"L'aria
rimbombava delle grida degli infelici, che a similitudine di bovi erano
condotti al macello, le quali cessavano nel mento istesso in cui una
copia di mal dirette fucilate ne interrompevano il seguito, e lasciavano
di quei miserabili, chi morto, chi semivivo e chi con un sol braccio
o membro fracassato. Ciò fatto, non curando i manigoldi di ucciderli,
o di farli interamente spirare, passavano a tagliar loro le teste ...
".
Giuseppe De Lorenzo
Nel furore della reazione del1799
INNO PATRIOTTICO
del cittadino
Luigi Rossi per lo bruciamento delle immagini de' tiranni. Posto in
musica dal cittadino Cimmarosa, da cantarsi nella festa de' 30 fiorile
sotto l'albero della libertà avanti al Palazzo Nazionale.
Su d'un Sovrano
popolo
Sovrano più non v'è:
Al foco, indegne immagini,
Itene ormai, de' re.
Già
dalle vostre ceneri
Sorge la Libertà,
Che annunzia al mondo libero
La sua Sovranità.
O foco, almo
principio
Del tutto creator,
I regi in te ritrovino
Un Nume distruttor.
Perisca una
progenie
Nemica di virtù,
Che l'uom costringe a gemere
In dura servitù.
Accendi deh!
Prometeo,
Tua tace a' rai del Sol:
Reca la vita, e l'anima
In questo amico suol.
Possa per te
risorgere
A' rai d'un più bel dì
L'uom che tra ceppi barbari
A Libertà morì.
O Predator
dell'Anglia
La speme tua qual è?
Al libero Vesuvio
Vuoi ricondurre i re?
Trema: tue
navi in cenere
Fra poco ridurrà
Il divorante incendio
Che i re consuma già.
E non temer
che al Caucaso
Giove ti leghi il piè,
Se Giove è re de' Despoti,
Noi non abbiam più re.
Questo che
alle aure sventola
Vessillo tricolor,
Rispetto a' Numi imprimere
Sa nelle sfere ancor.
L'inno della Rivoluzione è avvolto in un fitto mistero, molto
probabilmente connesso con le persecuzioni borboniche successive alla
caduta della Repubblica e quindi, da un lato, con la necessità
giacobina di sopprimere ogni prova dell'appartenenza, e, dall'altro,
col desiderio sanfedista di cancellare ogni segno della Repubblica.
In ogni caso, le versioni dell'Inno venute alla luce sono più
di una: da quella pubblicata da Croce, Ceci, D'Ayala e Di Giacomo
nell'Albo della Rivoluzione Napoletana nel 1899, a quella pubblicata
dal De Simone, l'anno scorso, nell'oratorio drammatico "Eleonora".
Al testo dell'Albo Croce fa anche riferimento nei Teatri di Napoli
(edizione 1915), avvertendo di averlo ritrovato e ristampato nell'Albo
Illustrativo. Nelle note alle tavole, i curatori dell'Albo, dopo aver
dato notizie relative al ritrovamento del foglio e alla sua collocazione,
affermano: "Non riproduciamo la musica, conservata nell'Archivio
musicale di San Pietro a Majella [ ... ] perché siamo stati
sempre convinti che quella musica su parole reazionarie non ha nulla
a che fare con l'Inno Patriottico del '99".
Ma quali sono le parole reazionarie e quale la musica a cui Croce
e gli altri fanno riferimento? Non le parole pubblicate nello stesso
Albo, dal momento che proprio non appaiono reazionarie. Il mistero
può essere in parte chiarito leggendo Luigi Conforti, il quale,
dieci anni prima dell'Albo di Croce, aveva scritto Napoli nel 1799,
edito in seconda edizione da Anfossi nel 1899. Nell'appendice rende
noto lo spartito dell'Inno. La musica pubblicata dal Conforti è
quella di San Pietro a Majella. Ma Croce avanzava dubbi che potesse
essere quella effettivamente dell'Inno, perché condivideva
l'osservazione del Mormone, il quale, in un articolo sul Roma del
13 gennaio 1899, aveva sostenuto che le parole del Rossi stavano "a
disagio nelle note del Cimarosa". Dunque, non sembra essere tanto
la musica, quanto piuttosto le parole dell'Inno, il nocciolo del problema:
anche perché Croce fa riferimento a "parole reazionarie"
fino a questo momento a noi ignote. Però, facendo ancora ricorso
al Conforti, apprendiamo che già al momento in cui egli scriveva
esistevano due altri presunti testi dell'Inno Rivoluzionario. Uno
di essi dovrebbe essere l'Inno "reazionario"; l'altro dovrebbe
essere l'Inno intitolato "La Felicità Compita".
Per fare un poco di luce, dobbiamo rifarci alla storia. Nel corso
della Repubblica, Giovanni Paisiello fu nominato "Maestro della
Nazione", mentre a Domenico Cimarosa venne commissionato un Inno
"che fosse la Carmagnola napoletana". L'Inno (o quello presunto
tale) fu ritrovato fra gli autografi di Cimarosa dal nipote (figlio
del figlio Paolo) che lo mise in vendita.
Da lui lo acquistò il critico musicale e deputato al Parlamento
Nazionale Giuseppe Orlandi, il quale, avuta conferma dell'autenticità
del foglio grazie all'autorevole consulenza di Antonio Tari, Vittorio
Imbriani, Saverio Mercadante e Francesco Florimo, nell'ottobre 1868
donò l'autografo a San Pietro a Majella. I versi manoscritti
da Cimarosa fra le righe dello spartito sono questi:
Bell'Italia,
ormai ti desta
Italiani all'armi, all'armi;
Altra sorte ormai non resta
Che di vincere o morir.
Dalla terra
dei delitti
Mosse i passi il Franco audace
E nel sen di nostra pace
Venne l'empio ad infierir.
L'Orlandi accompagnò
la donazione dell'autografo al Conservatorio con un'accurata lettera
nella quale, con forti argomentazioni, affermò che quella composizione,
e non altra, fosse l'Inno, perché era autografa del Cimarosa,
cosa che non consentiva alcuna esitazione, alcun dubbio.
Ma come giustamente nota il Conforti, questo testo (che è sicuramente
quello a cui fa cenno Croce quando parla di "parole reazionarie")
lascia fortemente perplessi. Basta soffermarsi sulla seconda strofa
(Dalla terra dei delitti / mosse i passi il Franco audace... / Venne
l'empio ad infierir ... ) per comprendere che non può trattarsi
dell'Inno rivoluzionario. E questo, nonostante le affermazioni dell'Orlandi,
secondo il quale il testo fu scritto dopo la partenza del generale
MacDonald, quando parvero ormai acquisite l'indipendenza e l'autonomia
della Repubblica dallo straniero, e quando sembrò finito il
tempo della violenza. Tesi che appare poco credibile. Nel germile-fiorile
(marzo-aprile) Mario Pagano, quale Presidente della Commissione Legislativa,
giurava " ... amore alla libertà e attaccamento alla Nazione
Francese" (Monitore del 20-27 germile). E quando nel pratile
(maggio) successivo fu celebrata la festa delle bandiere, entusiasticamente
commentata dalla Fonseca Pimentel nel Monitore del 5 pratile, fra
le scritte inneggianti alla Repubblica che tappezzavano la città,
una diceva "Eterna riconoscenza alla Repubblica Francese".
Quindi, non si può immaginare che il governo repubblicano avrebbe
mai permesso a Luigi Rossi di pubblicare quei versi, e peraltro deve
presumersi che il Rossi non li avrebbe mai scritti poiché abituale
compositore di inni repubblicani nei quali traspariva la sua passione
per la Francia, oltre all'ammirazione per le schiere liberatrici transalpine.
Tant'è che scrisse: "La Libertà. Canzone ditirambica
al cittadino Championnet, comandante in capo dell'Armata di Napoli".
E scrisse vari Inni: il primo per l'elevazione dell'Albero della Libertà
a largo del Palazzo Nazionale, piantato il 10 piovoso (29 gennaio),
e il secondo dedicato alla Legione Calabra, letto nella Gran Sala
della Società Popolare (Monitore n. 31 del 5 pratile).
Appare perciò degna di maggior credito la ragione addotta dal
Conforti per giustificare l'inserimento di quelle parole fra le note
musicali. La tesi è questa: quando incominciarono le persecuzioni
dei patrioti anche il povero Cimarosa finì nelle mani dei sicari
del Cardinal Ruffo ed ebbe saccheggiata la casa e gettato dalla finestra
"sulle nude selci" il suo clavicembalo. Si buscò
anche una condanna al carcere che durò quattro mesi soltanto
perché liberato, contro il parere delle autorità, dalle
truppe russe a cui era ben nota la sua arte. Ma anche la liberazione
non valse a restituire a Cimarosa la fortuna. Morì, infatti,
poco dopo (l'11 gennaio 1801) a Venezia, dove era stato chiamato a
porre in musica l'opera buffa "L'Imprudente Fortunato".
Aveva appena cinquantuno anni. E' lecito dunque immaginare che, iniziata
la persecuzione, il maestro, nel tentativo di salvarsi, cercò
di apparire come un nemico della Francia, inserendo fra la sua musica
parole poco lusinghiere contro il "Franco audace ed empio".
Poiché di simili episodi, assai ingenui, è piena la
cronaca dei giorni successivi alla caduta della Repubblica, la ricostruzione
del Conforti appare assai più verosimile di quella dell'Orlandi.
Dell'altro testo, "La Felicità Compita", che forse
è il vero Inno, non si è ancora trovata traccia, o traccia
sicura, a meno che non si tratti delle parole inserite dal maestro
Roberto De Simone nel suo Oratorio. Vedremo che cosa ci diranno ricerche
successive. Certo, sosteneva il Perrone (nella Storia della Repubblica
Partenopea del 1799, edita in Napoli nel 1860) che "La Felicità
Compita (parole di Luigi Rossi) fu una delle più belle ispirazioni
dell'immortale Cigno Sebezio, Cimarosa, il quale Inno formò
durante tutto il rimanente tempo della Repubblica la delizia dei napoletani
di ogni ceto".