Macrì e il suo Salento fra simbolismo e storicismo




Mario Marti



"...habent sua fata libelli"; così alcuni dicono che pensasse Orazio, ma così invece certamente scriveva Terenziano Mauro nel suo De litteris del 286 dopo Cristo, volendo intendere che il destino di ogni libro è condizionato dalla varia disposizione del lettore. L'intero esametro infatti suona così: "Pro captu lectoris habent sua fata libelli"; la sorte del libro, quale che esso sia, risponde al captus lectoris: una sorprendente ipotesi di sociologia della lettura, formulata più di mille e settecento anni fa. Ma un libro tuttavia tanto più resiste al captus lectoris, quanto più è unitario, compatto, programmato, com'è questo di Albarosa Macrì-Tronci; un libro tutto teso a rilevare da varia direzione il senso, i modi, l'efficacia della componente salentina nell'opera del sempre caro e rimpianto Oreste Macrì, attraverso scritti, suoi e di altri, che si legano alla cultura operante nel Salento a partire dal secondo dopoguerra. Di qui il titolo del libro: Scritti Salentini (con tutte e due le esse maiuscole, probabilmente per enfasi di grafia), ovviamente di Oreste Macrì; il quale contiene anche cinque testimonianze (di Bo, di Bigongiari, di Marti, di Parronchi e di Valli), una introduzione, anche di Donato Valli, e una esaustiva "Nota ai testi" della solerte curatrice, nonché tante altre sue preziose annotazioni lungo tutto il volume su personaggi, avvenimenti e riferimenti bibliografici.
Dunque, si tratta bene di un libro decisamente mirato a uno scopo fin dalla sua prima ideazione, e costruito poi con la conseguente volontà di realizzarlo al meglio. Lo precisa la stessa Macrì-Tronci all'inizio dell'ora ricordata "Nota ai testi", nella quale indica al lettore le fonti autografe, le derivazioni, le vicende dei testi pubblicati, e lo informa con encomiabile chiarezza dei criteri di scelta e di ordinamento: cronologico per le poesie, ma tematico per le narrazioni, raccolte invece in quattro sezioni, in omaggio, diciamolo subito, alle "quattro radici" ipotizzate da Oreste. "Il progetto di questo corpus di scritti - ella scrive a p. 15 - nasce dall'intenzione di ricostruire il rapporto di Oreste Macrì con la sua terra nell'arco di una intera vicenda esistenziale-letteraria, come si è determinato all'interno della mens critico-creativa".
Il libro si apre con un testo ben noto, quello della "Memoria del mio ventunennio magliese (1913-1930; 1938-1942)"; prosegue con un gruppo di poesie giovanili (1934-1946) "del tutto inedite e sconosciute" (p. 17); propone poi una serie di racconti o di frammenti (alcuni dei quali finora ignoti), preceduti da una prosa di Macrì "Sulla mia arte narrativa", anch'essa inedita; e riproduce infine tre interventi su Libera Voce del '47 e uno sul Critone del '56, di argomento politico-culturale. La successiva quinta sezione, intitolata "Diorami del Salento letterario e artistico" (forse sul modello dell'analogo "Diorama della poesia spagnola del Novecento" di Macrì), contiene numerosi frammenti estratti generalmente dall'Albe-ro, e tutti volti - si avverte a p. 16 - alla "ricostruzione di quel Salento letterario e artistico, come civiltà autonoma e coerente, che fu scoperta originale di Macrì".
Chiudono il volume una scelta di lettere ben incisive rispetto allo scopo fondamentale dell'opera, dirette a Comi, a Bodini, a Pierri e a Pagano (quasi replica emblematica della cosiddetta "tetriade" salentina), e le cinque testimonianze già ricordate.
Questa è la secca ossatura del libro. E veramente, tra racconti in parte editi e poesie giovanili inedite; tra memorie della dimora vitale ed epistole suasorie, ortatorie ("la laurea, la laurea, la laurea", a Vittorio Pagano, che invece ne faceva volentieri a meno), o amichevolmente paternalistiche; tra scintillio di antologici diorami e interventi politico-culturali sui giornali salentini, e testimonianze esterne, infine, ed allotrie; esso si presenta davvero come un unicum, come un libro singolare ed anomalo, che si compatta tuttavia in tangibile unità per via del filo rosso identificabile comunque col Salento e nel Salento mediante Oreste Macrì. Ma si compatta anche, e soprattutto si direbbe, per la carica di affettuosa simpatia, d'amorosa attenzione, che tutto lo pervade, da parte della curatrice Albarosa Macrì-Tronci, sempre sollecitata da uno schietto sentimento direi anche parentale, di commossa ammirazione e quasi di sodalità nei riguardi di lui. Sicché dei due modi possibili di leggere questo singolare libro, indicati all'inizio della sua introduzione da Donato Valli; quello cioè di attraversarlo come incarnazione individuale originariamente evolutiva di generi letterari, o di considerarlo invece come esemplare di una sorta di iper-genere costruito intorno al preciso concetto macriano di letteratura; anche io, come lui, sceglierei questo secondo. Ma non trascurerei affatto l'importanza degli stimoli anche sentimentali e personali ai fini dell'incisività dei risultati, rispetto alla confermata consonanza del modo di intendere la letteratura. Insomma, secondo me, due sono le spinte, in grazia delle quali nasce il libro: la storico-culturale, che direi di integrazione e di sintesi dell'operosità di Oreste Macrì nell'ambito della sua attività salentina; e l'altra, sentimentale più che critica, di adesione ai temi, ai modi, alle motivazioni di quella operosità, ammirata e celebrata pure per un intimo impulso d'affetto di nipote, com'è Albarosa, intriso di memoria e gratitudine. Di queste due spinte a me pare più genuina la seconda, che alla prima sembra fare sempre da guida e da battistrada.
Tipico sintomo di questa condizione esistenziale e critica è il recupero e l'inserimento di quegli inediti, che qui compaiono per la prima volta; e soprattutto delle poesie, la cui pubblicazione evidentemente obbedisce più all'esigenza di integrare quanto già si sapeva sulla formazione di Macrì, che alla possibilità di modificarne la valutazione storica già nota. Sarebbe ingeneroso (eccettuato qualche rarissimo caso, e pur esso sempre discutibile) strapparle alla cronaca della quotidianità giovanile per un tentativo di storicizzazione critica. E' però significativo il fatto, accortamente sottolineato dalla Macrì-Tronci, che nel '46 Oreste aveva selezionato un certo gruppo di poesie (tredici testi, per l'esattezza, con ragionata disposizione) in apposito quaderno dattiloscritto; e una copia ne aveva donato a Giacinto Spagnoletti "col divieto assoluto di mostrarla a chicchessia" (p. 20).
Verosimile indizio di una tentazione di stampa, che Macrì seppe fortunatamente vincere con piena consapevolezza dei propri limiti al riguardo, apertamente e forse anche un po' amaramente confessati poi, più tardi, in varie occasioni, come tutti sanno. E un progetto anche - ci informa la Macrì-Tronci a p. 23 e sgg. - Oreste aveva disegnato per quelle che poi sarebbero diventate le Prose del malumore di Simeone; un progetto (riportato alle pp. 23-24), del quale invece sono state poi realizzate in volume due raccolte parziali, citate in fondo alla p. 24: quella leccese, dovuta a Gino Pisanò (1995), e quella viareggina, curata da F. Flego (1997). Ma per quanto riguarda la narrativa, il discorso è diverso da quello ora fatto per le poesie; né starò qui a ripetere i caratteri singolari di Macrì narratore, già così appropriatamente studiati e analizzati. Voglio dire insomma che gli inediti in prosa proposti dalla Macrì-Tronci, si inseriscono in un discorso critico già ben avviato e lo arricchiscono di nuovi esemplari, considerato che il narratore (più che il prosatore, che va spesso soggetto invece a certo gusto delle banalità stilistiche) stimola nel critico quelle ragioni d'interesse, che il poeta invece non fa, o non sembra fare.
La Macrì-Tronci si aggira con estrema sicurezza tra editi e inediti, strettamente fedele alla sua tesi di fondo: di cogliere la vitalità, i legami forti e segreti, che sempre e in vario modo, diretto e indiretto, stringono Oreste alla sua prima e forse mai intermessa "dimora vitale". Qualche volta può insorgere il dubbio sulla validità oggettiva dell'inedito. Per esempio, proprio quello intitolato Sulla mia arte narrativa, che per altro offre notevoli spunti, a me pare un frammento assolutamente rifiutato dall'autore e non più considerato, un po' per la frettolosità della scrittura qua e là visibile (cfr. il secondo capoverso), un po' perché s'interrompe in modo così brusco sull'immagine di Santa Teresa piccolina che si inventa la Messa; la quale immagine ritorna identica e quasi con le stesse parole a p. 35, nell'ambito di una rievocazione autobiografica ben definita e conclusa, e veramente di tutt'altra pasta e temperie (Memoria del mio ventunennio magliese). E frammento intenso, ma del tutto occasionale ed episodico sembrano anche essere i 15 righi di La casa magliese (p. 89); un appunto ironico e trasandato, destinato forse ad ulteriore elaborazione, sembra essere anche l'altro inedito intitolato La tetriade muliebre (p. 107); e uno scherzoso omaggio a Laura Dolfi l'inedito Salento ospitale (p. 143), il cui titolo appare eccentrico rispetto al nucleo della narrazione. Altri inediti in prosa invece resistono bene e contribuiscono; al qual proposito vorremmo segnalare la Preghiera (pp. 108-110), nella quale tuttavia mi par che si possa cogliere l'eco e la risonanza di recenti letture di scrittori mistici, considerata anche l'altezza della data: 2 ottobre 1935.
Sicuramente i brevi stralci che la Macrì-Tronci trae da varie fonti per raccoglierli sotto l'etichetta di Diorami del Salento letterario e artistico; e poi le lettere, veramente belle e importanti di Macrì a Comi, a Bodini, a Pierri, a Pagano insieme nell'apposita sezione; concorrono maggiormente alla felice realizzazione del primigenio programma del libro. Qui vien fuori imperiosamente il Macrì maestro e guida, stimolo e consacrazione, anello vitale ed efficace, sotto il profilo più ampiamente culturale e senza alcuna remora mortificante, tra Salento e Firenze, e Italia, ed Europa. Non c'è da spendere parola per sottolineare il vuoto che la sua scomparsa ha lasciato in questo campo; e certamente nessun altro potrà e saprà riempirlo con la sua stessa onestà intellettuale, con la sua stessa impulsiva e sia pure autoritaria generosità, col suo disinteresse supremo verso ogni forma di rivalsa e d'ingannevole ipocrisia.
Preciserò che a questo specifico e peculiare aspetto dell'attività di Macrì, Albarosa Macrì-Tronci ha dedicato, e giustamente, il meglio della sua attenzione, confermando, consolidando ed arricchendo le componenti storico-culturali all'uopo ormai già fissate con chiarezza e sicurezza: l'invenzione di una "linea salentina" nel cerchio della letteratura contemporanea; il Salento come propria "dimora vitale" e radice profonda di letteratura, d'arte e di pensiero; l'attenzione e la piena disponibilità verso i giovani e meno giovani talenti letterari salentini, e la loro consacrazione, motivata sempre con grande intelligenza e scaltro intùito, su piano nazionale; la capacità di continue sollecitazioni individuali e collettive di pensiero e di ricerca, e di quella pratica d'incontri e discussioni, che tutti sanno quanto sia preziosa e produttiva.
A questi innegabili meriti di Oreste Macrì nei confronti del suo Salento costringono a riflettere i già ricordati Diorami del Salento letterario e artistico e le lettere, racchiuse nella sezione destinata all'antologietta dell'epistolario (una ventina in tutto); tutte pagine corredate di utilissime e direi anche, in certa misura, compartecipi, note illustrative e osservazioni varie da parte della curatrice; compartecipi, giova insistere, culturalmente e sentimentalmente.
Certo: la produzione epistolografica di Oreste Macrì è pressoché sterminata. Le lettere e i quattro destinatari scelti dalla curatrice rientrano strettamente nella cosiddetta "linea salentina": Comi, Bodini, Pierri, Pagano. Ma quanti colleghi, amici, discepoli o semplici conoscenti non ne possiedono? Procede bene la loro diffusione a stampa, almeno finora; e la Macrì-Tronci non omette di ricordarne atti e iniziative e programmi a p. 25. Anche io - mi si conceda qui di ricordare - ho tenuto con Oreste un rapporto epistolare di almeno mezzo secolo: lettere però, direi, non tanto "salentine" o salentineggianti, quanto piuttosto di lavoro, e di lavoro altamente professionale, spesso anche di discussione e di dubbio problematico, derivante dalla diversa impostazione delle nostre rispettive metodologie della critica. Le ho conservate gelosamente, quelle lettere, nel mio carteggio, che, da me destinato a Lucugnano per un'infinità di buone ragioni (e vi tenni anche una conferenza illustrativa al riguardo), ha dovuto poi prendere altra, non meno gradita ma più disponibile strada, dopo tre anni dalla formale mia proposta di donazione, poi più d'una volta verbalmente confermata e sollecitata. Sono lettere un po' diverse dalle solite di riferimento locale ed amichevolmente paternalistiche o consacratrici; entrano spesso nel vivo dei problemi, come quello della metrica sintagmatica e della teoria generale dell'endecasillabo italiano, ed altri del genere. Nel volume della Macrì-Tronci i Diorami e le lettere fanno ben corpo con le poesie inedite e con le narrazioni edite e inedite (tralasciamo, per opportunità, di parlare degli interventi sui giornali nell'immediato dopoguerra); e costituiscono, mi pare, il cuore pulsante dell'intero libro. Meno, sicuramente, incidono le suddette cinque testimonianze, che ci riconducono ai massimi sistemi formulati o elaborati dalla fervida mente di Oreste Macrì.
E qui ci conviene tornare al ditterio di Terenziano Mauro, dal quale siamo partiti:
"Pro captu lectoris habent sua fata libelli". Ed il mio captus di lettore non è probabilmente il più adatto a trattare questo amabile libellus della Macrì-Tronci nella parte che ci riconduce alle grandi formulazioni teoriche di Macrì. Diciamo la verità: la testimonianza di Carlo Bo è del tutto deludente. Lessi quel suo articolo quando apparve sul Corriere della sera del 28 marzo del '98, in memoria di Macrì e di Bigongiari quali attivi componenti, recentemente scomparsi, del gruppo fiorentino collettivamente rammemorato; e ripercorrendolo ora ne ho ricavato analoga impressione negativa: inesattezze biografiche; trasgressione, forse in grazia di sicura franchigia, della buona educazione grammaticale; insistenza nell'attribuire alla poetica dell'ermetismo valori e significati politici del tutto a posteriori e palesemente immotivati. Molto meglio, ovviamente, la consonanza del sodale Bigongiari, eremita dello stesso eremitaggio e cultore della medesima cultura, specialmente quando vede nella storia, in modo del tutto contrapposto allo storicismo, e dietro lo scudo del simbolismo più crudo, "la realtà dei fatti sottratta alla verità occulta". Ecco: la temperie del simbolico e del pre-linguistico, la tensione verso l'origine germinale degli eventi, al di là d'ogni ingannevole apparenza "reale"; simbolismo, insomma, contro ogni storicismo idealistico e materialistico. E Donato Valli nella testimonianza sua, che è la quinta e ultima, vergata a caldo tuttavia, tre giorni dopo la morte e dunque sotto forte pressione emozionale, spinge ancor più in là, direi, questa specifica condizione, verso forme palesemente irrazionali e tendenzialmente misticheggianti: "Gli altri critici - egli afferma - possono descrivere la bella dea già formata dalla mente di Giove. Macrì in tutta la sua vita, che coincide perfettamente con la sua opera, l'ha cercata, ancora grumo di sangue e di anima, nel grembo di Dio" (qui a p. 261). Parole fortemente suggestive, che magari ti colpiscono con violenza, ti persuadono al momento e ti scuotono e ti commuovono; fino a quando poi, a freddo, tu non ti accorgi che questo significa, anche a monte, il rifiuto delle vie della ragione e della filologia; e non della ragione metafisica ed astratta, ma proprio della ragione vichianamente calata nel seno della storia, e della quale ogni "bella dea" è addirittura segno, documento, prova, coagulo, genesi, identificandosi, infine, proprio "la mente di Giove", in tutto e per tutto con quella ragione storica, che viene rifiutata.
Questo vuole essere anche il più pregnante significato della mia testimonianza (qui alle pp. 250-254) sulle "due anime" di Oreste, la quale si aggancia a un intervento sul Foscolo di Macrì da me pubblicato sul "Giornale storico della letteratura italiana" nel 1979. Da essa, e sotto i segni in qualche misura contrapposti dell'Università di Firenze e dei gruppi ermetici fiorentini dalla parte di lui, e della Normale di Pisa e degli storicisti alla Russo da parte mia, si dovrebbe desumere la mia forte perplessità di fronte a formule, sia pure suggestive e attraenti, come quella delle quattro radici della critica e della poesia; o come l'altra, piuttosto docilmente manovrabile, della cosiddetta "teoria delle generazioni". So bene che le "quattro radici" spopolano ormai nel Salento e altrove; la Macrì-Tronci, fra l'altro, se ne è anche servita, come abbiamo accennato già, per il migliore ordinamento dei pezzi narrativi da lei scelti, distinti appunto nelle quattro relative sezioni. Ma ciò non toglie che si tratti, effettivamente, di quattro vasi ancora vuoti (la dimora vitale, il sacro, la simbologia, la radice epilinguistica), che soltanto la storia e la filologia possono appropriatamente riempire.
Per Oreste Macrì, per esempio, non esiste una sola "dimora vitale"; egli se ne assegna, invece, e giustamente, almeno tre: Maglie, Parma, Firenze; e par chiaro che per tal modo anche la radice archetipica perde la propria categorialità iunghiana e diventa storia, di volta in volta diversa, come la rievoca lo scrittore nell'origine, nell'aspetto, nella incidenza, negli effetti concreti, e diventa anche, di per se stessa, la più remota genesi dell'arte. E so bene che la teoria delle generazioni di Macrì per il Novecento letterario italiano ha fatto scuola; ma essa intanto non è certo invenzione di Oreste Macrì, come qualcuno crede, e anzi risale di molti decenni al sociologismo positivistico del tardo Ottocento. Anna Dolfi, nel relativo libro di Oreste da lei curato per l'editore Cesati (O. M., La teoria letteraria delle generazioni, 1995) indica (a p. 18) negli studi di Macrì sulle dibattute generazioni dei poeti spagnoli (quella del '98, del '25 e poi anche del '36 e del '50) lo stimolo per avviare "poi, a partire dal 1953, un'analoga proposta di periodizzazione generazionale per il Novecento italiano".
E io preciserei: per quel Novecento italiano che egli sentiva solum suo, e di cui aveva contribuito a disegnare il profilo; un Novecento per altro, intoccabile, incontestabile, pena reazioni d'ostile malumore, ricordate anche da Parronchi nella sua testimonianza: "Il contatto seguiva a voce - ricorda Parronchi -, anche con sbalzi di malumore, che Oreste certo non dissimulava" (p. 258).
A me par curioso, insomma, che nelle ampie tessiture teoriche macriane, così tese verso il prelinguistico, l'archetipico, il simbolico, sia pure un simbolico socialmente apprezzabile, e verso le radici del primigenio sub-reale, trovino positiva, se non positivistica, collocazione quelle tavole anagrafiche individuali delle cinque generazioni del Novecento, quasi tavole della legge, che sono riportate in modo secco e schematico alle pp. 24-26 dell'ora ricordato libro di Macrì curato da Anna Dolfi; all'interno di ciascuna delle quali vengono stipati e compressi, poniamo, Bodini con accanto Bigongiari, Gatto con accanto Pavese, oppure Ungaretti con accanto Cardarelli, e via dicendo. Non per nulla questa teoria delle generazioni va subendo fatalmente una correttiva deviazione verso una più flessibile e storicamente manovrabile "teoria delle costellazioni". E' il modo con cui la storia, sempre individualizzante, reclama i suoi inalienabili e indefettibili diritti, contro ogni schematismo generalizzante.
Ecco: questo discorso ci ha permesso e ci permette di strappare l'immagine di Macrì alla nicchia della consacrazione iconica, entro la quale corre il rischio d'essere rigidamente collocata, e di calarla invece decisamente nella dialettica viva della scienza, della storia, della filologia. Il Novecento letterario italiano ipotizzato da Oreste Macrì è come un denso, complesso e ribollente grumo di umori, ed è anche una fitta rete di solide e irrevocabili amicizie in attiva reciprocità. E non c'è affatto da scandalizzarsi per questo, anzi c'è da prenderne atto e da ammirare la rigorosa coerenza e la compattezza dell'impegno. Oreste Macrì non è affatto uno storico del Novecento letterario italiano, ma ne è invece un fervido e attivo militante; e militante, direi, sempre furiosamente impegnato in prima linea, all'attacco, o in trincea, in difesa. E dalla sua militanza deriva gran parte della sua notevole statura e incisività di personaggio contemporaneo. E questo personaggio non può mutare la propria natura e il senso delle proprie battaglie, se e quando agisce in rapporto al Novecento letterario salentino. Egli dunque non è neanche uno storico della cultura operante e viva nella regione, ma ne è stato un grande promotore, una sorta di demiurgo, se più piace, e un continuo punto di sicuro riferimento, ma sempre in piena militanza e settorialità di schieramento. Sicché, anche la linea salentina della letteratura contemporanea, com'egli è andato via via creandola e tracciandola, appare anch'essa come un denso, complesso e sempre ribollente grumo di umori, ed è anche essa una fitta rete di solide amicizie in attività reciproca, o anche di occasionali e fugacissimi incontri, magari una tantum, e certe volte di assoluta irrilevanza critica e storica.
Un minimo di meditazione oggettiva e fredda, di riflessione insomma storica, ma a trecentosessanta gradi, persuaderebbe che quella tracciata da Macrì per il Salento è soltanto una, delle componenti della vivace, multiforme, complessa e varia cultura artistica e letteraria della regione in questa seconda metà del sec. XX; e sia pure di più notevole eccellenza. E' il Salento poetico e letterario e artistico di Macrì, quello cioè interpretato secundum Orestem, che ovviamente emerge dalle pagine raccolte da Albarosa Macrì-Tronci, e dall'intera sua fatica. E diciamo pure che non poteva essere diversamente, visto il programma e lo scopo originario e fondamentale del libro.
L'orizzonte problematico da noi percorso è stato però assai ampio, e più ancora lo sarebbe, se io cedessi ora alla tentazione di tracciare, sia pur rapidamente e per sommi capi, il cammino di Oreste dai primi veramente orfici ed ermetici Esemplari (il suo primo libro famoso del '41), bruciati senza residui nell'esaltazione metafisica della parola, fino alle ariose e ammirevoli aperture del suo posteriore e via via sempre più maturo e robusto comparativismo, in cui l'erudizione è avocata a balenante stimolo d'intuizione critica e a viatico d'interpretazione storica. Mi basti d'averne accennato, almeno come indicazione di una nuova e un po' diversa via di approccio alla più importante e resistente produzione di lui; che a me pare sempre quella dello studioso illuminante, del solidissimo saggista, e dell'infaticabile ricercatore dei significati del tempo attraverso testi classici e personaggi storicamente emblematici. Questo non toglie assolutamente nulla all'incidenza attiva, all'importanza storica, al fervore produttivo del militante, la cui operosità vorrebbe solo essere inquadrata entro la coralità molteplice e multiforme di tutte le componenti del Novecento letterario italiano, nessuna esclusa, ma anche nessuna particolarmente privilegiata, o addirittura considerata come la sola storicamente valida. Davvero nulla toglie alla figura militante di Oreste Macrì; anzi la integra, la completa e la rende persuasivamente più articolata, almeno nella distinzione tra valori storici reali e obbiettivi, plinti fondamentali di una pur sempre viva intelaiatura critica comparativistica d'ascendenza vichiana, e milizia ideologica a favore di una specifica "poetica" novecentesca, di tipo ermetico e iunghiano, che pare invece conclusa ormai e definita come prodotto di un "tempo" preciso e di ben determinate circostanze.


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