§ Un poeta lucchese - 'salentino'

Profilo di Stefano Coppola




Gino Pisaṇ



Premessa
Il primo impatto con la poesia di Stefano Coppola (Roma 1951-Lucca 1982), inedito poeta morto suicida, mi rivelò un universo sepolto da un tragico destino e da un demonico silenzio che, per circa dieci anni, ne aveva fasciato la vicenda esistenziale; da essa traevano origine quelle forme tanto complesse e roride di pathos quanto nuove e intriganti per il turbinìo di varie suggestioni (heideggeriane, simboliste, anarco-individualiste) incrociate con la più pura lezione dei grandi maestri del Novecento radicalizzata in una soluzione affatto autonoma e neoromantica (1):

"La poetica della parola di Coppola è di certo ripresa dai padri del Novecento, in ispecie dall'Ungaretti del Sentimento del tempo [ ... ] ma pure dal sillabato dell'Allegria; [ ... ] in questi vasti affreschi liberi e musicali la poesia dei maestri protonovecenteschi si rigenera alle fonti romantiche" (2).

Oltre che assimilata e riflessa, l'influenza della tradizione culturale europea si manifestava spontaneamente, nella poesia di Coppola, come risultante di rifrangenze storico-antropologiche, trascesa nel momento stesso in cui veniva allusa, sussunta e proiettata, per poligenesi, in una dimensione poetico-esistenziale radicata nell'esperienza collettiva di una generazione neoscapigliata nutritasi del pensiero di Marcuse, della poesia musicale di Dylan o dei versi di Gregory Corso.
Sorpreso ne scrissi a Macrí. Confortante il riscontro, tangibili ora i risultati: Stefano Coppola, Poesie scelte, edizione e studio introduttivo di Oreste Macrí, Lecce, Manni, 1992. Alla luce di questa edizione e lungo il solco tracciato dall'insigne Maestro magliese-fiorentino procede ora il mio che intende segnalare il poeta al lettore pugliese in particolare, poiché Coppola ha radici salentine: il padre, illustre chirurgo a Lucca, è nato a Lucugnano e lì ritorna periodicamente, mai avendo reciso il legame con la sua terra cui anche Stefano, come vedremo, era fortemente legato.

1) Il contesto. Fra mito e ideologia.
Alle origini di questa poesia vi è un grumo di antinomie determinate dal conflitto irrisolto fra ,coscienza intellettuale' e senseawareness cui corrispondono due poli tematici e comportamentali così riducibili: mito e ideologia, vita e morte, conato mistico e depressione. Tale lacerazione riflette un contrasto endemico alla società tecnocratico-capitalistica e funzionale alle sovrastrutture ad essa organiche nel momento della sua massima concentrazione: azzerare il mondo dei valori, nell'ordine del calcolo e della 'previsione rigorosa' (Weber) del capitalismo, implica un processo di pianificazione e annientamento dell'individuo nelle fauci di un nuovo Leviatan che lo coarta ad abdicare alla sua sovranità (3). Nel momento in cui si fa strada, nella persona più sensibile, la coscienza dell'esproprio di sé in ragione del profitto e del consumo (4), un triplice ordine di percorsi le si prospetta: l'anarchismo militante e utopico, il rifiuto del presente (conseguenziali lo smarrimento e la fuga dal mondo della storia che, negata nelle dimensioni del quotidiano e del reale, si riscatta solo attraverso il suo recupero alla dimensione mitica dell'arte), il suicidio. Di volta in volta che la coscienza intellettuale dissolve le àncore di salvezza e vieppiù rivela la natura utopica e fantastica del mito, sempre meno si riconosce alla poesia uno statuto messianico. Allora il circuito si sclerotizza e conduce l'individuo alla catastrofe di sé: non resta che l'azione eversiva o la mistica del Nulla.
Stefano Coppola fu attratto nel cerchio del nichilismo ("Non credo alle leggi di un Dio rivelato [ ... ] cattiva coscienza sepolta nella farsa della virtù civile", B2, 2) allorché si sentì preda di forze oscure eppure vitali che ne trascendevano la volontà individuale e lo proiettavano, secondo la lezione di Schopenhauer, in una dimensione cosmica e negativa ("Non ho paura di dire la verità / non esiste alcuna verità", ibid.). Il suo non è un volgare suicidio ma un suicidio 'morale' da ricondurre "al peccato originale" della disobbedienza (5), proprio di chi avverte come colpa ("peccato interminabile", ibid.) come handicap e condanna la propria condizione borghese, sicché ha le sue radici più profonde nel determinismo della stessa società (Durkheim) (6) nella fattispecie in quella degli anni Sessanta del Novecento, la società della 'contestazione globale' che caratterizzò gli anni terminali del decennio in parola. Coppola è un esponente di quella generazione nella cui protesta allignano le prime spore della sua poesia come effetti di un clima che, se non lo coinvolse nell'azione, tuttavia si trasfuse nella sua anima e ne influenzò la visione del mondo. Il capitalismo gli appare come Gog e Magog ("Non credo alle leggi di una società sordida e stupida / al nero profitto di giorni assassinati", ibid.) macchina mostruosa che fagocita l'individuo, distrugge la sua innocenza e la sua volontà, vanifica la sua aspirazione alla felicità ("Non darei un attimo della vita / per tutte le vostre certezze", A2, 59; "Non vi cerco non vi amo [ ... ] lo sono la coscienza che avete rifiutato", ibid.). In questa 'scoperta' il nucleo seminale del suo ribellismo

"Il mio cuore è inaridito [ ... ]. Non vengo con voi dove tutto è dettato / non voglio andarmene a spasso per questa città [Lucca] / in questi terribili santuari della paura [ ... ] l'argento degli specchi duplicandosi all'infinito / confuso da tante vesti e da tutti questi gioielli / di famiglia così cari" (ibid.).

Contro codesta coscienza di un "universo sorretto dalle sue privazioni" (ibid.), si erge, in un primo tempo, come rifugio e antidoto ("in questo orrore / il seme d'una bellezza", B2, 2) il mito romantico della Natura felix ("può esserci il seme di una bellezza, principio d'una armonia", ibid.) trapunto di panismo e di misticismo novalisiano ("vita sacra trascendente", "comunione eterna di universi", "semi infinitesimali" da cui nascono "inattese visioni", "unità di seme e di pietra", Al, 21 e A2, 22) (7) connesso alla diade individuo-società. Da una situazione di conflitto (anche con la famiglia e col padre) germinano il suo vittimismo-titanismo, il suo streben inesausto verso mondi subliminali (lari, uroboro, 'dimora vitale', archetipo 'materno- seminale'), la sua estraneità che ne fa, in ultima analisi, un novello Attis (devolvit ili acuto sibi pondera silice, Cat., LXIII, 5). Nella sua poesia è già in embrione l'evangelo del suicidio (come unica possibile liberazione-sottrazione alla 'Volontà universale') o, se si vuole, della muliebrità della morte "puella-mater" (Macrí), amata e cercata sub specie matris, nesso che si semantizzerà, come vedremo, nel campo associativo 'notturno-lunare'.
L'ambiguità anagrafica (romano-lucchese-salentino) gli nega perfino l'ormeggio dell'ubi consistam. La 'dimora vitale' si dimidia fra il Salento greco-larico degli avi ("Mia nonna vestiva sempre di nero e camminava ondeggiando dilenziosa e sicura / dava le decime puntualmente alla chiesa e intratteneva sereni rapporti con morti antichissimi", B3, 1, arieggia le nericanti figure muliebri bodiniane) memorato come oasi genesiaca

"Nell'oasi dove mia madre mi nutrii nella luce dorata al sicuro dal tempo si precisò [ ... ] la forma di un desiderio [ ... ]. Nei paesi di rame m'addormentava col suo lento respiro" (A, 109)

solo miticamente attingibile o come terra d'espiazione e di lavacro attinta attraverso la regressione all'infanzia

"conchiglie / bianche immacolate [ ... ] fra la terra / rossa / e le foglie d'ulivo sparse / [ ... ] laggiù immobili / dove sono stato bambino [ ... ]; infanzia fortunata, [ ... ] cicale [ ... ] masserie [ ... ]; Tremano le canne lamentose la via dei padri; aironi bianchi; intricati fra spine i miei sogni" (passim)

e la borghese e 'decadente' Lucca, dimora infema del male e della colpa

"Non voglio andarmene a spasso per questa città [ ... ] Vorrei che questa città vivesse una grande tragedia collettiva [ ... ] che scoprisse tutte le sue carte [ ... ]: una prigione, e ognuno si sente a una festa e ride, passeggia, a ognuno la sua particina" (Al, 27).

Per Coppola il rifugio salentino è ritorno all'uroboro, fugace rigenerazione ("rinascita dal ventre materno nel puro paese dell'anima", M26) che lo vaccina, sia pure per poco, contro l'ennui dello spazio capitalistico (la città) e borghese (la famiglia). Neoromantica questa oscillazione fra fuga e ritorno, rousseauviano-shellyano il sentimento edenico della Natura.
Se Coppola partecipa a suo modo (miticamente) alla contestazione generazionale contro il sistema plutocratico borghese, tuttavia subisce l'influenza dei poeti musicisti (Bob Dylan, Battisti ed altri) assurti, per la Beat-generation, a simbolo epocale come apostoli della protesta contro i cannoni nel cui tuono essi udivano materializzarsi la voce dell'imperialismo americano (Vietnam) e sovietico (Praga). Contro la guerra Coppola scrive la lirica Al, 10 in cui "l'uomo solo / di fronte alla bocca / d'acciaio" esprime lo stesso pathos della ben nota "fucilazione" goyesca, mentre "la città muta / nel canto delle sirene", se nella realtà storica configura Praga, tuttavia diviene il simbolo di ogni città devastata dalle armi. Si notino l'efficacia ungarettiana dei seguenti versi: "ogni passo è sospeso / nell'aria in attesa / di un grido" cui corrisponde il sintagma "anche le lacrime / fanno paura" che è variazione risemantizzata, in un contesto di taglio espressionistico e fonosimbolico (lo "zoccolare secco / dei tacchi d'acciaio") di "anche il silenzio può fare rumore" (Cfr. Nel cuore, nell'anima) e l'effetto delle mitragliatrici risolto nelle liquide ("Falciate da lame / di luce / le strade"):

D'improvviso
ecco l'uomo solo
di fronte alla bocca
d'acciaio
e l'urlo allucinante
che si alza oltre
le raffiche
non più di terrore
solo di sdegno

Quando più non rimane
il corpo ad ascoltare
i lamenti
solo la dignità
si ribella
allo strazio
del sangue
al pianto di
una città muta
nel canto delle sirene

Falciate da lame
di luce
le strade grigie
e sperdute
si riconoscono senza vita

ogni passo è sospeso
nell'aria in attesa
di un grido

ecco anche le lacrime
fanno rumore
allo zoccolare secco
dei tacchi d'acciaio
al fragore d'uno sparo
lontano

Ad alcuni testi musicali di Battisti rimandano gli "sconfinati deserti" (A2, 42), le colline, gli aquiloni, le praterie ("i prati / dove possa sognare", A2, 67) mentre il theme of flowers, emblematico della protesta hippy affiora, ad esempio, in A2 cit.: "del sangue fatene fiori", "rubate tutti i colori / dai miei occhi / e fatene fiori", "ci vestiamo di fiori" ma qui risemantizzato e funzionale tanto al campo semantico della levitazione ("farfalle", "volare", "volo lontano dei sogni" ecc.) quanto a una tensione sentimentale neoterica di impronta catulliana ("la mia bambina è triste / ed io non so perché / e come farla felice"). Al complesso 'musica-danza-volo', individuato da Macrí, sono afferenti movenze parallele a certe ballate di Dylan. Si vedano, ad esempio, cast your dancing spell my way [ ... ] though you might hear laughing / spinning swinging madly across the sun (8) oppure, in ordine al tema surrealista dell'angelo ("angelo custode, "angeli perduti", "dolcissimi angeli", "angelo vestito di rosso [ ... ] nudità urlante", ecc.), the cowboy angel (9) o in parallelo al tema delle campane di A2, 94 Chimes of freedom di Dylan.
L'apostolato pacifista dello stesso Dylan (Masters of wau) (10) proietta la sua luce sull'ideologia del Coppola e dylaniana, ma in chiave trascendentale, è di Coppola la parenesi "Apri nel silenzio il tuo volto segreto" (A2, 56), inno alla speranza e alla vita dai toni ora raziocinanti, sapienziali, ora trepidanti di contenuto lirico ("Già le tenebre si ritirano / già i monti si illuminano / e vaga il chiarore impaziente / e i colli accolgono la luce dell'alba").
Per meglio focalizzare il contesto entro il quale ha vita il primo tempo della poesia del Coppola, occorre ricordare che il 1969 "rappresenta il culmine rivoluzionario toccato a livello mondiale da una generazione in aperta ribellione contro tutti i sistemi politici esistenti (11). In quell'anno Coppola ha diciotto anni. E' l'anno di Woodstock il cui raduno " segna la fine di un'epoca e la nascita di un nuovo concetto: la nazione Woodstock" (12), ma è anche lo snodo di una cultura anarchica e alternativa che in America assume le forme di un liberismo tribale quale erede ideale "di una tradizione pacifista-libertaria sviluppatasi sul suolo americano e strettamente legata alla tendenza individualista, ma qui integrata dall'aspirazione al cooperativismo in una società nuova, costruita a perfetta misura d'uomo" (13). Nascono le 'tribù bianche', i beatniks, l'Anarchist Circle. Tali 'tribù' sono premonitrici del fenomeno hippy e si ispirano alle millenaristiche utopie degli anarchici americani ('Fratellanze del Libero Spirito', 'Indiani bianchi' e 'metropolitani', diggers) (14). In Italia il fenomeno si riverbera nelle forme deteriori del surrogato e del velleitarismo peggiore per cui "rimane attuale [negli anni Settanta] ciò che altrove non èpiù, fino al turbolento sabba rivoluzionario-permissivo del parco Lambro, una Woodstock ritardata di sette anni, ma elevata, nell'estate del '76, a episodio simbolico della violenta alienazione sociale d'una generazione" (15).
All'attivismo utopico, velleitario e vociante della Beat-generation Coppola, tuttavia, opponeva un argine fisiologico alla sua condizione sociale (remore familiari, "incorporazione sepolcrale", incapacità di tradurre in atto gli aspetti rivoluzionari del pensiero oltre la sfera della letteratura) che non lo lasciò sedurre dal gracidante sperimentalismo (16) e lo ritenne sulle rive della poesia neosimbolista del Novecento. Ma ostava anche un temperamento romantico (fra Shelley e Leopardi) che lo sospendeva fra l'odi et amo, fra ennui e ideal, lacerandolo fino alla voluttà del dolore e della morte. Un tentativo di 'fuga' e di autoaffermazione egli esperisce, ancora diciassettenne, con il primo viaggio a Londra. Smarrito in un universo estraneo, qui compie l'esperienza del clochard

"Enrico mi ha detto che vivo sempre a Lucca ed intendeva dire che sono abituato ad essere riconosciuto ed è vero, sono abituato ad essere qualcuno, a vivere in famiglia, ad essere amato" (AI, 23)

che gli si prospetta come esito estremo della volontà di separazione da un'identità borghese che lo affligge perché inautentica ("Quel mio vestito a righe, che serietà provinciale: mi avviavo verso la banalità" ibid.). Londra gli si manifesta, invece, come il regno dell'ambiguità esistenziale ("Londra parla povertà e benessere, felicità e dolore, successo e fallimento", ibid.), del bivio e della kierkegaardiana scelta ("Londra ti insegna a vivere ma ti lascia anche morire [ ... ] ti lascia solo per decidere", ibid.). All'atteggiamento ribellistico va dunque ricondotto questo tentativo di consumare dialetticamente, all'interno di sé, una nuova esperienza, quella della estraneità 'sensibile', alla cui percezione fisica ostava il cordone ombelicale che lo legava alla famiglia e ne iugulava l'anelito all'assoluta e libera realizzazione di sé. Attinge così quella condizione di guest, finora avvertita solo sul piano esistenziale, anche fisicamente e socialmente:

"stamani, per la prima volta totalmente solo, [ ... ] sono un estraneo ed uno straniero [ ... ]; seduto su questa panchina fumo e penso a Lucca non con nostalgia, solamente come ad una cosa molto lontana" (ibid.).

E' uno statuto che lo affascina e che affonda le sue radici nella cultura maudite prima e novecentesca poi. Per fare un solo esempio, si pensi al Camus de L'étranger. Lucca è il luogo della banalità e delle convenzioni borghesi: "ho sentito una volta un medico che, parlando in generale, mi tacciava di paranoico e malato mentale", (ibid.).
L'individualismo di Stefano Coppola, pur non immune da suggestioni hippies e dalle complementari rifrangenze ideologiche epocali, è di matrice psicologica e letteraria, incapace di metabolizzarsi in azione. Egli, per altri versi, incarna la "profezia" di Weber per la sua coscienza negativa ed ostile nei confronti di una società produttivistica, mandarinesca, anodina che gli ingenera il disagio del vivere e sollecita la risposta individualistica, fino al solipsismo, affidata ai suoi scritti. All'ottimismo metafisico di Leibniz, oppone il "meglio non essere stati". Il migliore dei mondi possibili è solo quello anteriore all'e-sistere.
I presupposti ideologici della sua poesia si radicano nel sentimento del Nulla, nel corteggiamento di una muliebrità "materno-funeraria", nella coscienza, già leopardiana, del fallimento dell'età della tecnica. Coscienza (Macrí vi ravvisa quasi "un ritorno alla crisi vociana, alla ventata nicciana, protonovecentesca del rigore etico di Rebora e di Jahier, dell'esarne di Serra, dell'antiretorica di Michaelstaedter, del cinico ascetismo e peccato di Boine", M32) introiettata come biblica colpa individuale nell'inconscio, riemergente come voluttà non di potenza ma di annientamento per autoimputazione, traslata nella mitopoiesi ma sempre contrastiva con l'anelito all'innocenza primeva, alla solare felicità e al sogno. Nella citata deità trimurti ("musica-danza-volo") si polarizza detto anelito, antigene derivato dall'eroismo romantico, dal volontarismo schopenhauriano, dall'élan vital bergsoniano. Ma il tema più incalzante è l'ossessiva percezione della muliebrità della morte e sua seduzione che i Greci allegorizzarono nel mito delle Sirene (17). Di quella muliebrità la madre e la donna si fanno ipostasi, seducenti imagines di uno statuto biologico per il quale morire è ritorno all'uroboro materno, faustiana discesa al mondo delle madri, regressione patologica ad limina di una vita prenatale edenica. La morte sub specie matris. Questo logos cibelico non produce in Coppola solo poesia ma anche l'esito del suicidio.
L'ethos è il suo daîmon. Il canto delle Sirene si configura, dunque, come scaturigine primordiale della sua mitopoiesi e assume una funzione-charter di archetipo. A quel fondo immanente degli archetipi si correla il canto della madre-morte (" [ ... ] sembrò un disperato rientro nel grembo materno", M16), tema ricorrente, infuso di byronismo ma che si alimenta del virus delle Erinni ed esita misticamente nel cupio dissolvi. Coppola, "notturno-solare", conobbe le antinomie e gli estremi della vita, non la medietà. Il fascino della sua parola è in quel farsi segno di una lacerazione interiore che si esprime nel bipolare dinamismo fra ribellione stürmeriana e regressione, attraverso la 'dimora vitale', all'uroboro. Rimorso della vita eppure anelito alla vita: qui lo statuto del suo "assoluto individualismo [che] investiva gnosticamente la stessa natura umana in strana coincidenza [ ... ] col peccato originale" donde il "rientro nel rifugio larico originario come sconfitta e rimorso, disponendosi il poeta alla soluzione sacrificale autopunitiva della propria vita" (M12-13).

2) Il macrotesto.
a) Espressionismo e surrealismo: la metamorfosi onirico-sacrale (2° e 3° radice della poesia).
Il carattere dominante (e unificante) della produzione del Coppola è dato dalla costante deformazione onirica dell'esistente che chiama in causa tanto l'espressionismo dei toni quanto il surrealismo di costellazioni tematiche legate fra loro da una comune matrice: l'automatismo psichico. Come in Campana, cui sembra assimilarlo una radice di follia

"ma c'è in me, come un destino incrollabile, una lucida malattia che scava e scava senza sosta, un incubo ad occhi aperti che non posso mai dimenticare, che mi ha lasciato solo con il peso inutile della mia coscienza" (Al, 23)

oltreché il sentimento del tempo interiore che bergsonianamente dura, immune da ogni mescolanza (18) empirica e spaziale nella durata, in Coppola si consuma un'esperienza orfica che epifanizza ebbrezze dionisiache ("io sento l'onda del mare in basso / e bevo il buio profumato della notte", A, 38) e pulsioni segrete altrimenti ineffabili

"avverto le oscure modificazioni / e l'alchimia segreta / il lieve soffio / crescere tranquillo / come il fiato d'un corno / e mutarsi / urlo improvviso nella mia testa / [ ... ] Un fruscìo di ombre vaghe / è il silenzio / avverto i legami segreti e le strane combinazioni / (19) [ ... ] / che fremono di piacere / nell'ora notturna" (A2, 60).

Quest'ultimo brano citato non solo sussume le baudelairiane, latenti corrispondenze della "foresta di simboli", ma anche riconduce la gnosi della poesia alla notte (sacra ai mistici, heiligen Nacth, Novalis) che annulla i contorni delle cose e consente l'immunità dalle mescolanze spaziali ed empiriche nell'indefinito e confuso reame del buio, favorendo la chiaroveggenza del poeta, là dove l'indistinto, l'indeterminato, l'infinito è per gli altri argomento di ostacolo e limite alla conoscenza. Ma non solo la mistica di timbro romantico ("il lampo di verità nella buia notte dell'uomo", ibid.) e l'"infrenabile notte" approssimano Coppola a Campana, sibbene anche le suggestioni della nenia

"lontano ritorna la nenia / lenta di pescatori / [ ... ] / si perde lontano fra / sciacqui di remi e lenti paranchi / il canto lungo e notturno d'uomini stanchi" (Al, 22)

che sembra iterare, con la sua monotonia (cfr. la "nenia" degli zingari nel 'notturno' asterisco campaniano), il tempo in una prospettiva non più fisica ma lirica e, ancor più, predisporre al vago, all'indefinito, lo scenario dello spazio. Coppola è poeta della notte sia perché essa è il 'luogo' più consono alla metafisica astrazione e sottrazione delle cose alla fisicità dello spazio, sia perché alimenta quel senso inquieto di malsicura, enigmatica esistenza pervasa dal fremito degli incubi in cui si iconizza una inconscia e panica angoscia. Angoscia heideggeriana che germina non solo dalla dimensione del silenzio che tutto circonda e sanziona l'assenza, ma anche dalla percezione dell'estraneità e del non-senso del mondo.
Heidegger mi sembra il referente più istintivo di questa scrittura che incarna, con aderenza biografico-letteraria, l'esperienza speculativa dell'autore di Essere e Tempo, opera apparsa nel 1926, un anno dopo la prima edizione degli Ossi montaliani, e che rappresenta, sul versante della filosofia, la teoresi di quella deiezione dell'esserci nell'essere di cui risuona l'opera prima di Eugenio Montale ("fugace altalena tra vita / che passa e vita che sta, / quassù non c'è scampo: si muore / sapendo o si sceglie la vita / che muta ed ignora: altra morte", da Tempi di Bellosguardo). Il 'primo' Montale e il 'primo' Heidegger ripropongono un binomio che, per la casualità delle corrispondenze tematiche che lo connotano, evoca l'altro ben noto Leopardi-Schopenhauer e si pone a monte della terza generazione ermetica. L'esistenzialismo heideggeriano rispolvera l'agostiniano redi in te ipsum, però ne ribalta l'approdo: non la verità divina ma la vertiginosa scoperta del vuoto sul quale è sospesa la singolarissima, irripetibile esperienza dell'esserci deietto a vivere come relitto (l'osso di seppia montaliano ne è correlativo oggettivo) nell'essere del mondo: oltrepassare la coscienza del Dasein, scavalcare la semplice presenza, farsi "problema a se stesso" vuol dire per Heidegger esistere, chiamarsi fuori dall'essere, dalla banalità anodina degli altri. Per giungere dall'esserci banale all'esistere autentico e, poi, alla "divina indifferenza" (Montale), alla noia, alla scoperta che la totalità dell'essere è il Nulla ("ciò che non siamo") si passa attraverso l'angoscia kierkegaardiana che non è paura di alcunché di determinato, ma rivelazione dell'"essere per la morte", liberazione dalla banalità e dalle sollecitudini della vita anteriore a codesta scoperta. La poesia e la riflessione del Coppola, la sua stessa vita, come si cercherà di dimostrare mediante il prelievo di alcuni campi semantici, mi sembrano istintivamente innervate su un sostrato tematico heideggeriano. La realtà contingente e storica viene espunta dal Coppola grazie a un processo mistico-nichilista che lo proietta nei mondi delle ossessioni, degli incubi, delle allucinazioni in cui si esprimono la casualità, l'assurdità, il mistero del mondo e dell'esistere creando un regno intermedio fra sogno e realtà. Tale processo non può trovare altro esito stilistico e fatico che nelle forme del surrealismo e dell'espressionismo. A documentare questo assunto, produciamo alcune sequenze enucleate dal corpus delle liriche e delle prose del poeta, a partire dal campo semantico della notte cui si correlano gli altri che via via prenderemo in esame:

La notte mi bacia con la mia angoscia d'uomo (A1, 20). V'erano notti bianche [ ... ] la notte porta impiccati / occhi dilaniati (A2, 86). Ho attraversato la notte [...] versando interminabili tributi al terrore [ ... ] la marca d'un orrore indecifrabile mi raggiungeva / all'improvviso / e l'acqua mi ha sommerso al buio (A2, 101)

dove la notte è archetipo materno (marea-acqua, muliebri come la notte e la madre, semantizzano simbolicamente il liquido amniotico materno) e, insieme, surreale, sacra dimora popolata di visioni allucinanti e declaratorie:

Nel buio / le distese lattiginose della notte / dove sbattevano tele (A2, 104); la notte è piena di pesciolini e d'aironi (A2,111); sanguisughe d'oro pendono / dalle mie tempie (A2, 101); la notte si apre come una piaga infetta sul mondo (ibid.); la cenere di tutte quelle notti (A2, 119); la notte mi bacia con la mia angoscia (Al, 20); l'aria della notte tenerezza di una notte inventata (A2, 112).

All'espressionismo come rifiuto di registrare le impressioni sensoriali e come scoperta di una realtà altra e profonda, assoluta e primitiva, alla sua componente di ribellione antiborghese, antiindustriale, antipositivistica, ma soprattutto a quella specifica atmosfera di sogno che fascia, ad esempio, i drammi metafisici di un Kokoschka (Orpheus und Eurydike, 1918) in cui si liberano le pulsioni dell'Eros mediante un procedimento orfico che è discesa nell'Ade misterioso dell'io, al surrealismo kafkiano compaginato di ombre, incubi, angosce, orripilanti metamorfosi, città leviataniche (in Coppola è Lucca la città-prigione) rimanda il costante dominio del sogno sulla realtà che attraversa la sua scrittura e consente di individuare nell'ossessione della morte il motivo dominante della sua mitopoiesi. In Coppola la fauna èentomomorfa, celenterata, cheliforme, verminosa: "granchi", "vermi", "scarabei", "mosche", "meduse", "lumache", "sanguisughe", "millepiedi", "formiche", "salamandre", "tartarughe", "viscide alghe". Il sangue è una delle parole-chiave afferenti alla sfera arturiano-gotico-goyesca degli incubi allucinatori e profetici del suicidio. Eccone le sequenze (nostro il corsivo):

Ho aspettato che il sangue fiorisse (A2, 72); s'addormentò vide una rosa incatenata / le lacrime di sangue scivolavano a terra / dove cadevano gemme perfette (A2, 59) la punta di una lancia / fiorisce di sangue (A2, 61); la notte livida si piegò per nascondere il sangue (A2, 71); il sangue se lo sono bevuto i cani / le foreste hanno mutato i rami / in labirinti di spade [ ... ] si è sfracellato il capo / a colpi di pietra [ ... ] la gola / imbevuta di sangue già nascevano i vermi [ ... ] la gioia nera del cielo capovolto (A2, 90); fronte che sanguina fiori di sangue (A2, 126); stagno di sangue; dare fuoco al mio sangue (Al, 15); sentii che il sangue mi abbandonava (A2, 134).

Allo stesso campo semantico della morte appartengono sia il cromatismo ("lì salendo da una deformità ondulante e confusa / apparve vestito di rosso un angelo che additandomi / e ridendo sollevò la veste rossa su di una nudità / urlante e scomparve" (A2, 69), che connota la visione spettrale dell'angelo (si pensi all'Angelo surrealista di Dalí del quale questo del Coppola sembra essere una variante) sia gli apocalittici cavalieri e candelabri che irrompono nel buio della notte appena rischiarato da una occhiuta, polifemica Luna-Proserpina:

La luna fu un occhio aperto / sull'infinito [ ... ] Entrai nel buio con candelabri / che bruciavano un olio rancido Nel buio liberai / un dominio di granchi (A2, 71); La bocca si riempie di terra / le orbite vuote [ ... ] / gli occhi pieni di vermi coperti di cenere / tagliati da un'ala della notte cavalieri celesti lentamente si levano in volo bianche creature / fantasmi e spettri (A2, 87).

Si direbbe, se non fosse laico, che Coppola scriva sotto l'influenza di una lettura giovannea, tanto la sua visio richiama tropi e figure dell'Apocalisse. Altre volte i lemuri non sono precisati ma traggono comunque la loro imago dall'automatismo psichico che li fa apparire "fantasmi sgretolati e ricomposti / nel ventre vago d'una eternità vittoriosa" (A2, 103) oppure "occhi dilaniati", "piccoli roditori" che "giungono puntuali" cercando le sue vene o, più dichiaratamente, "incubi armati", visioni che "salgono come le bolle d'aria dalla bocca di un affogato" (A2, 126), "mostri per metà angeli e per metà-puttane" (A2, 134). Sono i correlativi onirici della follia di cui il Coppola, come Van Gogh, avverte l'avvolgente pressura: "E la follia come una cagna rabbiosa / digrignava i denti / ma sono io che l'inseguo" (A2, 135).
Omologhe al medesimo campo semantico e sempre ascrivibili alla linea espressionistico-surrealista risultano le sequenze qui appresso isolate e che si candidano a veicolare i prodromi e la profezia del suicidio incombente, quasi oscuro sortilegio che attrae, come Ate dei greci, verso un altrettanto oscuro limitare. E' l'antico mito delle Sirene (qui "per metà angeli e per metà puttane", cit.) che prende corpo via via che il poeta va verso la morte, sicché il suo canto s'incupisce, si riduce l'area del 'volo' e della 'danza', latita la traccia dei testi musicali di Dylan e Battisti cui si è fatto cenno in precedenza. L'eredità sessantottesca èdissolta: alla radice sociale del suicidio si sovrappone una radice psichica e patologica:

qualcosa di me / è un presentimento di morte (A2, 92); in attesa che si consumi un sacrificio [ ... ] io sono una statua di rame perduta / nel labirinto dei tempo (A2, 97); coscienza inespressa
di un gesto irrimediabile [ ... ] la lacrime versate e le ferite / dove l'ironia non può nulla / non colma alcun vuoto (A2, 104); io sono bianchi cumuli d'ossa (A2, 78); sono solo e terrorizzato [ ... ] nitidamente vedo / le parole rapprese / rotolare nel buio (A2, 81); vado a letto come un condannato a morte (A2, 84); gli altri in qualche modo si salvano (A2, 86); ho attraversato il lago della morte (A2, 101); correrò verso altre superfici [le Sirene] dimentico di me e stupito per sempre d'altre carezze (A2, 103); un gong squarcia la mia testa un gong / un unico interminabile squarcio assordante (dove il gong è omologo alle campane che "scattano" di Baudelaire) (A2, 114); mi incalzava / seguitando ad apparire / per la strada di una determinazione incrollabile (A2, 119); curvatura profonda imbuto dove si raccoglie il cielo / giù - dove divengo pietra e ho paura / dove risalire è un attimo e un tempo interminabile (A2, 129); Nel silenzio / io sento [ ... ] crescere lenta / sicura / la larva di un desiderio (A2, 131); Nell'oasi dove mia madre mi nutrì nella luce [ ... ] si precisò la necessità e la forma di un desiderio che non mi avrebbe abbandonato Da allora scavai cercando il senso del desiderio che s'era impresso in me come un marchio che non sapevo decifrare [ ... ] mi si accucciava sul ventre [ ... ] colle ventose di un polipo (A2, 109); grandi occhi mi guardarono [ ... ]; miriadi d'occhi di fate (A2, 104); lo vedo tutto, vedo quello sguardo orrendo / che si muove [ ... ] strisciando sulle pareti (A2, 129); sprofondo nel mio abisso... non più sogni non più amore (A1, 13).

b) Il neoromanticismo: dalla noia alla "sublime melanconia".
Fra le antinomie che connotano la poesia del Coppola se ne distingue una tutta romantica che consiste nella bipolarità di una oscillazione, lirica ed esistenziale, fra il taedium vitae e il suo riscatto nella sfera del sublime. La noia, in quanto assenza di piacere e di dolore, "divina indifferenza" propria degli "esseri superiori" perché "è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani" (Leopardi, Pensieri, LXVIII), nasce in Coppola, come in chi prima di lui seppe avvertirla e fame oggetto di canto, dalla medesima, heideggeriana, coscienza del vuoto, dell'estraneità, dell'assenza ("chi è in alto, spaziando con lo sguardo oltre l'orizzonte di chi è nella valle prima è preso da stanchezza", Al, 20, sembra ricalcare Leopardi: "Considerate l'ampiezza inestimabile dello spazio, il numero e la mole meravigliosa dei mondi e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell'animo proprio patire mancamento e voto, e però noia, pare a me il maggior segno di grandezza e nobiltà Perciò la noia è poco nota agli uomini di nessun momento e pochissimo o nulla agli altri animali". Pensieri, ibid.). Tale 'valore' assimila il poeta alle voci, sia pur lontane, di alcuni fin troppo noti esemplari del Romanticismo che non occorre evocare in questa sede. Basti solo ricordare che la noia fu, per i romantici, le mal du siècle ma fu anche la radice dello spleen baudelairiano e della scoperta heideggeriana del Nulla.
Coppola, pur radicato nell'esperienza storica del Novecento, appartiene, in virtù di detta antinomia, al romanticismo 'categoriale' dell'anima europea. Ma in lui il negativo si fa visionario e germina la "qualità del sacro" (2° radice macriana della poesia). Collegato al tema della noia, che trascorre questa poesia ("sono stanchissimo e nauseato di tutto, di come passo le giornate, di come vivo senza ragione di me stesso, della mia pigrizia, del mio continuo desiderio di concludere qualcosa senza mai dedicanni a niente") e al suo campo semantico, ma opposto allo streben ("voglia di vivere che non si placa ma che ècontinua insoddisfazione", ibid.) di cui si è detto innanzi, il sentimento del tempo e della vita si precisa via via come evangelo e nonsenso e dell'esistere ("chi vive e lotta e vince e soffre avendo attinto la coscienza della propria inutilità [ ... ] costui fa del non-senso dell'esistenza la propria spada [ ... ]", A1, 21), che solo la "sublime melanconia" (ibid.), esito supremo e salvifico, può esorcizzare. Un accidioso grigiore pervade, infatti, le sequenze deputate alla sua enunciazione e afferenti all'area del vuoto, del deserto, del nulla, della banalità dell'"essere al mondo" (Heidegger):

Quando senti che il senso comune delle cose ti sfugge, ti guardi intorno e non sai dove aggrapparti per ridare un significato al tuo vivere (Al, 21); lo vado con il cappello grigio della malinconia (A2, 75); E' ancora qui / e mi assale questo deserto (A2, 77); Non so come venir / fuori / a certi giorni pesanti / a questa tristezza infinita / di cose torpide / e smorte / di voli sconclusionati [ ... ] / in stanze vuote [ ... ] perennemente grigie (A2, 78); tutta questa vita ai margini [...] nella bava densa dell'estraneità; da infinito a infinito / suonano gusci di lumache vuote (A2, 98); il mio corpo è un simulacro fragile svuotato (A2, 126).

Si aggrega, per senso, a tale area un insieme di semantemi tutti al femminile: pesanti, trepide, smorte, vuote, grigie, nera (tristezza), rapprese, densa, funesta, viola, irrisolta, silenziosa, corrose, nere, viscide (chimere), abissali, cieche, obliqua, esauste, putride, irrequiete, disfatta, profonde, inchiodate, distillata (pena), imperfetta, inerme (dimora), impotente, oscena, rabbiosa, nuda (pietra), rabbiosa (follia), mute (ali), infetta (piaga) così come all'apostolato dell'assenza, alla percezione del disfacimento interiore, del degrado inarrestabile del tutto, rinviano sintagmi dal carattere distopico che, quasi correlativi della noia e della nausea, trapuntano il tessuto linguistico: pena profonda, cortili polverosi, la terra piena di formiche, legnetti spezzati, ali nere, gelsomini ingialliti, porticati decrepiti, il buio delle finestre, nero bleu, il vuoto delle palme, acqua scura, ninfee ferite di amarillis, ciclamini appassiti, scarabei metallici, silenzio di cenere, lava indurita, frammenti di conchiglie sfaldati [ ... ] fossili, fango di cenere, gusci vuoti delle chele, gusci svuotati [ ... ] frantumati, viscide alghe [ ... ] acri, mani cieche, lenzuola vele del silenzio, schermo nero, angolo buio, tempo informe, sguardo opaco, scoglio nero cui si aggiunge l'uso parossistico e martellato del senza, quasi una kermesse che reitera, rintoccando qua e là, il tema e la materica sensazione dell'assenza: "sono solo / senza parole senza voce / con questo deserto senza vita"). Qui un'eco delle leopardiane Ricordanze: "senza amor, senza vita". Poi, ancora, senza la tua voce, senza calore, senza ragione, senza fine, senza niente, senza domani, senza passato, senza sole, ecc.
Alla noia Coppola tenta di opporre l'esperienza odeporica (due viaggi a Londra, del primo dei quali si èdetto innanzi, e altri in Africa) che, però, non vale a contrastarne l'accidia ("Girovagai per i viali di quel commercio / finché fui sopraffatto dalla noia" (A2, 102), ingenerandogli, invece, "una tristezza nera, funesta [ ... ] come il cielo viola" (ibid.). Il sentimento dell'estraneità allora si precisa come "solitudine che rotola nel vuoto" (A2, 105), come status esistenziale istituito per lui ab ovo: "mille esistenze che non mi appartengono [ ... ] fui sempre in fuga" (A2, 104). Conseguenziale la 'caduta' kierkegaardiana-heideggeriana nel vuoto da cui non può redimerlo neppure il rapporto sentimentale che lo lega ad Alessandra la cui voce è come "ferro battuto in una sala vuota" (A2, 129). Anche a lei è estraneo: "Non ero da te stasera: ero straniero, uno che affoga" (Al, 23). Rinterzano questo nucleo tematico altre sequenze contigue delle quali si producono alcune fra le più pregnanti:

Questa grande solitudine / questo grande amaro vuoto accanto a me (Al, 13); La stanza innocente e vuota (A2, 129); cortili allagati della disperazione e del tedio / le paludi di giorni interminabili / le lacrime versate (A2, 104); altro non Vera che pietra nuda e freddo (A2, 133); con la bocca che mi si riempiva d'amaro feci il gesto che si fa quando ci si inginocchia, allora fu il buio (Ibid.); ruoto intorno ai cardini di sempre [ ... ] chiarezza impotente che mi annulla (A2, 121); senza senso come la mia indolenza malata (Al, 23).

Altri semantemi disseminati nel campo della noia sono: nausea, stanchissimo, pigrizia, insoddisfazione, malcontento, grigio, deserto, malinconia, pesanti, tristezza, vuote, grigie, bava, estraneità, vuote, svuotato, nera, funesta, viola, giorni interminabili, impotente, nuda, freddo, amaro, buio. Si fa strada così, divinando ancora una volta il suicidio, il tema che lo assimila al mito di Attis: la cattività del corpo (peso) avvertito come "intrico di nervi [ ... ] pesante e laido" (A2, 130). In questa dimensione reificante, la realtà corporea, impotente e indebolita, gli si rivela come oggetto negativo. Tracima la voluttà dell'autopunizione: "Io non punisco la mia infelicità / ma l'indebolimento del mio corpo".
Intermedio fra la noia e il titanismo della 'sublime melanconia', il campo semantico dell'ideal si concentra nel lessema oro, ma è chiaramente subalterno, per estensione e intensità, a quello dell'ennui. Gli appartengono le parole-chiave oro, azzurro, bianchi, rosa, arancione, sole, luce che, intrecciandosi, danno luogo a una saga di varianti cromatiche alternative a quelle di natura distopica (nero, bleu, rossi, viola) sicché i colori assumono una connotazione surreale proponendosi come simboli di una esperienza interiore (il bianco esprime paura dell'ignoto, il rosso si correla al sangue, il nero alla morte, alla follia, agli istinti perversi, l'azzurro alle lontananze siderali, il giallo-oro alla felicità) e la struttura lessicologica, nel suo complesso, si dispone in un sistema di gerarchie al cui vertice campeggia il senso negativo dell'esserci non 'contemplato' ma 'inteso' come fondamento metafisico dell'esistere.
A fronte delle connotazioni depressive si registra, nella riflessione del Coppola affidata a uno zibaldone di pensieri, l'anelito al sublime attraverso il quale egli tende a traslare il vittimismo in titanismo. Alla maniera della schilleriana Maria Stuart, che muove incontro al suo destino evadendo dalla sfera "sensitiva" in quella del "soprasensibile" (20), Coppola trasvaluta la sua sofferenza, il patetico dell'essere fisico, nel sublime che si identifica col trionfo della volontà etica fino alla suprema autoaffermazione dell'individuo mediante il suicidio in direzione del quale paradossalmente è orientata anche la strada (divergente e opposta alla noia) che conduce al sublime. Gli stessi incubi, le allucinazioni, i sogni metafisici, la "qualità del sacro", il misticismo laico e nichilista sono essi stessi il sublime: nella sua sfera sollevando romanticamente il pathos egli lo esorcizza. Il patetico diventa, dunque, uno strumento della gnosi e della rivelazione poetica (o illuminazione rimbaldina) che consente di attingere quel 'regno noumenico' (Burke) che è il cosmo stesso della libertà morale. Il sublime conduce al suicidio ("Sì, forse anch'io vado senza saperlo alla ricerca del fondo dell'abisso", Al, 23) non meno che la noia: da qui l'ossimorica soluzione della diade in "sublime malinconia". Il sublime è proprio "di chi [ ... ] si fa divino" (Al, 21) e chi ne vive l'"eterna malinconia" proprio allora "esprime il suo spirito come lo spirito del mondo" attingendo le "eccelse vette della sublime melanconia" (ibid.). La noia, la nausea, il dolore sono così esorcizzati e straniati: "la stanchezza m'innalza alle sublimi altezze della contemplazione di questa miseria" (ibid.) ed ancora "è più facile per lo sconfitto capire la realtà come è, ma solo il grande sconfitto [VITTIMISMO], il grande vincitore [TITANISMO] vive appieno e in maniera sublime il nulla della vita [ ... ] l'uomo non è più poeta da quando il mondo è diventato più piccolo, ma credi che egli non possa trovare poesia nella sua vita, nella sua nullità, e nel suo dolore?" (ibid.). Frammiste a risonanze nicciane, affiorano suggestioni leopardiane (in ordine all'egoismo umano) (21) e ortisiane. Vincere il sensibile, il patetico, la noia, il nulla alla stregua del mistico e del titano

"non quando vince ma quando si sente sconfitto, l'uomo scopre la natura e la sua grandezza [ ... ]; quando la grande sconfitta rotola come una valanga l'uomo sale alle più sublimi altezze" (Al, 21),

questo è il sublime, come lo è il suicidio che sconfigge l'unica Necessitas (la morte) non soggetta alla volontà. Sublime è affrontare e delibare leopardianamente il dolore, sublimare, aggiogandola dopo averne attinto inconcutibile coscienza, la sofferenza ("non l'asceta che soffoca la volontà di vivere ma il guerriero che inseguendo la volontà di potenza la conosce effimera mostra l'uomo nobile" (Al, 21), per fame strumento di titanica maestà sul mondo sensibile della storia e conquistare una libertà demonica. Demonica perché segno del 'divino' che è in noi e che parla attraverso il daîmon socratico. Sublime è, dunque, l'assoluta stoica libertà (absoluta libertas hoc est sublime, Seneca) o, se si vuole, l'infelicità felice.

3) Lo stile, le conclusioni.
Funzionale alla concezione della poesia "mezzo di conoscenza metafisica" (Raymond) e alla poetica della parola (Macrí) che disvela le regioni del sogno, della follia, dell'inconscio, dell'estasi nel viaggio verso l'abîme dove sono poste a dimora le eterne e misteriose ragioni dell'Essere, sottratto alla razionalità dell'intelletto speculativo kantiano e alla hegeliana soggezione del reale al razionale in nome del diritto che da Schelling, prima ancora di Rimbaud, venne rivendicato al veggente di auscultare la voce di quel daîmon che "habla de dentro", lo stile del Coppola rispecchia il carattere mistico della sua poesia ossia quella componente demonologico-salvifica (la 'quarta radice', Macrí) che attinge la rimbaudiana saison en enfer. Ci si imbatte, pertanto, in un linguaggio polisemico che suscita spesso nel lettore, diversamente dall'ordinario, sensazioni indistinte e indicibili. E se "ogni parola è una parola di evocazione" (Novalis) essa è di per sé mito in quanto proiezione simbolica di una realtà subliminale. Il carattere onirico, fantastico, surreale della poesia del Coppola richiama il genere dei Marchën della letteratura tedesca, così come nel romanticismo tedesco, visionario e fantastico, di Novalis e Schelling, affonda le sue radici il simbolismo nelle sue diramazioni canoniche (orfismo, surrealismo, ermetismo). Dare "al noto la dignità dell'ignoto" (Novalis) è procedimento romantico prima ancora che baudelairiano ma è anche deputazione della 'realtà del simbolo' (Macrí) a una parola inadeguata allo scopo della rivelazione di ciò che alligna sulla hölderliniana "riva d'eternità". Da questa aporia, che è alla base del misticismo, la dissociazione simbolistico-ermetica del significante dal significato che Bo ("dominio del silenzio"), Macrí, Gatto assunsero a carattere della 'rivelazione' esistenziale. All'estremità di questa linea si colloca la poesia del Coppola, "mystique à l'état sauvage", per dirla con Claudel, che avverte il collasso della parola di fronte alle "inesaudibili esigenze della comunicazione" (22) di una realtà che non può oggettivarsi. La struttura del linguaggio, nei suoi testi, è isomorfa e sincrona alla dinamica del pensiero ("sentimento-paesaggio-musica verbale", tesi macriana) sicché "la diffusione infrasemantica del complesso musica-danza-volo [ ... ] caratterizza una struttura versale di "Poesie ininterrompue", modelli i poeti francesi e inglesi d'innovazione e fusione espressionista e surrealista" (M21).
Dalla antinomia fra pulsioni orfiche e afasia espressiva ha origine uno stile ora franto e sincopato, ora medianico, allusivo, non-finito. Nei suoi versi è assente, in coerenza con l'orfismo e il surrealismo, un sistema strofico organico. Latita spesso l'organizzazione logica del messaggio, sicché il rifiuto della punteggiatura e i versi sciolti, a mo' dei surrealisti, da ogni misura e disciplina, si propongono come conquista di una libertà assoluta speculare alla gnosi mistica. La parola si fa ominosa e riversa un magma indistinto di emozioni sulla pagina. Altre volte, luminosa e scandita, diventa apollinea e levitante a ulteriore riprova della antinomica matrice spirituale della poesia coppoliana. "Acquistare in velocità" (Al, 12) èl'effetto stilistico che egli vuole ottenere attraverso il ricorso a quei corti circuiti che sono le sinestesie (gioia nera, ronzio opaco, mani cieche, paesi di rame, vele del silenzio, l'alba respirava, correva il vuoto, ali mute, mill'anni di cielo, bevo il buio, orecchio sognante, fruscìo d'ombre, silenzio di cenere, fiorisce il sangue, giorni assassinati buio profumato, ecc.), gli ossimori (urla silenziose, notti bianche, ecc.), le analogie (terrazza luminosa come sale), le anafore (le campane [ ... ] le campane [ ... ] le campane, A2, 93), l'ipallage (muri bianchi di luna, mosche che nuvolano). Si realizza così il progetto enunciato con piena consapevolezza nel suo zibaldone:

"Stamani leggendo il diario di Gide ho preso la risoluzione di incominciare un diario, non tanto perché ne senta il bisogno spirituale, quanto invece per la necessità di un esercizio che mi dia la possibilità di scrivere senza pretese e di acquistare in velocità. La velocità è importante in quanto il mio scrivere si alleggerisce di frasi letterarie, a volte retoriche, per acquistare maggiore incisività. Così, in pratica, avrò la possibilità di stendere velocemente idee e frasi che poi potrò riunire e limare [ ... ]. Ho l'impressione che raggiungendo sveltezza e linearità [il mio stile] perderà la tendenza lirica che mi costringe ad un continuo lavoro di precisione stilistica e musicale che va a scapito del contenuto [espressionismo-surrealismo].
La maggiore difficoltà che ho nello scrivere è il continuo proposito di non lasciare niente di imperfetto, di incompiuto, di inutile" (Al, 12).

Quali, in definitiva, le conclusioni che si possono trarre? Mi sembra di poter concludere sostenendo che la poesia del Coppola sussume la parola al centro di un universo semantico attraversato da suggestioni evocative e la candida alla funzione magico-allusiva fatalmente connessa alla vita del simbolo e alla mistica di derivazione tedesca (dal Faust di Goëthe a Novalis, a Schopenhauer, a Nietzsche, a Heidegger) ingentilita dalla lezione dei Maestri francesi e italiani del Novecento.
Come in Campana, così in Coppola, attesa e fatta salva la diversa statura storica dei due poeti, si riverberano l'irrazionalismo nicciano, le suggestioni wagneriane, le risonanze espressionistiche (23) che per il pathos e la forza dionisiaca, che estaticamente le connota, chiamano in causa come archetipi Trakl e Rilke. Coppola mi sembra appartenere a quell'area elitaria della cultura italiana nella quale la tematica della morte, del sogno, dell'eros sepolcrizzato viene proposta e risolta con esiti autonomi e radicali, alla stregua di Michelstaedter o dell'ultimo Saba, fino alla voluttà del dolore che conferisce una superiore dignità nella sfera del sublime e dell'eroico.
Non dunque un idillico ed estenuato ripiegamento interiore ma un atteggiamento agonico e anarchico è sotteso alla dialettica lacerazione fra Eros e Thanatos, fra felicità e dolore, fra mondo ctonio e 'divino', fra vita e morte il cui mistero si visualizza, come in Rilke delle Elegie duinesi, nella diafana intermittenza di figure angeliche e si tinge con le tinte di quel luciferismo demonico (24) (in senso socratico, 'agostiniano'-heideggeriano) nel quale soltanto riposa la forza epifanica della poesia.

4) La 'fortuna': edizione e saggio di Macrí.
Movendo dal riscontro kierkegaardiano della "caduta dell'essere nell'esistente" cui consegue "la dolorosa risalita all'essere nell'infinito circolo nicciano-heideggeriano" (M22), Oreste Macrí indica nella poesia la sede in cui si attua il conato del Coppola di "logicizzare il caos vitale della stessa poesia come 'miracolo' nascente dalla terra d'infanzia [ ... ] immote per sempre le immagini lariche" (M24-25). La sua tesi si fonda su innumeri sintagmi che enuclea dal fondo degli inediti e produce ad avallo della 'dimora vitale' salentina. Eccone alcuni: "uliveto di terra rossa", "cisterne assolate", "colonne di tufo solitario / e muri di confine", "aranceti inselvatichiti", "dimore di calce", "ronzio opaco di mosche / che nuvolano dalle pareti", "muri assolati di lucertole", "dimore naufragate nel caldo delle cicale", "fontane inaridite", "pergole devastate", "muri bianchi di luna", "l'ombra dei limoni", "gechi salgono sui muri", "balconi si parlano sottovoce", "angiolini barocchi", "uno sterpeto dì grilli" ed altri. In essi si precisano, con sobrio e simbolico idillismo, i connotati iconico-corografici dell'ecumene veterosalentina di Bodini, oggi ancora superstite solo nell'area leucadia, liberati dalla retorica piagnona di certo salentinismo arcadico e provinciale, risemantizzati e restituiti all'alveo esistenziale (e Macrí rammemora l'Etruria di Caproni, Luino di Sereni, Siena di Luzi fino alle Langhe di Pavese e a Lecce di Bodini e Pagano, luoghi-archetipi della 'dimora vitale' il cui determinismo lirico ha come referenti supremi Recanati di Leopardi, Castelvecchio, Barga di Pascoli) quasi correlativi oggettivi di una visualizzazione interiore del paesaggio connessa alle antinomie di una poesia "luttuosa e solare" (M26) in cui si mitizza un "paese d'infanzia e d'innocenza" (ibid.). La solarità è semantizzata, osserva Macrí, dall' "oro delle mimose", dai "muri chiari di luce", dai "molli campi di narcisi", dalla "sera limpida dietro i colli lontani" allorché "sembra che ti svelino i principi del mondo" come le dannunziane colline fiesolane. Macrí, che nei primi paragrafi del suo saggio introduttivo traccia essenziali linee biografiche del Coppola, disegna la mappa della sua formazione (fra gli autori attestati nella biblioteca del poeta risaltano Shakespeare, Wilde, W. Woolf, Joyce, D.H. Laurence, A.L. Huxley, Goethe, Schopenhauer, Feuerbach, Nietzsche, Mann, Kafka, Tolstoj, Cechov, Turgenev, Dostoevskij, Solgenitsin, Majakovskij, Pasternak, García Lorca, Borges, Neruda, Kierkegaard, Lucrezio), censisce il fondo degli inediti, procede, infine, alla individuazione dei nuclei tematici (Il seme e la verità; "Pietas" e rivolta; La "puella-mater") alla luce delle quattro radici della poesia e di una magistrale analisi comparatistica che pone il Coppola in rapporto ai testi e ai motivi più classici del Novecento italiano. Coglie, così, le corrispondenze con sintagmi campaniani, quasimodiani, ungarettiani per trattare poi il tema larico-tellurico-funerario sotteso al logos della 'dimora' e alla lacerazione dell'io che si fa "sconosciuto" in un universo di "disfacimento e devastazione". Il complesso "Musica-danza-volo", uno dei cardini della lettura macriana, è stato più volte invocato come referente nella mia analisi e sussunto al pari della linea archetipico-testuale che Macrí svolge fino alla individuazione della muliebrità della stessa morte. Ad altri aspetti della sua ermeneusi si è fatto cenno passim in questo lavoro che non può concludersi senza un cenno all'androginismo psichico del Coppola, che per Macrí è "variante oggettiva del Narciso e movente d'una vita paradisiaca sognata" (M35), e al "messaggio di libertà e verità" (ibid.) che trasuda da questa scrittura coerente con la vita e assurta a fenomenologia del suicidio e del dolore.

5) Appendice.- testi di Stefano Coppola.
L'uomo è per sé l'unico Dio: ma anche questa è una commedia: l'uomo chiede per sé ogni felicità, ma ne la sua solitudine, ne il suo egoismo o la sua pazzia oli faranno mai simile dono: felicità non è dell'uomo e se ti sembrerà di vivere la gioia più profonda, più dolce ricordati che di questa gioia gode l'animale non l'uomo; coli può solo ingarbugliarla nella ragnatela del pensiero per ricondurla inevitabilmente al nulla (A1, 21).
La maledizione della terra è l'uomo e i suoi labirinti, che solo l'uomo deve poggiare su se stesso il proprio peso e il proprio senso (ibid.).
Ma se la fine del mondo fu quando la scimmia divenne uomo e cominciò a cercare disperato un senso e un valore per la propria vita, egli non può e non (leve tornare indietro (Ibid.).
Un bruciante amore non è che la via per un bruciante dolore (ibid.).
Chi resta d'improvviso solo s'accorge d'esserlo sempre stato (ibid.).
Chi pone fine alla propria vita afferma dolore e amore, perciò, anche se tutto resta identico, a prima, muore senza aver capito; chi invece vive e lotta e vince e soffre, avendo attinto la coscienza della profonda inutilità d'ogni azione umana, costui fa del non-senso dell'esistenza la propria spada e vessillo e assurgendo all'eccelse vette della sublime melanconia si fa divino (Ibid.).
E' più facile per lo sconfitto capire la realtà come è, ma solo il grande sconfitto, il grande vincitore, vive appieno e in maniera sublime il nulla della vita (Ibid.).
Non chi si uccide, ma chi guarda al suicidio come a un nulla, vive la morte quotidiana con coraggio (Ibid.).
Non l'asceta che soffoca la volontà di vivere ma il guerriero che inseguendo la volontà di potenza la conosce effimera mostra l'uomo nobile (Ibid.).
Chi dice che il pensiero è una forma patologica dell'anima, che l'uomo, in armonia con la natura, sicuro di sé e degli altri non fa poesia. filosofia o arte" ma è questo uomo in pace con la vita, cieco di fronte all'angoscia, sordo alle parole della notte e dei cielo, quest'uomo è una forma patologica dell'uomo. L'uomo di fronte alla vita grida, piange, bestemmia; poi comprende: e vive la eterna melanconia; e proprio allora esprime il suo spirito come lo spirito del mondo in poesia, filosofia o arte (Ibid.).
Parla forse solo la mia stanchezza stasera o il lampo di verità nella notte buia dell'uomo? è la mia stanchezza che oggi ha oscurato il sole delle folli certezze della terra; è certo la mia nausea la voce del nulla che penetra nella mia anima ed echeggia in ogni immagine per i miei occhi, ma quando essa m'abbandona e la volontà risorge incostante per vagare fra mille desideri e pensieri di felicità impossibile, tremo, allora, per questo tradimento, poiché solo la stanchezza m'innalza alle sublimi altezze della contemplazione di questa miseria (Ibid.).
Quando la grande sconfitta rotola come una valanga per adagiarsi giù in fondo alla valle e l'uomo arrendendosi vive come infinita nostalgia e
melanconia ogni suo attimo, allora egli sale alle più sublimi altezze del nulla (Ibid.).
Non la vittoria come felicità ma solo come tristezza di inutilità nullificante mostra il coraggio e la nobiltà di chi lotta e vince (Ibid.).
Chi è in alto, spaziando cori lo sguardo oltre l'orizzonte di chi è nella valle, prima è preso da stanchezza e il re guarda con nostalgia l'umile che sale la china (Ibid.).
Così ogni grande ricchezza deve scavare nell'uomo grande un pozzo profondo ed ogni nobile re fu il più solitario dei solitari (Ibid.).
Così è più facile trovare nello Sconfitto il saggio che nel vincitore; così sconfitto e vincitore non sono che modi umani d'essere nulla (Ibid.).
Da bambino spesso ho pensato all'universo come ad una immensa scatola in mano a smisurati giganti che con questa si trastullavano e i miei giganti burloni ho trovato altrettanto credibili quanto il vecchio Dio cristiano (Al, 17).
Esistono due tipi di società teoriche (nei senso di non attuate e inattuabili) a cui l'uomo può tendere come a due modelli ideali: l'una che porta a compimento l'individualità con i suoi attributi di irripetibilità, singolarità, volontà di potenza; l'altra che porta a compimento l'uomo nella sua dimensione di massa, con i suoi sentimenti di solidarietà, comprensione e pietà nei riguardi dei propri simili. Esiste un solo tipo di società pratica in due diverse sfumature: la società passata e la contemporanea che si è basata e si basa sull'egoisimo umano inteso nella sua accezione deteriore ed è lordata di falsità ed ipocrisia (Ibid.).
Sono scontento, i miei diciassette anni già liti pesano di vecchiaia e non trovo coerenza e volontà dentro di me; ho dovuto fingere, per comodo, e mi sono sentito stringere il cuore nel dover continuare a farlo, e se per un po' ho potuto dimenticare me stesso ora un trovo stretto in una morsa di ipocrisia che mi fa star male; ho camminato come tiri estraneo fra gente fanatica, sì, ma sincera e ho frantumato le speranze di poter essere coerente almeno intimamente (Al. 14).
Questa sera sono abbruttito da un male tremendo alla testa e da una sfiducia sgomenta.
Oh Dio mio che lunga finzione per dimenticare e ancora scoprire speranze sopite ma presenti da sempre, e illusioni che non ho la forza di scacciare e ogni tanto la verità che si affaccia con la certezza di poter dimenticare e di non volere.
A che serve nascondersi questa verità per un cinismo che non ho, se il primo sguardo risveglia il tremore e il tumulto, la dolcezza, ficcata a forza nella nebbia dei ricordi e del passato irrimediabile, dei pochi attimi senza pena che ho avuto con lei e che mi ripagavano di tutto (Ibid.).
Si diventa vecchi per mortale malattia, per desiderio e impotenza, bramosia d'essere amati e incapacità d'amare, orgoglio, superbia, ed ignoranza (Al, 23).
Scoraggiato, deluso, spaventato dal peso enorme della conoscenza, dalla fatica immane di cercare di comprendersi; incerto al continuo bivio che mi si apre di fronte, insicuro, inalato, come un cieco che cerca a tentoni la strada o un corpo morto travolto dalla corrente, impotente di fronte alla notte e ai suoi sussurri, impotente di fronte al giorno, all'eterna affermazione e contraddizione, mi accascio sii questa poltrona, vegetando e affidando il mio destino incerto nelle braccia infide dei caso (ibid).
Ho già bruciato troppe tappe se già so che solo questi diciotto anni ormai vissuti saranno per me un bene da ricordare e d'ora in poi noi salto nei buio alla ricerca brancolante d'una ragione che non troverò e con angoscia penso che prima o poi mi mancherà la forza di vivere questo assurdo scherzo dei destino e che tocco già il fondo.
Un fallito sarò per la gente, e questo poco mi importa, ma il disgusto che mi porterò dietro di irte stesso chi più me lo leva, che cosa mi può sollevare se ormai non posso e non voglio più credere in qualcosa?
Noti sai che cosa vuol (lire credere in qualcosa e ogni volta cadere sempre più in basso: ora non posso più cadere, mi sento troppo in basso, eppure mi dico troppo in alto, su o giù o tutte due le cose insieme, noti resisto a questo gelo indifferente che mi ha preso, sono immaturo per vivere questa solitudine come l'unica realtà dell'uomo (Ibid.).
Ma c'è in me, come un destino incrollabile, una lucida malattia che scava e scava senza sosta, un incubo ad occhi aperti che non posso mai dimenticare, che mi ha lasciato solo con il peso inutile della mia coscienza, senza più appoggi (Ibid.).
Era la conferma che ogni nostro desiderio si sarebbe avverato, quel caldo nuovo e solare. quella vita che ci rifluiva intorno.
Non l'abbiamo mai tradito, quel richiamo: con la falsa saggezza dei nostri libri, dei nostri professori e delle buone regole della nostra società; eppure insieme abbiamo conosciuto il disgusto per le lunghe sere vuote e senza senso col il disgusto appassionato per il mondo ipocrita e superficiale e l'abbiamo scoperto da soli, insieme. quando ci si disperava per lo schifo che vivevamo e quel disgusto è Stato la nostra serietà (Al, 27).


NOTE
1) Alla linea "romantico-simbolista nella sua derivazione rimbaudiana-nicciana" Macrí (cfr. nota 2) assegna la poesia di Coppola. Il termine 'neoromanticismo' è un conio macriano e semantizza la regressione al romanticismo intimista, presimbolista di Nerval, Bécquer, Tjutcev; è esibito per la prima volta in ORESTE MACRI', I giorni sensibili, "Letteratura", n. 17, 1941, pp. 138-142, poi col titolo Neoromanticismo di Parronchi: i giorni sensibili in ID., Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1956, pp. 171-195.
2) O. MACRI', studio introduttivo all'edizione dello stesso Macrí, STEFANO COPPOLA, Poesie scelte, Lecce, Manni, 1992, p. 23 e p. 26. D'ora in poi il saggio di Macrí sarà citato con sigla M seguita dal numero della pagina cui si fa riferimento e i testi del Coppola con le cifre che sono quelle assegnate da Macrí agli inediti da lui censiti e riportate nel paragrafo secondo (Nota filologica) della sua edizione. Il fondo degli inediti, da me consultato, è a Lucca nell'archivio della famiglia Coppola.
3) Su questo aspetto si veda AA.VV., La sovranità dell'individuo a cura di Antonio Donno, Manduria, Lacaita, 1987 e, in particolare, ANNA RITA GUERRIERI, L'anarchismo americano tra tradizione e Nuova Sinistra, pp. 93-139.
4) "Omicidio necessario e legalizzato", scrive J. Hilman, che il "corpo sociale ha avuto bisogno, per potersi costituire e per sopravvivere, di sopprimere il più possibile le tendenze liberatorie e autodeterminanti degli individui". Cfr. JAMES HILMAN, Il suicidio e l'anima, Roma, Astrolabio, 1971, p. 20 e SERGIO STARACE, I cantautori contemporanei alla luce della psicologia del profondo, Gallipoli, Nuovi Orientamenti oggi, 1987, p. 144.
5) "Il suicida, infatti, 'disubbidisce' disponendo liberamente di sé: con il suo atto egli si erge contro le leggi di Dio e dello Stato", in S. STARACE, op. cit., pp. 146-147.
6) Cfr. EMIL DURKHEIM, Il suicidio (in particolare i capp. II, Cause sociali e III Il suicidio come fenomeno sociale pp. 186-406) nell'edizione italiana (2°) introdotta da LUCIANO CAVALLI (r. 1977), Torino, UTET, 1977.
7) In questo "pathos cosmico-misterico" Macrí ravvisa analogie tematiche con "il cosmo dell'anima smarrita di Ungaretti dell'Allegria, il panteismo metamorfico e solare di Onofri, il corpo mistico-seminale di Comi" (M, 35).
8) Cfr. BOB DYLAN, Blues, ballate e canzoni, introduzione di Fernanda Pivano, Roma, Newton Compton, 1972, p. 154.
9) Ibidem, p. 158.
10) Ibidem, p. 38.
11) Cfr. ALBERTO RUZ BUENFIL, Dopo il '68, in RONALD CREAGH, Laboratori d'utopia, Milano, Eleuthera, 1987, p.226.
12) Ibidem.
13) Cfr. A.R. GUERRIERI, L'anarchismo ecc., cit., p. 105.
14) Cfr. A. RUZ BUENFIL, Dopo il '68, cit., passim.
15) Cfr. ALBERTO RONCHEY, Accadde in Italia 1968-1977, Milano, Garzanti, 1977, p. 11.
16) Scrive O. MACRI', introduzione cit., p. 32: "Nella coscienza di corresponsabilità e pagamento in proprio" consiste "la differenza fra il suo radicalismo" e "il terrorismo neoavanguardistico, gregario e trasformistico".
17) Sulla natura archetipa dei miti classici si veda almeno FRITZ GRAF, Il mito in Grecia, Bari, Laterza, 2°, 1988, pp. 8-35. Ivi riferimenti a Joung, Hillman e altri. Si segnala anche un bell'elzeviro di Giuseppe Pontiggia, Così sulla terra ritornano gli dei, "Corriere della sera" del 7.1.1988: miti-archetipi sono, in sintesi, "forze oscure e potenti che agiscono dentro di noi [Hilman]. La natura puramente psicologica della verità mitica [ ... ] non nasce dai sogni della psiche, ma dal lucido sguardo dello spirito aperto all'essere. E il mito come rivelazione dell'essere appartiene a quella reviviscenza della Grecia che traspare nella speculazione di Heidegger [ ... ] e risale attraverso Nietzsche e Bachofen alle sorgenti inesauribili del Romanticismo tedesco", a Goëthe, a Schiller, a Hölderlin.
18) "Quando si parla di un ordine di successione [ ... ] la successione di cui si tratta è la successione pura [ ... ] e senza mescolanza di estensione" sicché la pura durata non è "nient'altro che una successione di cambiamenti qualitativi che si fondono senza contorni precisi". Cfr. HENRI BERGSON, Saggio sui dati immediati della coscienza, Torino, Boringhieri, 1964 (2), p. 107 s.
19) Il corsivo, qui e in altri luoghi, è mio.
20) Si veda, a proposito della sublimazione del patetico, l'ottimo saggio di FRANCESCO POLITI, La Maria Stuart di Schiller, Lecce, Milella, 1988, pp. 143-149.
21) Cfr. la riflessione del Coppola (Al, 17) riportata nella sezione antologica in calce a questo lavoro.
22) GIUSEPPE LANGELLA, Poesia e conoscenza nella teoresi ermetica di Carlo Bo, in "Testo", 1990, 20, p. 117.
23) Cfr. GIUSEPPE ANTONIO CAMERINO, Poesia senza frontiere e poeti italiani del Novecento, Milano, Mursia, 19
24) Perché l'uso dell'aggettivo 'socratico' non risulti azzardato è opportuno chiarire che la sua adozione si correla a quella capacità daimonica (Cfr. PLATONE, Cratilo, 389, c) che è del poeta orfico di ascoltare la "voce che parla dentro" una volta percorsa la strada dell'agostiniano redi in te ipsum. Non dispiaccia al lettore se ricorderemo, ad avallo di quanto sopra, che, nel Cratilo di Platone, Socrate sostiene la tesi dell'origine demonica (cioè divina) del linguaggio ("il dio che parla in noi") ponendo così la prima pietra di quell'edificio che in seguito costruiranno, sul versante della gnosi e della poetica, i mistici prima, i simbolisti poi fino agli ermetici Bo e Macrí, giacché la parola che veicola l'essenza delle cose (Crat., 422-23, 430-431) per Socrate non era che dono di quel Dio che ha trasfuso in noi il privilegio della sapienza. La parola è, dunque, segno e simbolo che imprigiona la verità divina (demonica) attinta dal poeta mistico-simbolista nel suo profondare alla deriva dell'Assoluto ("Mi sembra assai più probabile che questo nome lo abbiano posto i seguaci di Orfeo [ ... ] questa cintura corporea a immagine di una prigione ecc.", Crat., 400, nella traduzione di L. Minio-Paluello, PLATONE, Opere, Bari, Laterza, 1967, a p. 213 s.). Si veda anche Crat., 432, b, c.
Sull'aporia fra verità demonica e parola cfr., in ordine all'ermetismo, G. LANGELLA, Poesia ecc., cit., passim e in particolare p. 133.


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