Ferdinando "Re Nasone"




Ada Provenzano, Tonino Caputo, Bruno Alfano
Coll.: G. Decliva, F. Rey, A. Demario, E. Landi



Ferdinando (IV per il Regno di Napoli e II per la Sicilia) sedette sul trono per 65 anni, metà del tempo dell'intera Dinastia, in tempi calamitosi e tra vicende di capitale importanza. I contemporanei lo hanno descritto come un bell'uomo, di corporatura gagliarda e slanciata, con lineamenti accentuati, con un gran naso (di qui, il soprannome); ma debole di carattere, contraddittorio e instabile negli umori.
Insomma, un buono, ma di una bontà inerte e infruttuosa, quasi sempre arrendevole, talora inspiegabilmente testardo, temerario e vile allo stesso tempo, incline alla franchezza ma più ancora all'ipocrisia sottile, e dunque sopraffatto dalla ferrea volontà della moglie Maria Carolina.
Intransigente per quel che riguardava gli aspetti formali, era pronto alla facezia triviale e ai comportamenti plebei. Scarso di cultura, amava più le attività agricole, nelle quali riversava una speciale competenza, che quelle degli affari di Stato, di cui sapeva ben poco. Religioso fino alla superstizione fanatica, lesto a correr dietro ai piaceri: tale si rivela soprattutto nel suo diario personale e nelle lettere familiari, documenti quasi del tutto inediti e sconosciuti, che ci delineano con nettezza un suo fedele, vivace autoritratto.
Su un personaggio siffatto non potevano non appuntarsi gli strali della satira e l'interesse dell'aneddotica, che spesso e volentieri hanno distorto i fatti al punto di trasformare il sovrano in un personaggio da burla. Ciò, anche perché Ferdinando, "il Re dei lazzari", prestò facilmente il fianco all'ironia tanto della polemica politica, anche posteriore, quanto delle conversazioni e dei cicisbei dei salotti.
Sebbene si siano fatti vari tentativi di riabilitazione, il giudizio degli storici rimane sostanzialmente negativo su questo sovrano, sul quale finirono per pesare non poche responsabilità. Col sostegno della classe politica illuminata che si era venuta formando sotto il suo governo, Ferdinando avrebbe potuto mutare le condizioni e il destino del Mezzogiorno. Purtroppo, come è stato rilevato, "le più elementari paure eccitate in lui, pavido ed imbelle, dagli avvenimenti rivoluzionari della Francia, gli fecero subire la disastrosa politica imposta dalle cieche passioni e dalle sfrenate ambizioni della moglie".
Partito da Napoli Carlo III per il trono di Spagna, per la minorità di Ferdinando il Regno venne affidato a un Consiglio di Reggenza, nel quale ebbero peso di rilievo Domenico Cattaneo, Principe di San Nicandro, e il toscano Bernardo Tanucci. Il primo fu l'aio del giovane Re: gelosissimo del suo ufficio, quanto autocrate e sostanzialmente ignorante, ma protetto dalla regina Maria Amalia e dai gesuiti, rese esperto e abilissimo l'allievo nelle arti cavalleresche e nella pratica dell'agricoltura, ma ne trascurò, con le virtù morali, ogni altra istruzione: troppo tardi scoprì che questa educazione sarebbe stata "poco vantaggiosa, per non dire pregiudiziale, a questo Regno", come allo stesso Ferdinando.
Il Tanucci, devoto protetto di Carlo III, che da Madrid gli impartiva direttive, fu in realtà il solo ad impegnarsi con fervore intelligente nel governo, nonostante l'opposizione che, per invidia o per fini personali, incontrava nella stessa Reggenza. Questa si sciolse, e con un bilancio attivo, il 12 gennaio 1767, quando Ferdinando, ormai sedicenne, uscì dalla minorità. Ma Tanucci continuò, in qualità di Primo Segretario di Stato, ad essere l'anima del governo.
In quello stesso anno il Re avrebbe dovuto sposare l'arciduchessa Maria Giuseppa, figlia dell'Imperatore Francesco I d'Austria e di Maria Teresa. Ma la promessa sposa, pronta a partire per Napoli, morì colpita dal vaiolo. E Ferdinando, ormai affezionato a quella famiglia, si fidanzò due mesi dopo con la sorella minore Maria Carolina, che - celebrate le nozze per procura - il 22 maggio 1768 fece il suo ingresso a Napoli. Bella, galante, affascinante, vitale, anch'essa amante dei piaceri fin oltre il confine dello scandalo, (circostanza che alimentava le dicerie nei salotti e nei caffè), maria Carolina portò una ventata di aria nuova, di giovanile allegria in un ambiente assuefatto alla severa e tetra austerità di Carlo III e di Maria Amalia. Non sappiamo, e forse non riusciremo mai a scoprire, quanto di vero o quanto di fantasioso ci possa essere nella tradizione che la vuole emula di Messalina, tanto da competere, in una compiacente locanda, in una lasciva gara con la marchesa di San Marco. Sappiamo che frequentò con assiduità le logge massoniche, emula del fratello Giuseppe II, che nel 1748 introdusse la massoneria a Milano, e del cognato Alberto di Sassonia, che ne fu "Gran Maestro" a Dresda.
Fu per Napoli un'età felice, con la pace che non era minacciata né all'interno né dall'esterno. Proprio alla fine del 1767 i gesuiti, già espulsi dal Portogallo, dalla Francia e dalla Spagna, lo furono anche dal Regno di Napoli e i loro beni, con una rendita di circa 200 mila ducati, devoluti a iniziative laiche per la pubblica istruzione. Furono chiusi molti conventi, ristrette le decime ecclesiastiche, proibiti gli acquisti delle manimorte, estesa la giurisdizione laica, condizionata la validità delle bolle pontificie al regio assenso.
La ripresa delle attività terziarie, commerciali, fu cospicua, grazie anche ad alcuni trattati con Stati esteri. Vennero riassestati i porti di Brindisi, di Baia e di Miseno. Furono ristrette la giurisdizione e le prerogative dei baroni. Fu imposta la motivazione delle sentenze. Fu creata la Borsa di Commercio. Fu istituita la colonia di San Leucio, con uno statuto d'intonazione egualitaria. Vennero aperti il Teatro del Fondo (l'odierno Mercadante) e quello di San Ferdinando. Fu fondata l'Accademia di Scienze e Belle Lettere. Napoli era all'epoca un centro intellettuale fervido, di rilevanza europea: insieme con le opere di solida erudizione, vi si pubblicavano i libri del Filangieri, del Pagano, del Conforti, del Galanti. La classe colta dispensava encomi ai sovrani, nello stesso momento in cui riteneva di poter essere fonte e guida morale e politica del Regno.
Tanta armonia si incrinò con la caduta di Tanucci, nel 1776, voluta da Maria Carolina, insofferente di quel ministro che, per di più ligio alla Spagna, la impacciava con la sua severità e col suo zelo; e con l'avvento, tre anni più tardi, di Giovanni Acton, già al servizio della Toscana, chiamato a Napoli per riordinarvi la Marina e divenuto poi ministro onnipotente, arbitro del governo e duttile strumento della volontà di Maria Carolina. Inutilmente da Madrid lo stesso Carlo III ingiunse al figlio di allontanare questo personaggio, anche perché la voce pubblica lo indicava come amante della regina. Acton rimase. E si ebbe allora un nuovo corso politico, con l'avvicinamento all'Austria e all'Inghilterra. Anzi, i legami con l'Austria furono addirittura consolidati, nel 1790, col matrimonio tra gli arciduchi Francesco e Ferdinando e le principesse napoletane Maria Teresa e Luigia Amalia, oltre che col fidanzamento del principe ereditario Francesco di Borbone (in seguito Francesco I) con l'arciduchessa Maria Clementina d'Austria.
Quando la Rivoluzione francese travolse la monarchia capetingia in Francia, e nel 1793 mandò alla ghigliottina Luigi XVI e Maria Antonietta (sorella di Maria Carolina), i sovrani napoletani divennero sospettosi ed ostili a tutto ciò che potesse ispirarsi a princìpi di libertà e di progresso. A quel punto, intellettuali e monarchi si volsero definitivamente le spalle. Maria Carolina, resa cieca dall'odio, assunse di fatto la direzione dello Stato: terrorizzata anche dalle ombre, si circondò di spie e instaurò un vero e proprio regime poliziesco. L'ansia di vendetta ne fece una sfrenata fautrice di armamenti e di guerra, che dissanguarono le finanze del Regno, vuotarono le casse dei Banchi ed esaurirono le risorse dei privati.
Il sempre più debole Ferdinando non era ormai che un esecutore delle decisioni della consorte, una testa di legno nelle mani di Maria Carolina. La quale, isterica fino alle convulsioni, lo teneva in pochissima considerazione e non gli risparmiava - non solo in privato, ma addirittura in presenza dei ministri - continue ingiurie e avvilenti mortificazioni. E Ferdinando, fin eccessivamente aduso a questi umori violenti, li annotava puntualmente giorno dopo giorno nel suo diario, dove con un asterisco distingueva anche gli intimi piaceri coniugali concessigli dalla regina. Certo è che i loro rapporti divennero tanto difficili e complicati, che Maria Carolina, nel 1800, come risulta da un carteggio tra i due sovrani, era addirittura determinata a separarsi dal marito.
Che cosa si potessse attendere un Regno in balia delle passioni e della follia di una donna del genere, non era difficile sospettarlo neanche allora. Così, da una parte, si cominciò a cospirare, sorse la "Società Patriottica", gli spiriti liberi si infiammarono; dall'altra, la paura e il sospetto dettero origine alla repressione, e questa, mentre determinò arresti e condanne, mise anche in moto i meccanismi della famigerata e sanguinaria Giunta di Stato, che il 18 ottobre 1794 mandò al patibolo Emanuele De Deo, Vincenzo Vitaliani e Vincenzo Galiani, i primi martiri della libertà italiana.
Intanto la Corte napoletana, stringendo patti con Londra e con Vienna, mantenendo un atteggiamento ambiguo con la Francia, mandava le sue navi in soccorso di Tolone assediata dai francesi; e la sua cavalleria in Lombardia, contro le truppe di Napoleone. Quando, nel 1798, i francesi, dopo avere occupato Malta, con lesione dei diritti di Ferdinando, invasero lo Stato romano e vi instaurarono la Repubblica, i Borbone di Napoli si sentirono in immediato pericolo. Tra dubbi, incertezze, scrupoli e pareri discordi, il 22 novembre l'armata napoletana - con alla testa il Re in persona, ma comandata dal generale Mack, avuto in prestito dall'Austria - varcò il confine pontificio, senza dichiarare guerra, anzi stranamente sbandierando propositi non ostili verso i "birboni", come Ferdinando amava definire i francesi.
Malgrado la lunga preparazione, mai campagna militare fu più infelice, col gran numero di ufficiali stranieri, con una truppa raccogliticcia, inesperta e pronta alla diserzione, con i servizi logistici inefficienti, con le strade impraticabili, persino con carte topografiche vecchie e difettose. Ferdinando riuscì ad entrare in Roma, ma ben presto, iniziata l'offensiva francese, mal contenuta dal debole esercito borbonico, se ne dovette allontanare precipitosamente e, compiendo quella che egli stesso definì "la fuga d'Egitto", raggiungere Caserta. Da questa città scriveva alla moglie: "Io non ho coraggio di comparire in Napoli, dopo una fuga così vergognosa, né di farmi vedere da nessun altro che da te".
Ma la "fuga d'Egitto" non finì a Napoli. L'avanzata dei francesi in territorio napoletano lo indusse a imbarcare se stesso, la famiglia, la moneta dei Banchi e oggetti di valore, per mettersi in salvo a Palermo, raggiunta col vascello di Nelson, sul quale prese posto anche la celebre Lady Hamilton. Nella capitale siciliana l'esilio non fu lungo e tanto meno scomodo: non vennero meno le cacce, la pesca, le distrazioni agresti, proprio come se il Regno perduto non gli fosse mai appartenuto. Crollata la breve Repubblica napoletana, grazie anche alla reazione della plebaglia sanfedista capeggiata dal cardinal Ruffo, Ferdinando recuperò il trono.
I tempi che seguirono alla Restaurazione non furono sereni. Una grave crisi finanziaria, il conseguente diffuso disagio sociale, la penuria di viveri, i disordini interni, il peso e il fastidio della presenza di truppe francesi che, per effetto della pace di Firenze (1801), si erano stanziate in Abruzzo e in Puglia, la morte di Maria Clementina, moglie di Francesco: tutto concorreva ad avvilire i sovrani. Ma non per questo erano placati gli spiriti bellicosi della Corte. Ferdinando sottoscrisse nel settembre 1805 un trattato di neutralità con Napoleone, divenuto Imperatore; poi, con un altro trattato del 26 ottobre, si impegnò con l'Austria, l'Inghilterra e la Russia a muovere guerra alla Francia. E, contrariamente al patto convenuto col Bonaparte, fece sbarcare a Napoli soldati inglesi e russi e mise le sue truppe agli ordini del generale russo Lascy.
Tanta malafede e tanta stoltezza politica provocarono l'ira di Napoleone che, appena più libero al Nord, distaccò un'armata agli ordini del fratello Giuseppe e del generale Massena ad occupare il Napoletano. Ferdinando non poté fare altro che imbarcarsi e riparare ancora una volta in Sicilia, dove rimase, sotto la protezione inglese, fino al 1815, quando cioè, tramontato l'astro napoleonico, il Congresso viennese gli restituì il Regno.
Ma a Napoli, nel frattempo, molte cose erano cambiate. Maria Carolina, allontanata da Palermo dagli inglesi, insofferenti dei suoi torbidi intrighi, era morta nel settembre 1814 nel castello di Hützendorf, senza lasciare rimpianti: neanche in suo marito, che dopo appena due mesi si risposò ("per scrupolo di coscienza", sostenne) con Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, vedova del Principe di Partanna, compagna rispettosa e tenera che non si intromise mai negli affari di Stato. Anche Acton era uscito di scena, essendo morto a Palermo nel 1811. Ma erano mutate soprattutto le condizioni, ed era cambiato lo spirito del Regno, dopo un decennio di governo dei Napoleonidi.
La Carboneria vi era allignata, interprete com'era di aspirazioni costituzionali, che Ferdinando non voleva capire, pur avendo lusingato i sudditi con la promessa di uno Statuto in un proclama precedente il suo ritorno. Peraltro, anziché IV di Napoli e III di Sicilia, si intitolò Ferdinando I delle Due Sicilie: i due Regni erano così diventati uno solo, perché volle togliere ogni velleità anche formale di autonomia all'isola, alla quale, nel 1812, per pressione degli inglesi, era stato costretto a concedere una Costituzione.
Esplose nel '20, dunque, il moto carbonaro, che si estese alle province più lontane. Ferdinando promise la Carta; poi, fintosi ammalato, elesse Vicario il figlio Francesco. I sovrani della Santa Alleanza, inesorabili custodi del diritto divino e dell'assolutismo monarchico - informati anche da Alvaro Ruffo, ambasciatore a Vienna e portavoce privato di Ferdinando - decisero di intervenire nelle sgradite novità napoletane. Convocarono il Re a Lubiana. Ferdinando vi si recò, dopo aver ottenuto quasi a stento il consenso del Parlamento e dopo aver giurato solennemente di difendere presso le potenze straniere la Costituzione napoletana. Invece, dopo un viaggio fastoso, costellato di cacce, feste e gran pranzi, rinnegata la parola, tornò con le truppe austriache. Queste (rimaste a pagamento a presidiare il Regno), battuti i costituzionali a Rieti, ristabilirono il governo assoluto del sovrano. Ferdinando si era comportato con gli spiriti liberali del Regno allo stesso modo in cui aveva agito con la Banda dei Vardarelli, i briganti che non era riuscito a sconfiggere sul terreno: li attirò in un'imboscata, prospettando un patto di compromesso. E fu strage.
Il 4 gennaio 1825, una settimana prima che compisse 74 anni, Ferdinando non si svegliò più. Lo trovarono privo di vita nel suo letto, stroncato da un'apoplessia. Un anonimo poeta partenopeo (ma forse si trattava di Michele D'Urso), poco favorevole al Re, aveva cantato, a proposito dei titoli (IV di Napoli, III di Sicilia, I delle Due Sicilie) assunti dal Re:

Fosti quarto, fosti terzo,
or t'intitoli primiero;
se continui nello scherzo
finirai per esser zero.

Scomparso il sovrano, nessuno rivendicò la paternità dell'epigramma.

 

Regno di Napoli o delle Due Sicilie?

Nel linguaggio degli italiani la locuzione "le due Sicilie" entrò probabilmente già al tramonto del secolo XIII. E fu forse Pietro d'Aragona, re dell'isola dopo che i Vespri ne ebbero cacciato i francesi di Carlo d'Angiò, il primo a dire che "la sua Sicilia" non finiva al Faro, cioè a Messina. Ce n'era un'altra, di Sicilia, al di là dello Stretto, della quale egli ed i suoi successori si consideravano sovrani.
Con ciò egli manifestamente alludeva alla terra di Napoli. Ma i re di Napoli, che non si erano piegati al destino segnato dai Vespri, continuavano a loro volta a chiamarsi re di Sicilia. C'erano dunque due re di Sicilia, uno al di qua e l'altro al di là dello Stretto e del Faro messinesi. Il che, secondo una rudimentale logica popolare, voleva dire che vi erano, appunto, due Sicilie!
Nel 1443 Alfonso d'Aragona, entrato a Napoli l'anno precedente, diede carattere ufficiale alla formula, proclamandosi "Rex utriusque Siciliae". I paesi e gli Stati erano due, ma con un solo Re. Il vero e proprio "Regno delle Due Sicilie", in realtà, sorse molto più tardi, esattamente dopo il Congresso di Vienna del 1815, con la Restaurazione, quando una legge del 22 novembre 1816 unificò per la prima volta in un unico regno i due Stati di Napoli e della Sicilia. I quali, comunque, non si fusero mai in un'espressione unica di popolo e di cultura, come del resto sottolineò Croce, intitolando "Storia del Regno di Napoli" uno dei suoi libri più fortunati.

 

Un Bonaparte e Murat sul trono di Ferdinando

Non si trattava di schermaglie, ma di fendenti. Napoleone definiva Maria Carolina "Messalina" e "una specie di megera", ed era ricambiato da "novello Attila", "animale feroce", fino a "bastardo corso". Per di più, l'Imperatore francese aveva intercettato una lettera della regina al generale Armfelt, nella quale costei sosteneva che se non si sterminavano le truppe francesi stanziate in Puglia e in Abruzzo era solo perché si aveva paura dell'altra, napoleonica, appunto, che l'avrebbe sostituita. E quando, venendo meno al patto di neutralità, Ferdinando fece sbarcare a Napoli un corpo anglo-russo, Napoleone colse l'occasione al volo, e dal castello viennese di Schönbrunn emise la sentenza: "La Casa di Napoli ha cessato di regnare".
Poco dopo affidò al fratello Giuseppe e al generale Massena un'armata di 45 mila uomini, con l'ordine di conquistare il Regno. Che fu costretto a combattere da solo. Dopo la sconfitta dell'Austria ad Austerlitz, infatti, lo Zar, costretto all'armistizio, aveva ritirato i suoi uomini, mentre gli inglesi si erano trasferiti in Sicilia, per presidiare quell'importante posizione strategica nel Mediterraneo. Deluse anche le speranze del Re di far insorgere le popolazioni meridionali. Pochi, e tra questi Fra' Diavolo (Michele Pezza) e Sciarpa (Gerardo Curcio), risposero all'appello reale: i più si dileguarono. Ferdinando e famiglia ripararono a Palermo, mentre l'esercito si schierava ai confini tra Calabria e Lucania, in luoghi impervi, adatti alla guerriglia più che alla battaglia campale.
Massena entrò a Napoli in febbraio, poi disperse le truppe borboniche e raggiunse Reggio. Giuseppe fu eletto Re di Napoli e di Sicilia. Nel suo suggestivo miraggio di ridar vita all'Impero d'Occidente, Napoleone continuava a costruire, in forma monarchica e nell'ambito familiare, il sistema di Stati satelliti, sostenuto alla Convenzione del 1792 dal girondino Brissot e sperimentato dal Direttorio tra il '95 e il '99.
Giuseppe volle una Corte brillante (ospitò anche il Monti e il Canova) e affidò incarichi pubblici, oltre che ai francesi, anche a numerosi napoletani. Ma non tutto andò bene. Il partito borbonico restò vivo nella capitale e nelle province, e il popolo, che aveva riposto nei Napoleonidi le speranze di una vita migliore, ben presto sentì tutti i disagi e i pesi dell'occupazione: i militari requisivano a man bassa i prodotti alimentari e gli animali da tiro e da soma, lasciando sul lastrico le famiglie contadine; pretendevano l'alloggio in case private; insidiavano le donne. Le reazioni si ebbero soprattutto in Calabria, dove proruppe l'insurrezione, che costrinse i francesi ad una drammatica e penosa ritirata. Fino a che Massena ristabilì l'ordine, anche se piccole e grosse bande di briganti tennero sul filo del rasoio gli occupanti, spesso battuti dagli irregolari fomentati dall'ostinata Maria Carolina.
Destinato nel 1808 al trono di Spagna, Giuseppe lasciò il campo a Gioacchino Murat, che seppe suscitare, al contrario del predecessore, entusiasmo e ammirazione, anche per la sua autonomia (rimproveratagli dallo stesso Napoleone) da Parigi. Cominciò col metter su un esercito meridionale. E proseguì affidando al generale Manhès la lotta a un brigantaggio ormai dedito esclusivamente ad attività criminose. E Manhès eradicò la malavita, ricorrendo a tutti i mezzi, anche estremi, inesorabili, e a volte disumani.
La rottura di Murat non fu col popolo, ma con le classi medie, che volevano accedere alla direzione politica del Regno, e reclamavano una Costituzione, sul modello di quella concessa, per volontà degli inglesi, da Ferdinando alla Sicilia. Questa volontà fu interpretata soprattutto dalla Carboneria, che di fronte all'indifferenza di Murat, tutt'al più disposto a concedere un Parlamento di rappresentanza con compiti puramente consultivi, passò la parola d'ordine della rivolta.
Nel 1813 insorse il Cosentino. Murat manovrò ancora una volta il volano Manhès e bandì la setta segreta. La rottura, questa volta, fu anche col popolo. Ciò spiega perché naufragò il sogno muratiano di una penisola libera e indipendente, che non trovò echi nel 1815, mentre non ebbe oppositori né voci di ostilità il ritorno di Ferdinando a Napoli.
A questo punto - ma troppo tardi, ormai - Murat concesse quella Costituzione che la voce dei calabresi, soffocata nel sangue, aveva reclamato due anni prima. E nella speranza di riconquistare il Regno perduto, proprio mentre Napoleone veniva sconfitto a Waterloo, salpa da Ajaccio con sei feluche, che una tempesta disperde, e sbarca a Pizzo Calabro con 28 compagni superstiti. Catturato e processato, affronta il plotone d'esecuzione con gran dignità: "Mirate al cuore", dice rifiutando la benda, "risparmiate il viso".
Nonostante le contraddizioni che si possono rilevare, il "decennio" francese nel Sud rappresentò uno snodo fondamentale. Liberò il Regno dai vincoli di un Medioevo fuori tempo massimo e lo avviò verso forme moderne, più civili e democratiche di vita. Ascrisse a suo merito l'eversione della feudalità, la divisione dei demani feudali ed ecclesiastici, la distribuzione di terre, la soppressione degli ordini monastici possidenti, il varo del Codice napoleonico che unificava organicamente la legislazione, il riordinamento amministrativo e giudiziario, la compilazione dei catasti, la revoca di una miriade di imposte, sostituite dalla sola tassa fondiaria, l'istruzione elementare obbligatoria, il riordino dell'assistenza sanitaria e sociale.
Se molti progetti non vennero portati a termine, rimasero nondimeno come presupposto per soluzioni future. Se la storia non avesse preso altre direzioni, lo sviluppo civile del Sud sarebbe potuto partire da qui.

 

Sant'Elmo, 1799

Anche nel Napoletano, come nel resto d'Europa degli assolutismi, alla vigilia del '99 si diffondono i nuovi fermenti. Ma recepiti da una scarna élite, che intende abbattere gli strumenti tradizionali del potere: censura, regime poliziesco, reti di spie. Viene fondata la "Società Patriottica", che più tardi darà origine al "Club rivoluzionario": fra gli aderenti, il giovane Vincenzo Cuoco, avvocato e medico, futuro storiografo della Rivoluzione, il quale vagheggerà una società utopistica, a regime socialista, fondata sull'agricoltura.
E' un esercito rivoluzionario tutto particolare: vi partecipano rampolli di grandi famiglie, i cui nomi echeggiano nella storia napoletana - Caracciolo, Serra, Carafa, Pignatelli -, religiosi che dai Vangeli hanno appreso l'obbligo della difesa degli oppressi, e il nucleo esiguo, ma qualificatissimo, degli intellettuali che danno un nome alla splendida fioritura dell'intelligenza napoletana (cioè meridionale) di fine Settecento, poi destinata a spegnersi sui patiboli, nelle galere e nell'esilio: il medico Cirillo, lo storico Conforti, il giurista e filosofo Pagano, la scrittrice (di origine portoghese) Eleonora de Fonseca Pimentel, bibliotecaria della Corte. Sul fronte opposto, nella capitale e nelle, province, una plebe ignorante e irresponsabile, prigioniera di rozzi miti e vittima di tabù ancestrali, servile e legata per la vita e per la morte ai conservatori, che canta: "Han levato la tassa alla farina, / evviva Ferdinando e Carolina!".
Circostanze esterne e l'imprudenza del Re favorirono i patrioti. Ferdinando IV, infatti, nell'imminenza di una nuova coalizione europea contro la Francia del Direttorio, organizzò un'armata di 60 mila uomini per assalire Roma, dove il generale Berthier aveva instaurato una repubblica classica, dopo aver spedito in Francia l'infelice papa Pio VI, che poco dopo morì in esilio. Volendo precedere gli austriaci, Ferdinando marciò su Roma e la occupò. Era l'autunno 1798. Il 5 dicembre, però, iniziò la controffensiva del generale francese Championnet, che sloggiò i napoletani e li incalzò, inseguendoli fino a Napoli. Il 23, antivigilia di Natale, il sovrano e la Corte, terrorizzati, si imbarcarono su navi inglesi della flotta di Nelson e raggiunsero la Sicilia.
La Repubblica partenopea nacque in Castel Sant'Elmo la mattina del 22 gennaio 1799, dopo che Championnet si era assicurato il controllo della capitale, difesa per qualche tempo da un caotico esercito di lazzaroni, di briganti mascherati e di fedeli del monarca borbonico. Il 21 gennaio -esattamente al sesto anniversario della morte per ghigliottina di Luigi XVI - furono aperte le carceri e liberati i numerosi prigionieri politici. La mattina seguente essi si radunarono con gli altri patrioti sulla piazza del Castello, proclamando la decadenza della monarchia e innalzando, fra le cannonate a salve, la bandiera della Libertà. Nacque la Repubblica una e indivisibile, sotto la protezione (precaria) delle armi francesi.
Nacque allora il giornalismo politico. Fino al '99 i giornali napoletani non avevano presentato altro che aridi elenchi di notizie mondane e di Corte, con alcuni annunci di carattere religioso: monacazioni, visite pastorali, feste di patroni. Ora comparve per la prima volta un foglio impegnato, il "Monitore Napoletano", di cui la Fonseca Pimentel era tutto: direttrice, redazione, anima. Il primo numero fu diffuso il 14 piovoso (2 febbraio ancien régime). Il giornale compariva due volte a settimana, il martedì e il sabato. E bel presto avrebbe avuto compagnia dal "Corriere di Napoli e Sicilia", redatto in due lingue, italiano e francese.
Tuttavia, nonostante gli entusiasmi del momento, le difficoltà per il governo rivoluzionario erano enormi. Così le sintetizzò uno dei patrioti dell'epoca, il Mattei: "Da tre punti di gran dettaglio pende la salute di questa nostra nascente repubblica: la formazione di un'armata, la restituzione del valore rappresentativo alle carte (cioè gli assegni e la carta monetaria, ndr.), l'abolizione interna del feudalesimo". Questione, questa, sulla quale si accentrò l'attività dei rivoluzionari, con dispute accanite: la proposta di Pagano fu ritenuta moderata, quella del Cestari troppo radicale. Prevalse quella di Albanese, che lasciava ai baroni, in piena e libera proprietà, la quarta parte delle terre feudali, mentre il resto avrebbero dovuto devolverlo allo Stato.
Ma tutto rimase allo stato teorico. Il popolo continuava ad essere ottusamente ostile, né lo conquistò alla causa giacobina il miracolo di San Gennaro, quell'anno, contro ogni previsione dei legittimisti, verificatosi in anticipo e più spettacolarmente del solito. San Gennaro si è fatto giacobino pure lui, si disse nei bassi napoletani. E l'ostilità contro patrioti e francesi rimase, non senza qualche fondamento. Commentava infatti Mattei: "La flottiglia inglese è sempre a Baia, gli insurgenti a Salerno, la moneta in commercio estremamente rara e per conseguenza l'aggio delle carte altissimo, il popolo geme sotto tutti gli antichi dazii né riconosce alcun vantaggio sensibile da questa da noi tanto vantatagli democrazia".
Per di più, i francesi avevano portato all'eccesso la loro propensione alla spoliazione e al saccheggio, e le cose peggiorarono quando Championnet venne sostituito dal cinico Macdonald. Dal 2 aprile la flotta inglese, riprese Ischia e Procida, minaccia il porto, tenuta a bada a fatica dalla flottiglia di barche del Caracciolo. Le campagne sono saccheggiate dai briganti legittimisti: Fra' Diavolo, Sciarpa, Guariglia, Mammone. Il cardinal Ruffo, Vicario del Regno, organizza l'armata vandeana che inquadra lazzaroni, nobili reazionari alla testa dei propri vassalli, fuorilegge travestiti, persino 500 russi e un centinaio di turchi. Questo esercito si dirige verso la capitale saccheggiando, incendiando, seminando il terrore, mentre Macdonald si ritira a Gaeta, per non restare circondato.
I rivoluzionari non ebbero neanche il tempo di abolire il regime feudale e di liquidarne le spoglie, com'era accaduto Oltralpe. Asserragliati nei castelli, tentarono un'estrema difesa, mentre Caracciolo si batté valorosamente all'imbocco del porto. Il 13 giugno le bande di Ruffo dilagarono nella città, abbandonandosi alle più feroci vendette e alle rapine a man salva. Ruffo offrì ai rivoltosi l'impunità in cambio della capitolazione. Essi sarebbero stati liberi di imbarcarsi per la Francia. A questo patto ci fu la resa. Ma sopravvenne la sconfessione del Re e di Nelson. L'odio del sovrano, alimentato dalla regina, gli suggerì di punire tutti "i ribelli a Dio e a me". Inqualificabile il comportamento di Nelson.
Arrestati in massa mentre si apprestavano a partire perla Francia, i patrioti furono portati davanti ai tribunali speciali. Le liste nere erano state predisposte dal Re fin dal mese di maggio. Si scatenò la caccia all'uomo. La Giunta di Stato nacque per "punire i principali con la morte, i minori con la prigionia o l'esilio, tutti con la confisca". Si radunava solo di notte, nel convento di Monte Oliveto. La presiedeva un siciliano di fama sinistra, Vincenzo Speciale. Emanava le sentenze ogni giovedì, le rendeva di pubblico dominio il venerdì, le faceva eseguire il sabato, a piazza del Mercato. In una lettera al Ruffo, il Re raccomandò che non si perdesse troppo tempo con i morituri,
perché il popolo non doveva soffrire, aspettando sotto il sole, in attesa dello spettacolo. Morì l'ammiraglio Caracciolo, impiccato a un albero della nave di Nelson, trattamento usato dalla marineria inglese per i pirati e i ribelli. A maggior gloria dell'ignobile guercio britannico, il cadavere fu gettato in mare. Morirono tre generali del piccolo esercito rivoluzionario, Federici, Massa e Manthoné, tutti e tre fucilati; finirono sul patibolo due Principi Pignatelli e altri esponenti dell'aristocrazia illuminata napoletana, Carafa, Riario, Colonna; andarono al supplizio due vescovi, Natale e Sarno, e numerosi religiosi, soprattutto francescani, che si erano schierati dalla parte della Repubblica. Eleonora de Fonseca Pimentel, strappata alla nave che avrebbe dovuto portarla in Francia, fu condannata in agosto: non le fu concesso l'ultimo privilegio degli aristocratici, quello di morire di scure anziché di capestro. Ultima grazia, una tazza di caffè, e, al momento di salire sulla forca, la sua citazione di una sentenza latina: "Forsan et haec olim meminisse juvabit", un giorno forse gioverà rammentare anche queste cose. Di tutt'altra intonazione le canzoni funebri della plebe: "A signora donna Lionora / che cantava 'n coppa 'o triato / mo' abballa 'n miezz'o Mercato ... ".
Luisa Sanfelice la si volle morta a gran distanza di tempo. Era stata gettata in carcere poiché aveva detto di aspettare un bambino. Non era vero. Ma il sovrano non volle neanche sentir parlare di grazia.
Fucili e patiboli e parate di teste mozze continuarono per l'estate, l'autunno e l'inverno del 1799. Il Regno, alla fine, rimase una terra desolata: per vocazione al suicidio, tagliando teste si era decapitato il pensiero.


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