Marzo 2000

DALLA “BIBLIOTECA SALENTINA DI CULTURA” AL FUTURO

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Il punto sulla “B.S.S.”
Mario Marti
 
 

 

 

 

 

 

Questo lavoro
andò avanti
fra accuse di
provincialismo,
di cultura retrograda e reazionaria,
talora
con scetticismo
irridente.

 

Cominciamo col dire che la sigla “B.S.S.” sta per “Biblioteca degli Scrittori Salentini” dell’editore Congedo di Galatina, fondata e diretta da Mario Marti con la collaborazione di alcuni amici e colleghi di redazione. In realtà, la “Biblioteca degli Scrittori Salentini” costituisce la prosecuzione di una “Biblioteca salentina di cultura” pubblicata dall’editore Milella di Lecce, e a suo tempo fondata anch’essa e diretta da Mario Marti, assistito dagli amici della redazione. Ma si tratta, in sostanza, di un’unica iniziativa, ormai più che ventennale, e che sfiora anzi il quarto di secolo. Le cose andarono come ora si racconterà con la maggior precisione possibile, per l’interesse e la curiosità di tutti coloro che, sempre attenti, per dovere o per passione, allo svolgersi della fenomenologia della cultura, e in particolare di quella letteraria, non disdegnano di impattarsi, con serietà ed impegno, col difficile e rischioso problema dei rapporti dialettici tra l’operosità locale e quella, per l’appunto, nazionale, in una visuale integrale e policentrica della storia. Entro e fuori dell’«accademia» universitaria e non.
Ora mi si permetta di passare, senza scandalo alcuno, dalla terza persona alla prima, considerata la mia posizione nella questione specifica; e questo son sicuro che renderà anche il discorso più sciolto, amabile e dunque leggibile, se non godibile. Almeno, lo spero vivamente; anche perché mi atterrò alla nuda realtà dei fatti, senza alcuna spinta di protagonismo, di vano compiacimento, o, peggio, di narcisismo. E comincerò col ricordare quel dolce tardopomeriggio di settembre (era l’anno 1976), quando l’editore Antonio Milella, del quale ero diventato stretto collaboratore e amico fidato lungo i miei precedenti anni di docenza alla Facoltà di Lettere, venne a casa mia, per discutere e decidere, insieme con me, positivamente o negativamente che fosse, circa una iniziativa editoriale che gli avevo illustrata nelle sue linee generali, e forse ancora un po’ vaghe, e che però mi stava molto a cuore, e da molto tempo. E infatti, quando io fui chiamato all’incarico di tenere l’insegnamento di Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere, che stava per nascere (1956) dopo quella di Magistero (1955), era da poco iniziata la stagione delle “letterature regionali”, in parallelo, direi, e in concomitanza col generale problema politico della “regione” espressamente prevista dalla recente Costituzione italiana. Più strettamente sotto il profilo politico, e più ampiamente e articolatamente (e forse con maggiore tolleranza d’apertura) sotto quello culturale e letterario, si discettava sulla storia, e insieme, sulla geografia della tradizione politica, per cogliere elementi e nessi fra le forti aspirazioni unitarie e le non meno forti realtà concrete di differenze antropologiche e di identità storiche; e si discettava – anzi si cominciava a discettare con cognizione di causa – insieme sulla storia e sulla geografia della tradizione letteraria, e sul significato pregnante del loro rapporto, volta a volta identificato ed analizzato. Il famoso saggio di Carlo Dionisotti, intitolato Geografia e storia della letteratura italiana, apparve per la prima volta nel 1951 in “Italian Studies” di Cambridge; ed era, sostanzialmente, la pubblicazione di un testo letto a Londra due anni innanzi (1949). Ecco: questa era la via che mi ripromettevo di percorrere, quando accettai l’incarico di Letteratura italiana offertomi dal Comitato Tecnico della neonata Facoltà di lettere nella persona del prof. Raffaele Spongano, e formulai dentro di me i programmi futuri: una ricognizione e una rifondazione della regione Salento (ché il Salento è veramente una regione ben identificata) particolarmente sotto l’aspetto letterario, e più ampiamente culturale, con l’ausilio di una rigorosa teoria della letteratura e di una scrupolosa attenzione ai fatti e ai problemi di carattere storico e di carattere filologico (del resto, già nel ‘49 era apparso, sull’«Albero», un mio studio di natura metodologica, intitolato Critica letteraria come filologia integrale). Era quella la via giusta e più attuale e, diciamo pure, attraente, almeno in quegli anni: nel ‘68 uscì la prima Storia letteraria delle regioni d’Italia compilata da Natalino Sapegno e Walter Binni; e due anni dopo (1970) proprio a Bari si svolse il VII Congresso dell’Associazione internazionale per gli studi di lingua e letteratura italiana (AISLLI) su Culture regionali e letteratura nazionale (gli “Atti” presso l’Adriatica Editrice di Bari, 1971). Con tutto quello che poi è anche seguìto nello specifico campo d’indagine.
Così, non appena fu giuridicamente possibile, e cioè col riconoscimento legale dell’istituzione universitaria a Lecce, che avvenne nel 1960, detti inizio a un’esplorazione a tappeto dei repertori bibliografici salentini, secolo per secolo, dal Quattro-cento in poi, allo scopo di disegnare panoramiche di fondo, sia pure non affidabili, o non del tutto affidabili, preziose però per un successivo e più proficuo e incisivo lavoro. Mediante tesi di laurea, naturalmente, e sempre d’accordo con i laureandi, e con il loro pieno consenso e talvolta entusiasmo, stimolati, in tal modo, a conoscere i percorsi della letteratura e della cultura della loro piccola patria, ivi comprese le vie delle scienze fisiche e naturali, nei secoli passati. La prima di queste tesi di laurea, delle quali io fui sempre relatore (era mio bravo assistente allora Antonio Mangione, insieme, tuttavia, con Donato Valli, il quale però aveva avuto l’incarico di tener dietro all’organizzazione della biblioteca interfacoltà, egli, che proveniva dalla Provinciale), fu dedicata al sec. XVI, compilata da Anna Maria De Vergori, e discussa alla fine dell’anno accademico 1960-1. La tesi fu costruita secondo un modello utilizzato poi anche nelle successive, con progressivi accorgimenti e miglioramenti; e cioè: una serie alfabetica di schede sui personaggi eminenti nell’epoca, con brevi notizie tratte dai repertori (indicati con sigle), seguìta dall’elenco bibliografico dei repertori consultati e utilizzati, e preceduta da un’articolata introduzione, aperta a osservazioni di carattere generale sul periodo in questione, e anche a suggerimenti, annotazioni, giudizi di carattere specifico sui vari settori della cultura (e non della sola letteratura) e sui personaggi che meglio li avevano rappresentati.
Mi spiace dover qui avvertire che questo lavoro inizialmente andò avanti fra accuse di provincialismo, di cultura retrograda e reazionaria, talora con scetticismo irridente (parlo degli anni Sessanta). E non da parte dei bravi laureandi o devoti studenti (dopo la De Vergori vennero la Minzoni, il De Filippis, il Martalò, la Mastroleo e il Del Prete), ma da parte del quasi intero territorio accademico, chiamiamolo, “sessantottino” (prima e dopo), e anche da parte del quasi intero territorio non accademico, il quale si riteneva deluso, anche per motivi eterodossi, dell’operazione universitaria leccese e di siffatte indagini, ritenute (ahimè, solo per il fatto di trattare argomenti salentini) assolutamente dequalificanti. E così il famoso Sessantotto qui a Lecce (e pensare che l’Università era stata statizzata nel ‘67!) ebbe l’effetto – tra altri molti – di giudicare e di far apparire quello che era un solido programma, di sdoganare cioè e di recuperare e storicizzare la vicenda civile del Salento, inserendola dialetticamente nel quadro nazionale, come un preteso fenomeno di provincialismo anacronistico, becero ed ottuso. Io abitavo ancora a Roma, e lavoravo gomito a gomito con i miei grandi amici e maestri; e mancavo dal Salento da almeno trent’anni, e anche più se si considerano quelli universitari trascorsi quasi per intero a Pisa, interno alla Normale.
E tuttavia quel lavoro non andò perduto. In quel tardopomeriggio del ‘76, già ricordato, l’editore Antonio Milella, dopo non poche e non immotivate esitazioni ed incertezze, disse di sì, e decise, coraggiosamente, di accollarsi l’onere della pubblicazione e della diffusione dei volumi che sarebbero stati pubblicati. Lo ringraziai; e fu allora che, concludendo trascorsi contatti occasionali, pregai Antonio Mangione, Gino Rizzo e Donato Valli a collaborare con me nell’importante e meritoria iniziativa, costituendo una sorta di comitato redazionale al fine di preparare, intanto, un piano generale e di discutere e risolvere nella maniera migliore i problemi connessi. Io, per intanto, già da tempo mi dedicavo allo studio di un poeta singolare operante alla corte di Isabella Del Balzo ormai regina di Napoli, in onore della quale aveva narrato e descritto il suo viaggio, con la piccola e domestica corte, dal Salento alla capitale. L’opera: Lo Balzino; l’autore, Rogeri de Pacienza di Nardò (Lecce).
Il lettore comune, e anche quello che si occupa genericamente di letteratura, difficilmente possono rendersi conto della complessità, della difficoltà e del numero dei problemi che chiedono di essere risolti in una iniziativa del genere: i limiti geografici della selezione (Salento, fin dove?); le condizioni biografiche e anagrafiche dei selezionati o selezionandi (nascita nel Salento, magari occasionale, e mai suffragata da successive dimore o successivi legami e interessi con la terra natia); i piuttosto vaghi e labili confini tra scienze umane e cultura popolare (coagulo della letteratura dialettale riflessa e distinzione dalla puramente demologica e folcloristica); antologizzare gli autori oppure dare per intero la loro principale opera, o le loro opere più significative; fissare i limiti cronologici del percorso storico (da dove cominciare e fin dove spingersi); fissare la struttura dei volumi (il loro contenuto interno) e la loro veste editoriale (d’accordo con l’editore); commisurare la serie dei volumi e la loro preparazione alle oggettive possibilità e capacità dell’editore; attribuire un titolo all’intera collezione. Questi furono subito i più importanti problemi di fondo che la redazione si trovò a dover discutere e risolvere, prima che, in seguito, ciascun volume ne presentasse di suoi specifici, demandati alla responsabilità dei singoli curatori. Come denominazione generale fu deciso, scartate altre discusse ipotesi, di adottare la seguente: “Biblioteca salentina di cultura”, e non “di cultura salentina”, a sottolineare l’universalità del concetto di cultura e insieme la specificità della fenomenologia regionale, entro quel disegno dialettico e policentrico (regione-nazione) di cui s’è già detto.
Non starò qui a specificare e a chiarire i criteri adottati; essi compaiono palesemente nella concretezza dei volumi, entro i quali non di rado se ne specificano modi e motivi. Ammetterò senz’altro che talora lungo il cammino hanno avuto grave peso ragioni del tutto pratiche, perfino di rapporti umani, nonché di ricerca scientifica. Per esempio, è stato osservato come finora non sia stato dato spazio a un personaggio qual è Antonio de’ Ferrariis detto il Galateo, il più insigne personaggio dell’Umanesimo salentino. Era in piedi, e lo è ancora, l’iniziativa, d’estrema importanza storica e filologica, da parte del collega ed amico Franco Tateo a Bari e della sua scuola, di dare adempimento all’edizione critica delle opere di quel nostro grande conterraneo. Eravamo, e siamo tuttora in attesa dei risultati editoriali; ma era assolutamente doveroso rispettare il lavoro altrui, a così alto livello di scienza e di affettuosa reciproca stima. Un altro appunto è stato rivolto alla iniziativa: quello di aver dato tutto lo spazio alla letteratura, e a una letteratura, per giunta, troppo fine a se stessa. Questo è vero, direi, solo fino a un certo punto; in realtà, gli illuministi e riformatori salentini già pubblicati non rientrano nella categoria dei “letterati”, e non rientra neanche Rogeri de Pacienza, che è narratore in versi canterini, e neanche un personaggio come Francesco Rubichi (e i singolari documenti che compaiono nel suo volume), e a stretto rigore nemmeno gli scrittori di pietà, e il Vanini, e tanta parte della produzione dialettale. Dunque l’insinuazione del bellettrismo non ha davvero fondamento. E’ successo che, come si diceva per ragioni pratiche, s’è presentato più facile e rapido il lavoro su autori in qualche modo più accessibili alla ricerca, al reperimento dei testi; e questi sono stati privilegiati nel tempo. Ma in una serie successiva, che forse non vedrà mai la luce, era incluso non solo il Galateo, ma anche il teatro, le cronache, gli scienziati scrittori, una emeroteca, e la letteratura popolare e perfino gastronomica. Sarà còmpito – lo spero davvero – di chi seguirà; ma ho grosso timore del contrario.

Il primo volume della “Biblioteca salentina di cultura” ad essere pubblicato (dicembre 1977) fu quello contenente le Opere di Rogeri de Pacienza di Nardò (Lecce), e cioè Lo Balzino e il Triunfo; ed ebbe la fortuna d’esser patrocinato, e finanziato, dal Club di Lecce, Distretto 108 A, Lions international, in occasione del XX anniversario della “Charter Night”. Io ebbi allora contatti personali con Pierluigi Sales e con Salvatore Raeli, rispettivamente Presidente e Vice Presidente del Club, i quali desidero qui ricordare con gratitudine. Ma certo urgeva la necessità di un sicuro finanziamento, in ogni modo, anche parziale, per poter procedere senza timori d’interruzione o di chiusura. Fu allora che, durante certi colloqui in casa Reale, àuspice Antonio Mangione, affiorò l’idea di una fondazione specifica appoggiata a qualche banca locale che si dichiarasse disponibile all’occorrenza. E la banca locale, per un complesso di ragioni occasionali e anche, in parte, casuali, fu quella che allora si chiamava Banca Piccolo Credito Salentino, in piazza Sant’Oronzo. Ne era presidente il sempre rimpianto e compianto Giuseppe Magi; e nel Consiglio d’Amministrazione operavano Orazio Antonaci, Titta De Donatis e Maria Rosaria Muratore, che caldeggiarono con grande simpatia ed efficacia l’idea di una fondazione bancaria con priorità assoluta nei confronti della pubblicazione dei volumi della “Biblioteca salentina di cultura” così come erano stati previsti e programmati dalla redazione (2 serie di 12 volumi ciascuna). Approvata l’idea, fu redatto lo statuto dal notaio Enrico Astuto, che ottenne i crismi legali dalla Regione Puglia nel 1980, e cominciò subito a funzionare. Così, dopo il Rogeri, furono pubblicati dalla fondazione i volumi di Rizzo sui barocchi (Donno, Maia Materdona); di Valli sui salentini fra Otto e Novecento (Ampolo, Nutricati, Gigli, Rubichi, ecc.); di Mangio-ne sui salentini dell’Ottocento (Forleo, Castiglione, Prudenzano), di Aldo Vallone sugli illuministi e riformatori (Palmieri, i Briganti, Astore, ecc.); e il mio Antonino Lenio di Parabita.
Ma verso la fine degli anni Ottanta l’editore Milella entrò in crisi; e fu giocoforza cambiare editore e testata, anche se l’iniziativa della collezione era sempre quella, e sempre quella la redazione, cui si era aggiunto, con impegno e vivo interesse, Giovanni Papuli. Pro bono pacis, la precedente testata di “Biblioteca salentina di cultura” fu mutata in “Biblioteca di Scrittori Salentini”; e la collaborazione con l’editore Congedo di Galatina ebbe inizio col superbo volume di Papuli, appunto, e di Raimondi sulle Opere di Giulio Cesare Vanini. Nell’occasione fu anche rimaneggiata, in qualche misura, la serie dei volumi originariamente programmata, per dar corpo organico alla nuova “Biblioteca di Scrittori Salentini”, sempre della “Fondazione Piccolo Credito Salentino per gli studi sul Salento”, ma ormai dell’editore Congedo. E si metteva anche a profitto la notevole esperienza già acquisita e il risultato di nuove ricerche, entro e fuori l’attività della redazione.

Col passare degli anni, e soprattutto col calo degli interessi fruttati dal capitale, sui quali si poteva solo fare affidamento per le spese di pubblicazione (il capitale, intangibile, era stato portato, nel frattempo, da 60 a 100 milioni), giunsero tempi grami per la fondazione. E giunse anche il momento in cui il Consiglio d’amministrazione della fondazione, presieduto per altro dallo stesso Presidente della banca (ora “Credito Popolare Salentino”), dovette chiedere aiuto al Consiglio d’amministrazione dell’istituto bancario. A Giuseppe Magi era succeduto il dott. Enzo Perrone, alla cui aperta e generosa lungimiranza si deve se la fondazione ha potuto continuare nella sua apprezzata attività. Continuo tramite divenne allora la signora Maria Rosaria Muratore, con il suo autorevole intervento, con la sua forza di promozione e di persuasione, con la sua continua ed efficace presenza. Così ai nove volumi della defunta “Biblioteca salentina di cultura”, ne sono seguiti altri numerosi e assai importanti nel decennio appena trascorso: ancora poeti barocchi di Gino Rizzo (Battista e Bruni), dopo il già menzionato Vanini di Papuli e Raimondi; il Caracciolo di Esposito e Mordenti; gli scrittori di pietà di Marti; e soprattutto due interventi davvero monumentali, e cioè: i due tomi di Mangione per Ascanio Grandi (Tancredi e Vergine desponsata) e i cinque tomi di letteratura dialettale salentina, approntati da Mario Marti (Settecento) e da Donato Valli (Otto e Novecento); una silloge, quest’ultima, che non ha pari in alcun’altra regione d’Italia, e che pone il Salento all’avanguardia degli studi sulla letteratura regionale dialettale.
A questo punto (gennaio 2000) la “Biblioteca salentina di cultura”, divenuta “Biblioteca degli Scrittori Salentini”, consta di ventuno volumi già pubblicati; due altri, dedicati a Scipione Ammirato e curati da Martino Capucci, sono in stato di avanzato allestimento; e in cantiere è anche una raccolta di filosofi e trattatisti del Cinquecento affidata a Giovanni Papuli. Ma i tempi rallentano e diminuisce la sicurezza, perché si sono verificati avvenimenti che hanno messo in crisi l’identità stessa della fondazione (“Fondazione – si precisa – Piccolo Credito Salentino per gli studi sul Salento”): alludo alle operazioni intervenute di recente fra il Credito Popolare Salentino, titolare della fondazione, e la Banca Del Salento, già corredata di una fondazione tutta sua; e della successiva operazione intervenuta tra questo nuovo organismo bancario e il Monte dei Paschi di Siena, che lo ha, in sostanza, rilevato. Si è voluto, giustamente, adeguare lo statuto della vecchia fondazione alla nuova complessa situazione bancaria; e si è entrati in una fase di stallo e di impaludamento, che la vecchia fondazione assai difficilmente potrà superare indenne, cioè conservando la priorità assoluta della pubblicazione dei volumi della “Biblioteca” nella propria attività.
E tuttavia, pur con questo timore e con questa non del tutto ottimistica convinzione, e nonostante generiche assicurazioni sempre verbali però ed occasionali, non ho trascurato di redigere la nuova serie di volumi che potrebbero essere preparati e stampati, formulata insieme con i miei cari collaboratori, e di inviarla ai vertici della fondazione (cioè, insomma, della banca), perché la redazione, per suo conto, offrisse la base per un programma futuro. E infatti, chi ha preso visione, sia pure superficialmente, della costituzione e della struttura dei volumi, non può non rendersi conto della necessità di una programmazione a prospettiva lunga e organica, e non frammentaria e occasionale; si tratta di ricerche, di lavori critici, di opere, che richiedono tempi lunghi o anche lunghissimi (poniamo, due-tre anni) anche a studiosi addestrati a questo genere d’impegno. Piacerebbe, per esempio, un’intelligente silloge delle apologie secentesche sulla Lecce d’allora; oppure l’edizione e lo studio delle opere di Bonaventura Morone, di Cataldantonio Mannarino, di Castromediano e dei memorialisti dell’Ottocento, degli scrittori tardoumanisti e dei minori fra Otto e Novecento; sarebbe bello raccogliere tutte le cronache di Lecce in un volume (magari in due tomi); una larga e significativa esemplificazione di grandi giuristi ed economisti salentini in un altro volume; trattare a parte la figura di Vincenzo Corrado e la sua attività di teorico della gastronomia locale; dedicare un articolato volume alla letteratura popolare; per non parlare del Caraccio, di Quinto Mario Corrado, di Cesare Raho, di Bernardino Cicala, dei grandi medici e scienziati, degli antichi scrittori di teatro laico e religioso (il teatro dei Gesuiti), e via dicendo. In tanta messe di storia il difficile sarebbe la scelta e la selezione; la materia è tanta, e così ricca...
E pensare che si destinano soldi, fatiche e tempo prezioso a ricerche di nessuna importanza e utilità storica, a ristampe anastatiche di opere illeggibili e indecifrabili, a pubblicazioni d’ogni genere atte soltanto a titillare la vanità di qualche personaggio o a ostentare presunte eccezionali qualità letterarie, di poesia e di prosa, o a scambiare l’effemeride del quotidiano con la falsa maschera dell’eterno. Diomio!, ci vuole anche questo, me ne rendo conto; va bene anche questo, che come specchio fedele riflette l’atavica vocazione delle genti salentine piuttosto verso le scienze umane che verso quelle naturali, fisiche e matematiche. Ma certo sarebbe poco meno che delittuoso, a mio modesto giudizio, ora che una “Biblioteca degli Scrittori Salentini” è così bene avviata, dopo vent’anni, e più, di lavoro, non continuarla con lo stesso rigore e, diciamo, con la stessa grinta fino a un ragionevole traguardo storico, selettivamente raggiunto. Non posso che augurarmelo e augurarlo alla mia piccola patria; ché per quanto mi riguarda, io ormai, sulla soglia degli ottantasei, posso dire che la mia parte l’ho fatta, e che la mia partita è chiusa.

   
   
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