§ Dati e proposte

Verso un nuovo regionalismo




Maria Rosaria Pascali



L'esigenza di dare alle Regioni maggiore autonomia gestionale ed economica è uno dei punti cardine dell'attuale dibattito politico-istituzionale. Ed è certo un punto su cui si gioca l'efficiente inserimento del nostro paese nel contesto europeo. E' chiaro, infatti, che la concorrenza nel mercato unico tenderà ad assumere sempre più il carattere della competizione fra aree regionali e che, quindi, le capacità di movimento e di ulteriore sviluppo di un paese nell'ambito comunitario dipenderanno principalmente dalla presenza di governi regionali forti dal punto di vista decisionale. in effetti, solo livelli di governo regionali hanno la potenzialità di apprestare servizi adeguati nei settori che oggi appaiono maggiormente disastrati, dall'urbanistica ai trasporti, all'ambiente, alla formazione professionale. E d'altro canto, in questo senso spinge la crescente domanda di identità regionale da parte delle popolazioni europee, quasi in risposta al timore di veder cancellare le proprie origini etnico-culturali dagli inesorabili processi di transnazionalizzazione economica e di omologazione culturale a livello mondiale. Non dimentichiamo che proprio la difesa delle proprie origini etniche e della propria autonomia economica sono alla base del grande successo delle Leghe nell'Italia settentrionale. Il movimento leghista non va, pertanto, sottovalutato, nonostante segni una degenerazione dell'ordinamento democratico del nostro Paese a vantaggio di una ulteriore divaricazione fra aree forti ed aree deboli. Anzi, proprio il tentativo di eludere il principio di solidarietà sancito nella prima parte della Costituzione deve dare da pensare sui termini con cui impostare un vero programma riformatore dello Stato e delle Regioni, nella acquisita consapevolezza che anche il decentramento, se attuato in un'ottica egoistica ed erronea, può riprodurre gli stessi errori in cui è caduto il vecchio sistema di Stato centralista.
In questa prospettiva, una riforma regionale in linea con le esigenze economiche nazionali è più che auspicabile, anche se per la sua realizzazione non si può prescindere da una parallela riforma dello Stato improntata sul recupero del principio di responsabilità e tale da garantire il superamento delle degenerazioni partitocratiche.
Incompleti, quindi, slogans come "Io Stato alle Regioni". La soluzione risulta più complessa, atteso che con essa non si voglia salvare un apparato di potere fine a se stesso. La soluzione è da ritrovare in un'adeguata ripartizione delle competenze fra centro e periferia, tendente a snellire complessi burocratici paralizzanti e deresponsabilizzati. Occorre eliminare la sovrapposizione delle competenze legislative e, al tempo stesso, individuare quelle funzioni essenziali di cui lo Stato non può essere privato.
Attraverso una chiara delimitazione delle responsabilità fra istituzioni centrali e istituzioni regionali, verrebbe recuperato quel principio di responsabilità, sulla cui elusione si è invece fondato ed ha proliferato a tutti i livelli l'attuale ceto di governo, estremamente stabile ed estremamente inconcludente al tempo stesso.
Sono questi i termini con cui impostare un serio dibattito a livello politico ed istituzionale, tale da mettere in discussione tutto ciò che ha condotto alla crisi attuale. Altre soluzioni risultano spesso erronee o inadeguate, eppure vengono proposte, legittimate da un consenso che ha unicamente il sapore delle protesta, della voglia di cambiamento ad ogni costo. Ma è facile strumentalizzare una protesta. E' facile ottenere consensi facendo leva sulla parte più egoistica ed individualistica che è in noi e che non è mai stata messa in discussione ma anzi alimentata da un sistema che, nella somma dei singoli egoismi, ha visto la realizzazione del benessere di tutti. E' facile convincere un lavoratore licenziato al Nord che la colpa del suo disagio deriva dagli sprechi compiuti al Sud. Più facile proporre la creazione di tre repubblichette di tipo balcanico, facendo venir meno il principio di solidarietà, anziché rivedere in senso critico tutto il sistema di equilibri innescato a livello nazionale per realizzare esclusivamente lo sviluppo industriale del Nord. Facile ignorare che le degenerazioni cui ha condotto questo sistema, profondamente assistenzialistico al Sud, portano il marchio di questa scelta e che il Nord ha un grande debito verso il Mezzogiorno, e non solo in termini economici. Ma tant'è.
Inutile sprecare altre parole per descrivere gli errori della Lega. Che sono sbagli indotti e nulla di più. Dare a questo movimento più importanza del dovuto, farlo passare per il nemico numero uno ora che il Comunismo è morto serve solo a gettare fumo negli occhi e a distogliere l'attenzione dal vero problema. D'altro canto, non esiste solo la ricetta della Lega. Altre soluzioni sono state prospettate, e da soggetti certo più accreditati di quelli che militano nel movimento finora citato. Eppure, anche tali proposte non sono esenti da critiche. Così la proposta avanzata dalla fondazione Agnelli, la quale, pur partendo dalle medesime considerazioni da noi svolte circa la necessità di un rafforzamento delle autonomie locali, giunge però a conclusioni che implicano un travaglio superfluo per il paese. L'analisi è sicuramente interessante e costituisce un valido contributo all'opera di riforma dell'attuale sistema. Tuttavia, un rimprovero va fatto: è questa una proposta impostata in termini esclusivamente economici, che dà netta l'idea di quanto lo staff dei suoi ricercatori sia estraneo alle emozioni e reazioni della società civile, chiuso com'è nel bunker delle leggi economiche e degli aridi conteggi di dare/avere. Ciò non fa certo onore agli studiosi di economia i quali diventano sempre meno credibili e sempre meno capaci, forse solo per deformazione professionale, a ridare a questa scienza dignità e contenuti più umani. Il che è sicuramente preoccupante, visto che è proprio nelle mani dei potentati dell'economia che oggi si gioca il destino delle nazioni.
Comunque, e data l'autorevolezza della fonte, è proprio il caso di soffermarsi sulla proposta avanzata dalla Fondazione Agnelli, non fosse altro che per giustificare le nostre conclusioni e per dire che forse la soluzione sarebbe più semplice, più logica e meno dolorosa di quella che con questa ricetta si vorrebbe prospettare.

LE DODICI ITALIE

L'analisi e la proposta della Fondazione Agnelli si fondano su una considerazione: la vita economica ruota, e ruoterà sempre più, intorno alle città e ai territori in una competizione spietata tra mercati piuttosto limitati geograficamente, vincenti o perdenti a seconda della snellezza delle loro istituzioni e della capacità di offrire occasioni di investimento, economie di scala, servizi e capacità di ricerca. Secondo il direttore della Fondazione, infatti, mentre in passato erano gli Stati a garantire alle imprese le condizioni per la concorrenzialità, con coperture politicoistituzionali, oggi questo compito tocca ai governi regionali.
D'altro canto, continua Marcello Pacini, l'Italia non è più in grado di gestire dal centro i sistemi complessi dell'economia: occorrerebbe una drastica riforma della pubblica amministrazione, compito proibitivo per questo Stato unitario. Le cose cambierebbero, invece, a livello regionale, dove si lavorerebbe sui piccoli numeri.

 

Ma vi è un passaggio ulteriore prima di giungere alla proposta: l'assunto secondo cui non esiste autonomia politica senza autonomia (cioè senza copertura) finanziaria. In altri termini, non sarà mai veramente autonoma la Regione che, anziché mantenersi, viene mantenuta dall'esterno: dallo Stato e dal suo indebitamento. Un assunto anch'esso inconfutabile. E proprio al fine di verificare lo stato attuale della copertura finanziaria regionale, la Fondazione ha preso in considerazione il rapporto tra le somme che le Regioni hanno versato allo Stato con ogni forma di tassazione diretta e indiretta, e le somme che le stesse hanno ricevuto dallo Stato, sotto forma di trasferimenti, sussidi, servizi, ecc. Il quadro che emerge da questa analisi è molto interessante, soprattutto perché abbatte vecchie distinzioni e vecchi luoghi comuni.
In particolare, risulta profondamente erronea ed improponibile, nonostante ancora oggi le si dia grande credito, un'analisi regionale basata sulla mera contrapposizione tra Nord e Sud. Non ha senso parlare di un Nord autosufficiente e di un Sud parassitario, quando solo quattro Regioni del Nord versano allo Stato più di quanto ricevono. Il rapporto dare/avere, infatti, è sì 148,7% per la Lombardia, 120,8% per il Piemonte, 120,7% per l'Emilia Romagna, 116,4% per il Veneto. Ma tutte le altre Regioni ricevono più di quanto diano. E che il deficit di queste ultime non riesca ad essere compensato, se non in parte, dal surplus delle prime, lo dimostra una media nazionale dare/avere pari a 81,6. Ciò sta a significare che gli italiani versano allo Stato meno di quanto ricevono dallo Stato, il quale, per coprire la differenza, è costretto ad indebitarsi. Quindi, se al Sud tutte le Regioni sono mantenute, con tassi che vanno dal 29,3% della Basilicata, al 31% della Calabria, al 46,5% della Sardegna, al 47,8% della Sicilia e al 50,3% della Campania, al Nord le cose non cambiano di molto, con un tasso di dipendenza finanziaria pari al 47,5% nella Valle d'Aosta, al 56,5% nel Trentino, al 74,4% nel Friuli e al 77,9% nella Liguria. Stessa situazione vivono le Regioni centrali, dove la dipendenza nei confronti dello Stato è del 32,3% per il Molise, del 56,8% per gli Abruzzi e del 58,5% per l'Umbria. Se poi si dividono questi dati per la popolazione, emerge che ogni emiliano versa allo Stato i milione e 180 mila lire, ogni lombardo 2 milioni e 385mila, mentre ogni calabrese riceve in media 5 milioni e 886mila lire e ogni campano 3 milioni e 195mila. Cifre queste che da sole confermerebbero la tradizionale contrapposizione di un Sud assistito ad un Nord autosufficiente. La realtà però è ben diversa, se si considera che, dal resto del paese, ogni valdostano riceve ben 8 milioni e 317mila lire, ogni trentino 4 milioni e mezzo, ogni umbro 3 milioni e mezzo.
Ma vi è un altro dato che la Fondazione Agnelli prende in considerazione prima di giungere alla fatidica proposta: il divario esistente fra Regioni grandi e Regioni piccole. Prendiamo due Regioni vicine e molto simili per struttura produttive, cultura politica e "composizione etnica", come l'Umbria e la Toscana. A differenza della prima, quest'ultima ha pressoché raggiunto il riequilibrio, perché ogni suo abitante "riceve" in media solo 297mila lire. Per il direttore della Fondazione, allora, non vi sono dubbi: le Regioni piccole costano troppo, I dati dimostrano che il grado di autosufficienza è direttamente collegato con il numero di abitanti. Non è vero che "piccolo è bello". Anzi. Proprio crescendo la dimensione demografica regionale, aumenta la possibilità di raggiungere l'autosufficienza finanziaria.
Qual è, dunque, la proposta che consegue a queste considerazioni? Eccola: ridurre a 12 l'attuale numero di Regioni, cancellando quelle di taglia inferiore a L. 1.700.000 abitanti. Cioé, in ordine decrescente, Liguria, Marche, Abruzzo, Friuli, Trentino, Umbria, Basilicata, Molise, Valle d'Aosta, che andrebbero accorpate ai vicini più grandi e popolosi.
Quadro definitivo: Piemonte, Val d'Aosta e Liguria unite; Lombardia così com'è; unico Triveneto; Emilia Romagna intatta; Umbria smembrata con Perugia alla Toscana e Terni al Lazio; Marche, Abruzzo e Molise insieme; Basilicata cancellata con Potenza alla Campania e Matera alla Puglia; intatte, fino a nuovi approfondimenti, le isole e la Calabria, ma solo per una difficoltà geografica nell'accorparle. Anche se, osserva preoccupato Marcello Pacini, "nella nuova situazione, solo la Calabria, con appena 40,8 punti su cento, presenterebbe condizioni drammatiche: e infatti per questa Regione bisognerà pensare seriamente se non sia il caso di smembrarla fra Campania e Sicilia". Nessuna analogia con il progetto della Lega, continua il direttore della Fondazione, secondo il quale le tre macroregioni di Bossi sarebbero un vero e proprio disastro, perché troppo poche e troppo grandi, ed è l'economia, prima ancora che la politica o la storia, a bocciarle senza appello. La Pianura Padana è un "sistema di sistemi", una realtà complessa e diversificata. C'è un Nord-Ovest che cresce poco, con un modello di sviluppo che denuncia stanchezza e logorio; e c'è un Nord-Est che, invece, è in grande espansione soprattutto in Veneto. Eppure il Piemonte, nonostante il calo di valore aggiunto, continua ad esportare più della Lombardia e dello stesso Veneto. E' chiaro, conclude Pacini, che una situazione così complessa non può essere gestita da un unico governo padano. Ma esige una pluralità di risposte.


Ossequioso nei confronti della storia, trae poi da essa le ragioni della sua proposta. Osserva così, con tono compiaciuto, che il nuovo regionalismo, così come è stato propugnato dal suo staff, affonda le sue radici nel Risorgimento. L'idea originaria dell'Italia del Conte Cavour, infatti, era tutta basata sul regionalismo e sull'autogoverno. Che poi quest'idea non si sia realizzata e che la nazione sia nata all'insegna del centralismo è da addebitarsi essenzialmente al Sud, che tanta paura destava tra la civile classe dirigente piemontese, per la sua arretratezza, il disordine sociale e per l'assenza di una borghesia illuminata. Ed ecco - continua - che oggi ci imbattiamo nel medesimo ostacolo di allora: il Sud che fa paura e condiziona pesantemente le posizioni degli uni e degli altri. Oggi come allora, infatti, le principali resistenze ad una forte autonomia regionale sono dettate dall'eterno interrogativo: come la gestirà il Sud, dove imperversano le mafie e le corruttele?
Ma veniamo alle critiche. E' così sicuro lo staff della Fondazione Agnelli che l'attuale crisi in cui versano quasi tutte le Regioni italiane sia dovuta soltanto ad una questione di densità demografica? Si parla di l'economie di scala", paragonando una grande regione ad una grande impresa. Eppure, da buoni economisti, i componenti dello staff, dovrebbero sapere che accanto alle economie esistono pure le "diseconomie di scala". In altri termini, ogni dimensione gode di vantaggi e di svantaggi e nessuna dimensione è di per sé ottimale. Per quanto concerne le Regioni, non è detto che un'area grande sappia gestire meglio di un'area piccola le proprie risorse. Potrebbe anche essere il contrario. Né si può dire che a questo risultato conducano inequivocabilmente le cifre. Le cifre evidenziano un dato. Il dato è che le quattro Regioni che superano la soglia di autosufficienza sono tutte di grandi dimensioni e di alta densità demografica. Ma può questo dato considerarsi una regola? Se si, non si riuscirebbe a capire come mai al Sud questa regola non vale e tutte le Regioni meridionali indistintamente sono mantenute finanziariamente dallo Stato. E continuerebbero ad esserlo, notate bene, anche nell'ipotesi di accorpamento auspicata dalla Fondazione. Insomma, è mai possibile che la crisi cronica attraversata dal Mezzogiorno si riduca ad un problema di piccole aree? E poi, sono la Puglia, la Campania, la Sicilia piccole aree? Avrebbe il coraggio la Fondazione di rendersi artefice di uno sconvolgimento territoriale senza alcuna certezza di riuscita?
Ma c'è un altro problema. Sarà molto difficile spiegare ai liguri, agli umbri, ai lucani che verranno cancellati dalla cartina geografica. Pacini replica che non c'è più posto per i campanilismi e che i tempi sono ormai maturi per una scelta coraggiosa. Ma è proprio questa la questione? E' solo campanilismo la domanda crescente di identità che viene ormai da ogni parte del mondo? O non èforse l'ultima resistenza ad un processo di spersonalizzazione e di automatizzazione dell'uomo posto in essere dalle grandi holdings, con l'appoggio dei vari governi nazionali? in Italia, una mano a far scomparire costumi e radici etniche la sta dando il governo Amato, attraverso lo smantellamento, con infami balzelli, di un tradizione artigiana vecchia di secoli. Non è questa una scelta diretta a superare la crisi lasciando illesi soltanto gli interessi della grande impresa, del grande capitale? E se così è, e se l'uomo comune si sente sempre meno importante e meno uomo, ingranaggio non essenziale dell'enorme macchina capitalistica, fa davvero meraviglia la strenua e forse ormai patetica richiesta di conservazione della propria identità? Un economista cresciuto nell'ottica del capitalismo selvaggio queste cose non le capisce. Così come non le capiscono i grandi industriali, gli Agnelli o i Berlusconi che stanno monopolizzando e spersonalizzando la Terra intera. Il capitale, si sa, non ha patria né cuore.
Un'ultima critica non può essere risparmiata allo staff della Fondazione Agnelli. E riguarda la paura manifestata nei confronti del Sud per la sua probabile incapacità, nell'imperversare delle mafie e delle corruttele, di gestire nel migliore dei modi la propria autonomia.
In realtà, più che il Sud, fanno paura le interpretazioni distorte della storia. Come se il Sud fosse davvero la bestia nera dell'Italia e non il finale tragico delle scelte mirate. Sì, è vero, come dice Pacini, si è imparato poco dal Risorgimento. Di più. Si è imparato poco da tutta la storia. La si è ricostruita, forgiata a proprio piacimento. A proprio piacimento si è utilizzato il Sud e la sua gente. Ai tempi di Cavour come oggi. Ma perché non dirlo. Perché continuare a tirare in ballo il Sud solo quando la crisi impera e il paese è allo sfascio? Quando esso serviva come enorme contenitore di voti, come area che garantiva la stabilità dei governi, allora e Sud non si parlava e la questione meridionale era considerata superata. Si andasse a rivedere la storia il direttore della Fondazione Agnelli. La storia vera dell'Italia e di quel Sud che, volente o nolente, dell'Italia fa parte. Ancora oggi, quella stessa storia non può che smentirlo e mettere in evidenza che di quelle corruttele, considerate quale dato caratterizzante del Mezzogiorno, è intriso tutto il Paese, da Milano a Palermo, secondo una logica che è di sistema, non geografica o etnica. Ed allora la domanda non è come il Sud gestirà la propria autonomia, ma: esiste una reale volontà a livello centrale di rendere autonomo il Sud?


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