990, passim. Il volume racchiude numerose testimonianze circa l'impegno di Comi teso al riscatto della realtà sociale lucugnanese e salentina in genere.
22) In AL, Cronaca ecc., cit., ibidem,
23) Ibídem.
24) Ibidem, p. 9.
25) Ibidem.
26) Cfr. INDINO-MINERVA (a cura di), op. cit., passim.
27) FRANCO LATINO, Girolamo Comi fra luce e armonia, l'ansia dei raccordi e i tempi d'una voce interiore, in "Uomini e libri", Milano, Novembre-Dicembre 1990, XXVI, p. 30.
28) Cfr. Am, f. 5, verbale del 29 febbraio 1948.
29) Cfr. AL, 1, 1949, p. 78.
30) Ibidem, p. 79.
31) Ibidem.
32) Cfr. GINO PISANO', Tommaso Fiore e Luigi Corvaglia attraverso lettere inedite in "Contributi", V, 1, marzo 1986, pp. 65-79 e ID. Girolamo Comi e Luigi Corvaglia fra teologia e misticismo, in "Nuovi Orientamenti oggi", Gallipoli, XIX, 1988, n. 106-111, pp. 21-44.
33) Si legga il suo La religione oggi, in AL, Aprile-Dicembre 1949, pp. 81-93, una "quasi requisitoria contro la Chiesa" come lo definì Comi, ibidem, p. 93, che ad Assunto replicò, insieme con O. Macrí, sullo stesso fascicolo alle pp. 93-97.
34) Dei suoi saggi di estetica si vedano almeno ROSARIO ASSUNTO, Forma e destino, Milano, Comunità, 1957, ID., Teoremi e problemi di estetica contemporanea, ivi, Feltrinelli, 1960, ID., Giudizio estetico, critica e censura, Firenze, La Nuova Italia, 1963, ID., Stagioni e ragioni sull'estetica del Settecento, Milano, Mursia, 1967.
35) Cfr. Verbale del Convegno del 12 agosto 1948, AL, n. 1, 1949, p. 78.
36) Ibidem.
37) Ibidem.
38) Cfr. Verbale del Convegno del 27 agosto 1949, in Am, f. 20 e AL, n. 2-4, 1949, p. 113.
39) Cfr. AL, n. 5-8, 1950, p. 117.
40) Ibidem.
41) Cfr. nota 33.
42) Ibidem.
43) Cfr. Am. f. 10.
44) Ibidem.
45) Ferrazzi, romano, era ordinario di Decorazione presso l'Accademia di S. Luca a Roma. Spirito inquieto, fondava la sua visione del mondo su una gnosi mistico-cristiana. E' fra i più notevoli artisti italiani del Novecento.
46) Si vedano a proposito GABRIELE DE ROSA, Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Bari, Laterza, 1978 (a p. 72: "[ ... ] si moriva donando terra alla chiesa perché la chiesa con la rendita [degli ulivi] facesse celebrare messe in suffragio delle anime dei defunti"), e BRUNO PELLEGRINO, L'ulivo e l'aldilà, in AA.VV., Chiesa e Società a Carmiano alla fine dell'antico regime, a cura di M. Spedicato, Galatina, Congedo, 1985, pp. 87-99.
47) La testimonianza mi è stata resa, con la solita squisita disponibilità dal prof. Oreste Macrì che vivamente ringrazio.
48) Cfr. Am, ff. 37-43.
49) Luigi Corvaglia, in quegli anni, attendeva alla stesura di alcuni saggi sullo Scaligero che videro la luce sul "Giornale critico della filosofia italiana" (GCFI). Cfr. LUIGI CORVAGLIA, La poetica di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, in GCFI, fasc. II, 1959, pp. 214-239 e ID., L'autenticità e la paternità della poetica di G.C. Scaligero, ivi, fasc. IV, 1959, pp. 462-484. Per ulteriori rimandi bibliografici cfr. GINO PISANO', Carteggio inedito fra Bruno Nardi e Luigi Corvaglia: fonti per l'identità Scaligero-Bordone, in "Otto/Novecento", XIII, 5, Settembre-Ottobre 1989, pp. 185-210.
50) il sonetto è manoscritto da Macrí e firmato con sigla O. M.. A pie' di pagina si leggono il luogo e la data di composizione (Montesano Salentino, 1940). Cfr. Am, f. 66.
51) Ibidem, f. 68.
52) Le sue riflessioni confluiranno poi in un saggio; cfr. LUIGI CORVAGLIA, Note su Gerolamo Baldovino, in AL, n. 19-22, 1954, pp. 83-87.
53) Cfr. Am, f. 78.
54) Tesi confluita poi in varî scritti, Cfr. GIROLAMO COMI, Piccole note intorno a un grande dramma (André Gide), in AL, n. 13-16, 1952, pp. 86-93; ID., Il dramma di Gide, "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 4 febbraio 1959; ID., Letteratura e orgoglio, "Il Popolo" del 19 agosto 1960, p. 5; ID., Gide e il peccato contro lo spirito, "La Fiera letteraria", Roma, 26 novembre 1961. Sul rapporto che Comi istituì con la cultura francese cfr. DONATO VALLI, Preistoria di Comi, in AL, XXIV, n. 55, 1976 (n.s.) pp. 51-83 (ora in ID., Girolamo Comi, Lecce, Milella, 1977 pp. 33-77) e MARINELLA CANTELMO, Comi prosatore, Cavallino di Lecce, Capone, 1990.
55) Cfr. Am, f. 92.
56) Presenti Oreste e Albertina Macrí, Pierri, Corti, Ciardo, Comi. Macrí legge una parte di un suo studio sulla poesia di Comi e commenta uno scritto di Assunto su Picasso. Cfr. Am, f. 98.
57) Cfr. "La Fiera letteraria" del 27 dicembre 1953, p. 5 (""L'Albero" fiorisce d'inverno", art. a firma M. S.).
58) La lettera da me ritrovata è in veste di minuta. Ne ho già pubblicato un passo nel mio Lettere inedite di Giorgio Caproni ecc., cit.
59) Sull'argomento Cfr. le lettere di Anceschi del 23 dicembre 1951 (si parla di una non vera "notizia della fine dell'Accademia" che suscita una sdegnata reazione in Anceschi: "Io penso che non è possibile, [ ... ] che di vero c'è solo una piccola e abbastanza facile e troppo esercitata malignità"), del 17 febbraio 1952 ("Parlando dell'Albero con Sereni [ ... ] mi ha detto di aver saputo che 'questo è l'ultimo numero'. So per certo che non è vero; ma queste voci sono spiacevoli e bisogna stroncarle. Non ho saputo la fonte. Sereni non l'ha detta - ma posso immaginarla [ ... ] - Non credo che tu sia ancora giunto al fondo della conoscenza della perfidia del 'mondo letterario'. E' veramente un 'vaso amaro', un 'calice triste' quello da cui dobbiamo bere"), del 29 maggio 1955.
60) La lettera è del 9 febbraio [1953]. Anceschi era stato cooptato, come socio dell'Accademia, da Comi tramite Macrí. Cfr. lettera del 12 gennaio 1948 ("[ ... ] Grazie, dunque, della 'chiamata' e dell'invito. Ed io che porto affetto alla Puglia [ .... ] mi auguro di portare un buon contributo, se gli anni ci saranno clementi").
61) Cfr., in ambito salentino, NICOLA CARDUCCI, Foglie secche, "Il Campo", 10, Maggio-Luglio 1957, pp. 22-25.
62) Lettera del 5 gennaio 1952.
63) Cfr. EDOARDO GENNARINI, Cenacoli e mecenati del nostro tempo, "Il Mattino" del 26 novembre 1955, p. 3.
64) Cfr. VINCENZO CIARDO, Solitudine di Comi, "I1 Corriere di Napoli", del 18 novembre 1962, p. 3 ("Mancando di una sicura base finanziaria, non legata a particolari interessi, la rivista è andata avanti come poteva, tra stenti e difficoltà che avrebbero stroncato la buona volontà di chiunque").
65) Comi si avvaleva anche dell'apporto della redazione romana della rivista. Fra i redattori della Capitale figurano Assunto, Falqui, Cassieri, Marti, Salvini, Caproni, Del Pizzo, Accrocca, Ulivi, Necco, Prati e Petroni. Cfr. i verbali del 15 e del 18 marzo 1953.
66) MARIA CORTI, Panta Nifti Scotini: Sempre notte buia, in AL, III, 1950, pp. 72-80.
67) Il fascino che la nebbia ha esercitato sulla Corti ritorna anche in una bella similitudine nel suo Guido Cavalcanti e una diagnosi dell'amore, cfr. MARIA CORTI, La felicità mentale nuove prospettive per Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, p. 3.


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