Giugno 2000

EUROPA PROSSIMA VENTURA

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Dar voce
alla società civile
Jacques Delors  
 
 

 

 

 

 

E’ la tirannia
del breve termine quella
che ci minaccia, poiché senza
memoria,
senza radici e senza tradizioni non si può inventare un futuro.

 

La società civile non data da oggi e ciò che più conta – anche se la formula può apparire un po’ brutale – è che ci troviamo in un’epoca di disincantamento democratico, mentre, questo è il paradosso, i princìpi della democrazia hanno vinto sulle varie forme di totalitarismo.
Quello che cercano di ricostruire i Paesi dell’Europa centrale e orientale candidati all’adesione, dopo essersi sbarazzati di un’insopportabile tutela dello Stato, è proprio una società civile. Questa è stata oggetto nel corso dei secoli di molta riflessione. La troviamo nel secolo dei lumi e della promozione dell’individuo, ma in alcuni autori con un certo timore. Non abuserò di citazioni, ma vorrei ricordare come esempio Adam Fergusson, il quale, nel XVIII secolo, scrive: «La modernità della società civile, che porta in sé tanta forza liberatrice, sembra isolare gli individui fino a far perdere loro la coscienza di appartenere a un tutto». A partire da questo momento, si svilupperà l’eterna dialettica tra la necessaria e vitale espressione degli individui liberi e autonomi da un lato, e, dall’altro, la necessità per gli stessi di essere rappresentati e di potersi esprimere a tutti i livelli.
Non bisogna confondere società civile e società civile organizzata. Comincerò pertanto col cercare di comprendere le evoluzioni della società civile prima di arrivare alla società civile organizzata, così definita: istituzioni più o meno formalmente costituite su base volontaria, regolamentate dalla legge, e che sono un legame di formazione della volontà collettiva e di rappresentanza dei cittadini.
La società civile è in movimento. E’ al centro dell’attuale mutamento. In poche parole: stiamo abbandonando la riva della società industriale e dello Stato-nazione; ci dirigiamo verso una società cosiddetta post-industriale (altri parlano di una società digitale), ovvero verso una globalizzazione che, d’altro canto, ne sono certo, non cancellerà gli Stati nazionali. Siamo dunque in mezzo al guado e dobbiamo cercare di comprendere innanzitutto ciò che succede nella società. Anche se potrà sembrare banale, vorrei citare alcuni parametri che vengono spesso trascurati quando ci si pone al livello della società civile organizzata, ma che sono importanti.

Il primo non ha bisogno di commenti, è il grande fenomeno degli ultimi cinquant’anni: la promozione della donna, con tutte le sue conseguenze, non solo sul piano filosofico, ma anche su quello dell’organizzazione della società e dei bisogni che da essa derivano.
Il secondo è il deterioramento della cellula familiare tradizionale e la trasformazione dei legami di parentela. Se segnalo questo fenomeno non è per fare delle considerazioni generali sulle nuove forme di parentela che ne conseguono, ma per sollevare una questione: chi rappresenta oggi le famiglie nel loro insieme e nella loro diversità? Chi si fa portavoce delle loro aspirazioni?
Terzo parametro: le trasformazioni dei comportamenti religiosi che, nel corso dei secoli, hanno fatto seguito alla laicizzazione delle istituzioni politiche. Fede, partecipazione, sentimento d’appartenenza, tutto questo si muove, ma in una sola direzione. Non alludo soltanto alle sètte, alla diminuzione della pratica religiosa, ma anche a una sorta di ricerca di valori che si esprime in differenti maniere.
Il quarto parametro è quello che si avvicina di più alle preoccupazioni di tutti, ed è rappresentato dalle trasformazioni del mercato del lavoro, soprattutto per effetto della rivoluzione tecnologica. Con il calo indiscutibile degli effettivi delle organizzazioni sindacali, quale forma di rappresentanza avremo domani, quale forma di dialogo sociale, quale gerarchia nei negoziati? Ci avviamo, come sostengono alcuni, verso un mercato del lavoro in cui ogni individuo sarà il proprio portavoce e negozierà il suo contratto di lavoro con il capo d’azienda? Ci avviamo verso la scomparsa delle forme di rappresentanza collettiva, quando si sa che abbiamo abbandonato la società del taylorismo per entrare in un universo in cui i lavoratori diventano più autonomi? Si esige da loro non solo che assolvano il proprio compito, ma che ne controllino i risultati, e si vedono già sul mercato globale dei professionisti che sono in qualche modo indipendenti dalle costrizioni delle aziende e che sono richiesti sull’insieme del mercato. Abbiamo, quindi, da un lato, quelli che sono nelle imprese, che devono adattarsi, ma che hanno sempre un contratto di lavoro e che trovano nell’impresa il valore aggiunto dei loro sforzi; dall’altro, tutti coloro che sono soggetti alla flessibilità del mercato del lavoro e ad una necessaria mobilità, e, in mezzo, questi nuovi professionisti: credo che questo sia un importante argomento di riflessione per le organizzazioni professionali, degli imprenditori e dei sindacati, se vogliono continuare a sentirsi legittimate ad esprimere le aspirazioni e i bisogni degli interessati. In fondo, è l’intero modello europeo, nelle sue differenti forme di concertazione e di negoziazione, ad essere chiamato in causa. Non dico che sia destinato a scomparire, ma è in discussione, non si può fare come se niente si stia muovendo e non tenerne conto. Coloro che non hanno una posizione stabile sul mercato del lavoro non hanno le stesse esigenze, le stesse garanzie di quei professionisti che sono ricercati sul mercato mondiale.
Quinto parametro di questa evoluzione: la città europea. Ne abbiamo parlato molto negli ultimi anni nei nostri dialoghi con gli amici dei Paesi dell’Est e del Centro-Europa, poiché, al di là delle differenze, delle divergenze che sono state costruite da un increscioso decreto della storia, la città europea è rimasta anche in questi Paesi un elemento essenziale della civiltà europea, una forma di espressione della nostra identità. La città mercantile, la città intesa come spazio culturale, la città di fronte alle nuove esclusioni sociali, la città come luogo di contatti umani e non. Riuscirà Internet a sopprimere la socializzazione agevolata dalle città? La città, intesa come pilastro della gestione del territorio, è dunque un fenomeno economico, sociale e di civilizzazione. Chi rappresenta la città? Chi la esprime, oggi? Naturalmente i borgomastri, i sindaci, ma chi tiene conto di elementi quali la gestione del territorio, o l’esclusione sociale, o altro, nelle politiche che vengono definite ai più alti livelli?
Infine, sesto parametro: lo sviluppo della vita associativa. Anche in questo caso, nelle nostre discussioni con gli amici del Centro-Est Europa, è emerso che la necessità di ricostituire gli attori di una società civile è un problema anche per loro. E dobbiamo aiutarli. Naturalmente, essi sono creativi, hanno delle tradizioni, ma dobbiamo ugualmente aiutarli in questo campo. Si è valutato che se si sommano le associazioni, le mutue e le cooperative, 250 milioni di europei su 370 milioni di cittadini dell’Ue ne sono membri. Se ci si limita al fenomeno dell’associazionismo, sono circa 100 milioni i cittadini che fanno parte di un’associazione. Attenzione: riguardo alla vita associativa, da trent’anni a questa parte le giovani generazioni praticano lo zapping. Non restano troppo a lungo nella stessa associazione. Cercano, in quanto cittadini, di trovare il modo migliore per esprimersi. Un’inchiesta realizzata in Gran Bretagna sulla depoliticizzazione dei giovani lo dimostra ampiamente. Le giovani generazioni sono a conoscenza dei problemi collettivi, ma non hanno più fiducia nella politica come mezzo di risoluzione. Cercano quindi di farsene carico quando hanno il coraggio e il tempo per risolvere una parte dei problemi posti. Non si tratta per questo di disconoscimento o di indifferenza, ma di una sorta di distanza presa nei confronti della classe politica per ragioni molteplici e per una percezione dei problemi che devono essere risolti, cosa che si cerca di fare nell’ambito di una democrazia a portata di mano.
Ecco quindi alcuni elementi della società ai quali fare riferimento parlando della società civile organizzata, poiché bisogna tastare il polso di questa società, cercare di comprenderla. Naturalmente, facciamo questa riflessione nel contesto di una crisi del politico che è innanzitutto una crisi di valori. Molti intellettuali, appoggiati dai media, avevano annunciato negli anni Sessanta la morte di Dio, poi la morte delle ideologie, le quali peraltro sono morte da sole. Oggi i cittadini sentono un vuoto, e se questo vuoto non viene colmato, c’è il rischio di un prevalere dell’economia sulla politica. Quando si guarda alla scena politica, l’economia occupa dal 70 all’80% dei problemi e un assioma assai diffuso tra gli uomini e le donne del mondo politico è che se non si conoscono bene i problemi economici è inutile voler diventare primo ministro o presidente del Consiglio.
Ma la politica non si riassume nell’economia. Se l’economia domina la politica, allora non si capisce dove risieda il ruolo di sintesi della politica.
Una seconda caratteristica che mi sembra molto importante è il fatto che la società è divenuta “emozionale”, occorre ben dirlo, sotto l’influenza dei media. Conosciamo gli eventi in tempo reale e abbiamo la tendenza a fare degli eventi quello che si fa in un McDonald: presto cotto, presto mangiato, presto digerito e presto dimenticato. Di conseguenza, è la tirannia del breve termine quella che ci minaccia, poiché senza memoria, senza radici e senza tradizioni non si può inventare un futuro. La società emozionale è senza dubbio uno dei maggiori rischi che minacciano attualmente il funzionamento della democrazia.

Terzo elemento, che un po’ è la controparte del precedente: l’emergere di una democrazia delle opinioni. Qualcuno ha detto: «Il XIX secolo era il secolo dei Parlamenti, il XX secolo è quello delle masse, il XXI sarà quello delle opinioni pubbliche». Questo emergere di una democrazia delle opinioni pone seri problemi. Che ne sarà dei Parlamenti? Essi votano le leggi, fanno dei dibattiti, ma che peso avranno agli occhi di un dirigente politico di fronte ad un sondaggio? La questione merita di essere affrontata. E per quanto riguarda i mediatori della società, quali sono i dirigenti di organizzazioni di datori di lavoro, sindacali, agricole, e così via, che cosa possono fare? Lavorare anch’essi a colpi di sondaggi? Credo che siamo in grado di comprendere ciò che vuole la società, e come funziona. In altre parole, senza trascurare i sondaggi, bisogna saper riflettere sui bisogni e sulle aspettative dei cittadini: è questo il dovere della società civile organizzata.
Ultimo elemento, per concludere: le difficoltà di gestire lo Stato nazionale, sballottato fra il “globale” e il “locale”. Se si aggiunge questo elemento alla democrazia delle opinioni, si può avere un’idea del cantiere che abbiamo davanti. Molti statisti ragionano “globalmente”. Ma i cittadini ragionano “localmente” e sono preoccupati di fronte a questo mondo globale che non riescono a padroneggiare. Riconciliare il “globale” e il “locale” è quindi un elemento essenziale per restituire alla politica tutta la sua dignità ed efficacia.
Cioè: è indispensabile il bisogno classico della mediazione, tra il cittadino e il potere, tra l’attore economico e sociale e il potere. Il bisogno di mediazione è ancora più vitale in una democrazia di opinioni. Occorre trovare il tempo della riflessione. Ed è anche per questo che la mediazione può aiutare a realizzare il buon governo della società civile. E, oltre a questo, servono competenze di fronte alla crescente complessità dei problemi: gli enigmi della scienza, l’ossessione della nostra società del rischio zero rafforzata anche qui dalla società emozionale. Il rischio zero non esiste. La vita è un’avventura e ciascuno deve assumersi le proprie responsabilità, si tratti di diossina, di mucca pazza, di manipolazione genetica, di droga, o quant’altro. Così come c’è bisogno di una nuova sintesi tra il mercato e il contratto sociale. Il mercato è aperto, ma, come ognuno sa, ha i suoi limiti, è miope, non abbraccia gli interessi a lungo termine, e in ciò che concerne i beni collettivi non esprime i bisogni, non regolamenta le attività, come sarebbe auspicabile. Di conseguenza, si ha bisogno di un minimo di regole del gioco, e ciò implica ascolto, concertazione, negoziazione.
In ultima sintesi: a me sembra che tutto questo giustifichi il bisogno di una società civile organizzata che dovrà auscultare costantemente la società civile in senso lato. Ciò vuol dire svolgere un ruolo pioniere in questa democrazia europea reinventata.

   
   
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