Marzo 2001

PROVOCAZIONI

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Bodini 1962-1972-1983:
quale edizione?
Ennio Bonea
 
 

 

 

Era un modo
per opporsi alla
stagnante atmosfera tardoromantica
e postcarducciana della cultura leccese contro la quale
Bodini arriva
ad immaginare una carica di dinamite.

 

1) Trent’anni dalla morte di Vittorio Bodini.
Le commemorazioni rituali e un’eccezione

Il 19 dicembre 1970 moriva a Roma, a soli 56 anni, Vittorio Bodini, stroncato da una cirrosi epatica, può darsi contratta dal suo indefettibile amore per il whisky. Aveva scritto, nel 1965, nella raccolta Zeta:

  Preda di vermi salpiamo su legni infelici
[ma ancora vivi
uniti dalla vana misericordia
d’essere contemporanei
e così albeggia l’albero dell’alcool
mentre sfioriamo con le dita tra il musco
[dei divani
il nostro teschio tenero e spavaldo.
(Night III)

A trent’anni dalla morte, verrebbe il bisogno di rammentarlo, raccontando qualche episodio inedito, invece si procede per consuetudine ad un ricordo stereotipo che nulla aggiunge a quanto si sa.
Così è stato per “Quotidiano”, il 19 dicembre 2000, con gli articoli di Giorgio Barba e di Rina Durante; così è stato, due giorni prima, per il nuovo “Corriere del Mezzogiorno” con un ricordo anodino di Enzo Mansueto, mentre in uno stelloncino laterale Raffaele Gorgoni Barsi lamentava che Lecce era «troppo distratta per ricordarlo», sia da parte delle istituzioni, che dall’università, come era per Bari e per Roma. E’ la sorte di chi non è stato letterato e poeta di corte o di fazione, come Vittorio Bodini. Egli non ebbe uno sponsor, come Carlo Levi per Rocco Scotellaro. Levi infatti, l’anno seguente alla sua morte, nel 1954, gli fece vincere il Viareggio con la raccolta da lui costruita, E’ fatto giorno, pubblicata nella collana “Lo Specchio” di Mondadori. Bodini non si intruppò nel gruppo marxista dei neorealisti.
Non possiamo ipotizzare sorte diversa da quella che ha avuto; ma mi chiedo: è mai possibile che studiosi che si occuparono di lui, nel convegno a dieci anni dalla morte, a Lecce (10-12 dicembre 1980), nel ripubblicare quello studio, non ritocchino d’un solo rigo quanto scrissero in quella occasione?

Nel 1996 Mario Petrucciani nel suo libro di saggi intitolato Ipotesi per Dino Campana ed altri studi (Salv. Sciascia ed., Caltanissetta-Roma) ha ripubblicato la relazione che tenne a Lecce su Vittorio Bodini; essa è del tutto identica a quella che apparve in Le terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini, Atti dei convegni di Roma (1-2-3 dic. 1980), di Bari (9 dic. 1980) e Lecce (10-11-12 dic. 1980), a cura di O. Macrì, E. Bonea, D. Valli; Congedo, Galatina, 1984, pp. 840.
Erano cinquantuno saggi di altrettanti studiosi e una lunga lirica in dialetto magliese, intitolata A Bbudini (331 vv.). Il saggio di Petrucciani, intitolato Del carro immobile e di altri emblemi sulla poesia di Vittorio Bodini, dopo sedici anni è rimasto identico: nessuna aggiunta o revisione. Il critico ribadisce a pag. 93 del saggio ristampato: «non vada sopravvalutata, o tirata in ballo ogni momento, neppure la categoria del surrealismo». Le sole modifiche apportate attengono al testo di riferimento: «abbiamo aggiornato sia le citazioni poetiche che quelle critiche del Macrì all’edizione 1983»; cioè le citazioni poetiche, quattordici complessivamente, fanno riferimento non all’edizione del 1972, Vittorio Bodini, Poesie 1939-1970, Mondadori, Milano, ma alla successiva del 1983; Vittorio Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), a cura di Oreste Macrì, Oscar Mondadori, Milano.

Abbiamo fatto, nel citare il saggio di Petruc-ciani, due rilievi: il primo riguarda la poetica “non surrealista” di Bodini; il secondo le edizioni curate dallo stesso Macrì, fatte a undici anni di distanza, 1972 e 1983, sostanzialmente diverse, come si evince dai mutati riferimenti di Petrucciani.
Prima, però, di parlare sulla diversità delle edizioni e sulla atipica storia editoriale di questo sfortunato poeta, non posso tralasciare lo specifico taglio critico dato da Petrucciani per le implicazioni che vengono da un altro critico, Paolo Valesio.
Questi si è omologamente espresso negando a Bodini quello che io ritengo sia il suo tratto distintivo nella poesia italiana degli anni Cinquanta-Sessanta: l’essere un poeta surrealista, non solo per scelta estetica, ma, senza diminuirne il valore intrinseco, per imitazione dei suoi modelli spagnoli, meglio, andalusi.
Paolo Valesio, della Yale University, ha introdotto un libretto del giovane Michelangelo Zizzi, dottore di ricerca nel 1998 delle università di Catania e di Lecce, ed autore di un’analisi linguistica sulla poesia bodiniana, Il Sud e la luna, Levante editori, Bari, 1999, pp. 96.
Credo che Valesio, per gran parte dell’anno e da una decina d’anni, se non più, in USA, abbia conosciuto Bodini, sollecitato da Zizzi e attraverso l’Introduzione di Oreste Macrì del 1983 e, forse, anche leggendo il libro di Petrucciani Ipotesi per Dino Campana... (1996).
L’analisi di Valesio, valente comparatista, ha tocchi di suggestiva interpretazione, come ad esempio, tramite la “luna”, l’accostamento di Leopardi e Bodini, ben precisando che non c’è nessuna intenzione di stabilire un rapporto; ed inoltre coglie risonanze e rispondenze insospettate tra Bodini e Malaparte.
Ma mi ha lasciato perplesso quando, citando una studiosa padovana, Maria Emanuela Raffi, sul surrealismo francese di Breton e la antologia dei poeti surrealisti portoghesi di Antonio Tabucchi, sfiorando soltanto la “Generazione del Ventisette” (sic), emette il giudizio di superficiale penetrazione che «Bodini parte da una poesia delicatamente neorealistica e poi la stravolge dolcemente in una fantasmagoria temperata ed elegiaca». Non vedo come conciliare termini contrastanti come delicato e realistico e concetti come realismo ed elegia.
Così mi pare azzardato affermare: «Categorie come “surrealismo” e “barocco” sembrano troppo pesanti per caratterizzare la poesia di Bodini»; sembrerebbe che Valesio trascuri i due volumi bodiniani I poeti surrealisti spagnoli, Einaudi, 1963, poi, in nuova edizione a cura di Oreste Macrì, 1988.
Bodini, nel Saggio Introduttivo all’Antologia, aveva scritto: «Góngora fece da contraltare al surrealismo francese, riequilibrando e polarizzando nella nuova poesia spagnola quell’eterna esigenza iberica a un rapporto con la realtà a un livello teso, estremo, superreale» (p. LXII).
D’altro canto Macrì, nella Introduzione all’edizione del 1983, aveva ribadito il concetto, premettendo che nella propria poesia Bodini, dalla frequentazione, come traduttore, con il gruppo della “Generazione del Venticinque”, «rinvergina come un’alba di surrealismo primordiale, quasi prelinguistico-gestuale, onirico-materno» e aggiunge più avanti: «Il surrealismo spagnolo di Bodini si strema ai confini della parola: nel sospiro, nel balbettio, nel gesto, nel silenzio, nel vuoto d’animiche e tonali assenze in musica e colore d’asemantismo di pura presenza dell’anima, fino al non-sogno e al non-colore superlativi del sogno e del colore» (XXVIII).

L’eccezione

Mi fermo qui, per esaurire il primo dei due rilievi e per ribadire il principio che un poeta emarginato, ma così è anche per uno scrittore, un artista in genere, uno scienziato, specie se invadente e dissacratore, come fu Bodini, difficilmente vengono, non dico celebrati, ma semplicemente rammentati.
E’ destino che tocca a chi è fuori dall’area metropolitana, quella del potere editoriale, delle grandi gallerie, delle sale da concerto, la cui frequentazione spetta a quanti fanno parte del gruppo. Chi non ne fa parte, o perché periferico geograficamente o perché ha rifiutato di introdursi nel coro, è destinato alla sordina.
Talvolta però ci sono delle espressioni di vitalità insospettate, quasi incredibili, specialmente per il luogo dove si svolgono.
Devo riferire l’episodio, non per farmene vanto, ma perché merita sia conosciuto almeno da coloro che leggeranno questo saggio.
Sono stato invitato dal direttore della scuola elementare “A. Manzoni” di Aradeo, in provincia di Lecce, Antonio Errico, a celebrare il trentennio della morte di Vittorio Bodini, ai ragazzi delle quarte e quinte elementari!
Non mi meravigliai dell’invito, perché in questa scuola ero già andato nella primavera del 1999, per parlare ai ragazzi della scuola e ai cittadini del paese, autorità comprese, in una cerimonia ufficiale, per una antologia preparata dalla scuola. Le maestre avevano sperimentato nelle due ultime classi il confronto di lettura e di analisi di alcuni poeti salentini contemporanei, tra i quali c’era anche Vittorio Bodini; di essi si era fatta una breve antologia.
Non solo si erano lette una sessantina di poesie di Girolamo Comi (maestra Maria Giovanna Adami), di Vittorio Bodini (maestra Maria Rosaria Bove), di Vittorio Pagano e Antonio L. Verri (maestra Tiziana Faggiano), di Vittore Fiore (maestra Giuliana Gifuni), di Salvatore Toma (maestra Lucilla Vaglio) e del poeta dialettale magliese Nicola G. De Donno. Le stesse maestre avevano provveduto, nell’ordine precedente, alla traduzione in inglese, essendo la scuola abilitata ad impartire lezioni di lingua straniera. L’antologia ha come titolo Le nuvole e la pietra - Poeti salentini del Novecento - Antologia per la scuola, edizione propria, 1999, pp. 96. Il libro, capovolto, ha per titolo The clouds and the stone - Twentieth century poets of Salento - Anthology for school, pp. 94.
L’invito non mi meravigliò, ma confesso di aver provato una forte emozione quando trovai seduti di fronte a me, nella grande sala parrocchiale che ci ospitava, un centinaio di ragazzi con gli occhi su di me. Ebbi paura di non sapere trovare le parole acconce per ragazzi di nove, dieci anni, temevo di incepparmi nel cercare un linguaggio diverso da quello che avevo per decenni usato all’università.
In un attimo ebbi la sensazione che mi trovassi in una scena di teatro surreale, pensando nello stesso momento (sono rapidissimi i pensieri che seguono le forti emozioni), che dovevano essere almeno pazzi, se non aguzzini, il direttore didattico e le maestre ad obbligare questi bambini a leggere un poeta di difficile masticatura come Bodini, non tanto per il linguaggio quotidiano che fa entrare nella sua poesia, ma per i sintagmi inestricabili come “aggressiva cicala” o “Ho un mazzetto /di balconi e di capre” o, infine, per finire, “esule provincia”.
Ad esporle, queste cose che ho scritto, sembra sia passato del tempo, vi assicuro che in un momento le pensai tutte, finché cominciai a parlare, come se narrassi una favola, proprio quella di bambini che affrontano un terreno impervio e faticoso, sia pure aiutati e soccorsi da chi conosceva quel cammino. Ma avevo forti dubbi che avessero potuto assorbire l’eleganza parnassiana di Comi; l’estrosità linguistica e l’ermetismo... ermetico di Pagano; il localismo mentale di Fiore; il surrealismo un po’ burbanzoso di Toma e, per quanto mi riguardava tematicamente, l’ingrugnito rapporto di Bodini con il suo tempo e con i suoi contemporanei.
Non avevo tenuto conto del mio distacco dai bambini d’oggi, della mia scarsa esperienza del rapporto con i bambini, delle capacità pedagogiche di questi operatori e di quanto aveva scritto Antonio Errico ad inizio dell’antologia in Quasi una lettera ai lettori, rivolgendosi non tanto ai suoi “lettori-scolari”, ma piuttosto a quanti, esterni alla sua esperienza didattica, leggeranno il libro fuori dalla scuola.

Errico scrive, quasi a conclusione della sua quasi lettera: «Forse qualcuno vi dirà che sono difficili, che non sono poesie per bambini. Cercate di capirlo: non ha colpa. Nessuno gli ha fatto sentire il sapore di poesie così quand’era bambino. Per questo ha difficoltà adesso a capire. Forse ha anche paura. Da adulti è difficile imparare a nuotare, ad arrampicarsi su un albero, a fare capriole, a battere in modo perfetto un rigore. E poi che vi importa se non riuscirete a capire una parola, un verso, un’intera poesia. La poesia è anche questo mistero, è anche un qualcosa che resta incompreso, che si sottrae, che sfugge al nostro pensiero».
Ma la cosa più inimmaginabile avvenne quando io lessi, di Bodini, una lirica non compresa nella piccola antologia, Poesia triste alla poesia, quasi per tracciare il suo percorso vitale di poeta, con la sua scelta di servirsi della “scorciatoia”, cioè della sintesi e delle ellissi poetiche, e per significare la rarità della sua “ebbrezza” per risultati conseguiti e confessa che la vita gli costa “insofferenze”, “rotture” della “delicata trama d’affetti”, tanto da non avvertire “il delicato verde dell’estate” che si affaccia dalle sue finestre. Non gli resta che attendere “la mano di chi so”, purtroppo la morte, che lo colse a 56 anni, che potrà spegnere, egli pensa, l’angoscia che lo travolge ad ogni risveglio.
A questo punto, era evidente come tutto fosse predisposto, senza che io lo sapessi; uno ha levato la mano per chiedermi il significato di una lirica; un altro per rivolgermi una domanda e via via una serie di bambini si sono succeduti a stabilire un colloquio indiretto, fatto di domande e di risposte, quest’ultime non tutte calzanti perché le domande più assassine, alle quali non è sempre facile rispondere, vengono sempre dai bambini; riuscii tuttavia a cavarmela discretamente.

Di sorpresa in sorpresa: finite le domande, questa volta a quattro a quattro, a volte a due a due, i ragazzi, non dimentichiamo che sono alunni di quarta e quinta elementare, hanno “detto” a memoria, forse per mortificarmi avendo io detto che purtroppo oggi non si studia più a memoria, mentre essi conoscono tutte le parole (quando non sono fonemi) delle canzoni dei cantautori, le poesie dell’antologia bodiniana, mentre l’altra metà leggeva in inglese le traduzioni approntate dalle maestre.
Ritengo sia stata questa la cerimonia più valida e produttiva per celebrare, che vuol dire rendere noto a tutti, un poeta emarginato come Bodini. Più valida degli Atti del convegno del decennale della morte e più produttiva perché ognuno di noi sa che le cose imparate nelle scuole elementari, le poesie ritenute a memoria quando si è bambini, si rammentano per tutta la vita.
Quel direttore didattico ha consentito che decine di ragazzi salentini portino con sé e, a loro volta, possano spingere altri bambini, o anche uomini maturi, a conoscere un poeta della propria terra che difficilmente troveranno citato nelle storie letterarie circolanti nelle scuole italiane.


2) Tirocinio poetico di Bodini, le raccolte e l’edizione del 1962

Bodini diciottenne esordì come futurista sulla rivista “La voce del Salento”, (1930-1933), di Pietro Marti, storico e letterato di notevole rilevanza nella città di Lecce, padre di sua madre e perciò suo nonno, e sul mensile futurista di Ernesto Alvino “Vecchio e Nuovo” (1930-1932). Era un modo per opporsi alla stagnante atmosfera tardoromantica e postcarducciana della cultura leccese, da lui definita, in un articolo apparso sul settimanale tarantino “Voce del Popolo”, il 2 aprile 1932, «punto morto nella geografia futurista», contro la quale arriva ad immaginare una carica di dinamite, per distruggere «staticità monumentale, sentimentalismo imbecille, goffaggine provinciale».
Chi volesse ribellarsi alla opprimente nebbia intellettuale dei “passatisti” non poteva che abbracciare un movimento rivoluzionario, anche se nato più di venti anni prima, per scuotere la palude.
Bodini approfittò del coetaneo amico Mino Delle Site divenuto, sulla spinta del manifesto della pittura futurista, aeropittore (e tale rimase con riconoscimenti e successi, sino alla morte nel 1996), per allestire una mostra di pittura futurista, nel cuore del conservatorismo nobilesco e plutocratico, il Circolo del Littorio, il vecchio circolo dei signori.
Fu uno scandalo: la città della pittura dei paesisti Giuseppe Casciaro, Pietro Sidoti, Michele Palumbo, grandi pittori nel loro stile e nella loro compostezza riproduttiva della realtà circostante, veniva mortificata e offesa da un’assurda e scomposta invenzione di tratti e disegni che sconvolgevano la realtà (così pensavano... i benpensanti). Fu decretato il bando per i due impudenti disturbatori: Mino Delle Site si trasferì a Roma e lì è rimasto sino alla morte, pur tenendo continui contatti, con frequenti ritorni nella città degli affetti e delle amicizie. Bodini si impiegò al Nord e la frattura fu quasi insanabile, se nella prima raccolta scrisse:

  Qui non vorrei morire dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare.

Il primo distacco da Lecce fu quando, morto nel 1933 il nonno P. Marti, ed essendosi maturato da privatista nel 1934, Bodini si iscrisse all’università di Roma, ma dovette impiegarsi al R.A.C.I., l’attuale ACI. Fu mandato prima a Domodossola, quindi ad Asti e infine a Firenze, dove s’era trasferito come sede universitaria, e si laureò il 12 giugno 1940, con E. P. Lamanna, discutendo una tesi in filosofia: Teoria dell’incivilimento in G. D. Romagnosi.
Di questa breve permanenza fiorentina, dove, licenziatosi dal R.A.C.I., aveva insegnato lettere nel ginnasio inferiore di una scuola privata dei frati minori a Figline Valdarno, ci dà notizia Renato Aymone con la pubblicazione Firenze, scritto autobiografico inedito, nella monografia Vittorio Bodini-Poesia e poetica del Sud, Edisud, Salerno, 1980, pp. 148.

Non si tratta di uno scritto rifinito e disteso; sono appunti che consentono, tuttavia, di essere informati sull’apprendistato ermetico in una stagione in cui l’ermetismo fiorentino stava accumulando i rappresentanti che trovavano attrazione nella presenza di Eugenio Montale, trasferito da Genova dal ‘27, che aveva pubblicato proprio l’anno prima Le occasioni e teneva banco alle “Giubbe Rosse”. In quell’atmosfera, Bodini esordì come ermetico su “Letteratura” di A. Bonsanti; fu una conversione e una “depurazione” dal futurismo. Dopo avere sentito la dichiarazione di guerra, ritornò a Lecce, perché a Firenze, si legge in Aymone, «era difficilissimo avere una supplenza».
Nella temporanea “magione” fiorentina, a parte gli intrecci sentimentali con l’inglese Isobel Gerson, che ritroveremo al n. 2 delle undici liriche nella sequenza La luna dei Borboni, nella omonima raccolta del 1952: Isobel dalle braccia d’olio e al polso / il braccialetto con le bandiere d’Europa, ebbe rapporti con P. Bigongiari, che aveva esordito con Le figlie di Babilonia (1942), con Mario Luzi esordiente con La barca, precocemente nel 1935, con A. Parronchi, il cui esordio fu nel 1941, con I giorni sensibili, tutti suoi coetanei. Li ritrovò nella prima grande antologia, Lirica del Novecento, curata da L. Anceschi e S. Antonielli, edita da Vallecchi nel 1953; egli ne era stato escluso. Il risentimento fu espresso apertamente nella rivista “L’espe-rienza poetica” nel 1954, dovendo amaramente ammettere, nel 1956:

  Son maturato tardi. E’ la smania
di vivere troppo presto che m’ha tradito.
Non dare tempo al tempo. Vedere
la bellezza soffrendo
di non poterla usare.
Ho imparato tardi a accordare...
(4, Serie Stazzemese)

Quando tornò a Lecce, nell’ottobre 1941, ebbe una supplenza di Italiano e Latino al Liceo Classico “Colonna” di Galatina. Donato Moro, che fu suo alunno, lasciò uno stralcio della sua estrosità in un articolo apparso su “Il Galatino” del 14 gennaio 1971, a ridosso della morte di Vittorio, per rammentarlo.
Passò del tempo prima di pubblicare la sua prima raccolta, La luna dei Borboni, Ediz. della Meridiana, Milano, 1952. Negli anni che lo separano, Bodini con Macrì ebbero la responsabilità della terza pagina del settimanale della Federazione fascista della provincia di Lecce, “Vedetta Mediterranea”, dal 23 marzo 1941, primo numero, al 9 giugno 1941. Fu una terza pagina strepitosa, le collaborazioni venivano da tutta Italia, particolarmente da Firenze, dove Bodini e Macrì avevano studiato, ma apparivano anche traduzioni dallo spagnolo, data la tendenza dei curatori verso la letteratura spagnola, da poeti e scrittori americani e inglesi, con i quali da circa un anno c’era guerra. Inoltre, nella terza pagina non c’era un rigo che esaltasse l’impegno bellico e la certezza della vittoria.
Il direttore E. Alvino, fascista di indubbia intelligenza, fu dal federale posto di fronte alla scelta: o fuori gli “indifferenti” Bodini e Macrì o il giornale avrebbe taciuto.
I due “curatori” pensarono ad altro: Macrì andò a Parma, vinto un concorso di lettere, in una scuola media, e Bodini ebbe supplenze a Galatina e Lecce, e dopo la guerra andò in Spagna, come lettore di italiano all’università di Madrid, poi prolungò la trasferta madrilena come antiquario e, quel che più conta, scoprì i poeti andalusi che si chiamarono la “Generazione del Venticinque”, che nel 1963 maturarono per Bodini l’antologia I poeti surrealisti spagnoli, pubblicata da Einaudi, in due volumi, e riunendo: J. Larrea, G. Diego, R. Alberti, F. García Lorca, V. Aleixandre, L. Cernuda, J. M. Villa, M. Altolaguirre ed E. Prados.
Il disegno portò al lungo studio e alla intuizione della categoria letteraria del “surrealismo spagnolo”, respinto dagli stessi studiosi spagnoli per rifiuto di vedersi un’appendice del francese A. Breton, ma dallo stesso Bodini distinto da quello francese per l’influenza gongoriana. Esso orientò il poeta salentino al superamento dell’ermetismo che gli anni fiorentini e il sodalizio amicale di Oreste Macrì, che resterà per sempre il sacerdote-custode dell’ermetismo trasportato nella critica, avevano definito.
Dallo spagnolo, Bodini tradusse splendidamente per l’editore Einaudi: di Lorca il Teatro (1952), di Cervantes Don Chisciotte (1957), i già citati Poeti surrealisti spagnoli (1963), di Quevedo i Sonetti amorosi e morali (1965), di R. Alberti Degli Angeli (1966); per l’editore Lerici di J. Larrea, Visione celeste, di P. Salinas, Poesie (1958); per Scheiwiller, di V. Aleixandre, Picasso (1962), per Mondadori, ancora di R. Alberti, Il poeta nella strada (1969); mentre postumo, ancora per Einaudi, uscì Lazarillo de Tormes (1972), afferma Macrì nella Nota editoriale, depositato presso l’editore dal 1946!
Il rapporto con gli spagnoli non fu soltanto linguistico, ma coscienziale; Bodini sentì la Spagna sua seconda patria e, a parte l’amicizia fraterna con R. Alberti che scrisse una sofferta lirica a un anno dalla sua morte, egli assorbiva la forte suggestione della poesia spagnola in concordanza spirituale che lo allontanò, di fatto, dall’adesione al neorealismo e dalla militanza nei gruppi della sinistra culturale, anche perché aderì al movimento dell’on. Ruini, di cui fu segretario particolare per un certo periodo nel 1946 e responsabile leccese di Democrazia del Lavoro.
Bodini dette una sterzata definitiva alla sua vita disordinata, dal punto di vista esistenziale, quando per merito di Mario Sansone, preside della Facoltà di Lettere dell’università di Bari, ebbe nell’anno accademico 1957-‘58 l’incarico di Lingua e Letteratura Spagnola nell’università di Bari, dopo averlo tenuto l’anno prima nell’università di Lecce, appena nata per iniziativa autonoma delle province di Lecce, Brindisi e Taranto.
Nel 1962, riuscì, finalmente, a pubblicare con Mondadori il volume La luna dei Borboni e altre poesie, nella prestigiosa collana “Lo Specchio”.
E’ importante seguire la smilza paginetta che introduce la raccolta poetica, per rendersi conto della “strana” storia editoriale della sua opera. Il poeta scrive:

  «Questo libro si compone di due volumetti pubblicati in edizioni mal diffuse o introvabili: La luna dei Borboni (Meridiana, Milano, 1952) e Dopo la luna (Sciascia, Caltanissetta, 1956) e di una ventina di inediti. Dal primo libro, a cui corrispondono solo i primi tre gruppi dell’attuale, ho tolto “La pianura di rame” e l’intero gruppo “Vecchi versi-I (1939-41)” che apparteneva più al generico linguaggio poetico di quegli anni che a me. Tuttavia, perché non paia che io abbia voluto sopprimere le tracce di quegli inizi, ed anche, perché no?, per dare la misura di tutto il cammino e gli sforzi (e i vuoti) per trovare un linguaggio più libero e da poter dire mio, ho messo in appendice due composizioni di quel gruppo [il corsivo è mio]. Due inediti ho aggiunto alle poesie che facevano parte del primo libro: “La luce è un’altra bestia” e “I preti di paese”; poesie che, pur essendo posteriori sono nate nello spirito di quel libro, e quella è la loro data ideale. Per lo stesso motivo ho trasferito dal secondo al primo libro: “Piano si staccano”, “E infine aranci” e “Che erba hai in mano?”. Da Dopo la luna ho eliminato “Il cuore della Iole”. Le poesie di “Via De Angelis” e della “Serie stazzemese” sono inedite. La cronologia all’interno dei vari gruppi non è sempre rigorosa».

Bodini ha curato personalmente questa edizione del 1962. La breve prefazione, intitolata Preliminare, rivela la ricerca di un «linguaggio più libero e da poter dire mio»; quindi afferma «ho tolto», «ho aggiunto», infine: «ho trasferito», perché la presente edizione differisce per qualche aspetto da La luna dei Borboni (1952) e da Dopo la luna (1956).
E’ corretto l’errore di stampa nella edizione della Meridiana, del 1952; se si segue l’Indice, a pag. 33, non si trova “La pianura di rame”, ma il titolo “Vecchi versi I (1939-1941)”. (Ovviamente la stessa “zeppa” tipografica si ritrova nella edizione anastatica, in 400 copie, che la Banca Agricola Salentina fece stampare, “per gli amici”, nel 1987).
Ma a parte l’errore di numerazione, c’è l’espressa volontà di togliere dalla edizione eseguita da un editore principe, “Vecchi versi I (1939-1941)”. Bodini vuole fare iniziare la sua “vita poetica” nel 1945. La conferma viene dal fatto che “Altri versi 1945-1947” era “Vecchi versi II”, ora situato tra “Foglie di tabacco 1945-1947” e “La luna dei Borboni 1950-1951”, con l’ordine delle liriche mutato da 1 - 2 - 3 - 4 - 5 (del 1952) a 3 - 1 - 5 - 4 - 2 (del 1962).
Scrive ancora: «ho eliminato “Il cuore della Iole”», da Dopo la luna. Forse non ha avuto il coraggio di togliere le due poesie di “Vecchi versi I (1939-1941)”, pubblicandole, invece, a fine libro, in “Appendice”, riducendole a 2, da 4 che erano: “Proposito” e “San Gimignano”, egli scrive, «per dare la misura».
Con «ho aggiunto», ha inserito nel primo libro due poesie inedite: “La luce è un’altra bestia” e “I preti di paese”; e nella seconda raccolta gli inediti di “Via De Angelis” e della “Serie stazzemese”.
Con «ho trasferito», passa dal secondo al primo libro “Piano si staccano”, “E infine aranci” e “Che erba hai in mano?”. Esse confermano la considerazione finale del Preliminare che non sempre all’interno dei gruppi sia rispettata la cronologia.
Raffrontare le due raccolte è faticoso, ma l’autore ha la libertà di decidere ciò che va tolto e quel che va aggiunto, variandone la collocazione, anche in senso “quantitativo”.
Sul piano puramente statistico, e si comprenderà il valore nel prosieguo del saggio, l’edizione 1962, curata da Bodini, contiene un totale di settantasei (76) liriche nella sequenza:
Foglie di tabacco: dodici (12); Vecchi versi (1945-1947): sei (6); La luna dei Borboni (1950-1951): undici (11); Dopo la luna (1952-1955): ventotto (28); Via De Angelis (1956-1960): nove (9); Serie Stazzemese 1961: otto (8); Appendice, Vecchi versi I (1939-1941): due (2).
Le “Note” dell’edizione 1962 aboliscono quella di Calle del Pez, via madrilena di riferimento privato; viene omessa quella relativa alle Dediche dove si chiarisce che Vecchi versi I e II, facenti parte di una raccolta «che il tempo e l’inedito si sono incaricati di distruggere», erano dedicati a Giulia Massari, mentre a Francesco Barbieri Cocumola, e la quinta di Foglie di tabacco a Luciano De Rosa.
Dopo la luna è il 19° dei quaderni di “Galleria”, a cura di Leonardo Sciascia.
Il terzo libretto di poesie pubblicato da Bodini mentre era in vita è Metamor, edito da Vanni Scheiwiller, nelle edizioni All’insegna del pesce d’oro, pp. 46, in seicento copie numerate. Il libro è dedicato “A Valentina, mia figlia” (era nata il 12 settembre 1962).
Nella prima di copertina, cartonata, c’è sulla destra un disegno un po’ funereo: in verticale, con molti neri e qualche bianco, riecheggiante de Karolis, senza firma, con una piccola donna dal dorso nudo, con le mani e l’avambraccio bianco, che stringe la testa di un’altra giovane donna distesa, per la base della copertina, avvolta da un drappo nero, di cui appare solo il profilo del volto giovane. Non compare né il nome dell’autore, né il titolo del libro; si ritrovano solo alla pagina tre di risguardo.
Sono diciassette poesie. Ogni poesia è datata, dal 1962 al 1965, ma non disposte in progressione cronologica; sono stampate solo sulla pagina dispari, che ha di fronte la pagina pari, bianca.
Nell’edizione, a pag. 31, la poesia intitolata Night II ha in calce una nota che dice: v. 8 - tradita da strambi propositi proviene dal sonetto My Mistress’eyes are nothing like the Sun di Shakespeare nella traduzione di Alberto Rossi (Einaudi, 1952, pp. 307).

3) Le edizioni curate da Macrí nel 1972 e nel 1983

Oreste Macrì ha curato due edizioni Mondadori: la prima nella collana “Lo Specchio”, nel 1972: Vittorio Bodini, Poesie 1939-1970, pp. 162; la seconda nel 1983 negli “Oscar”: Vittorio Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), pp. 348.
Ambedue con ampia Introduzione: nel 1972: pp. XI-XLIX; nel 1983: pp. 5-84. Esaminerò l’edizione del 1972, rapportandola con quella curata da Bodini nel 1962 e quindi l’ultima edizione dell’Oscar con la precedente dello Specchio.

a) L’edizione Mondadori 1972

La corposa Introduzione del ‘72 parte dall’inedito carteggio di Macrì col poeta a partire dal 1939, «quando venne a visitarmi a Maglie», scrive il critico.
L’Archivio Bodini, pubblicato a cura dell’Archivio Centrale dello Stato, inventariato da Paola Caggiano De Azevedo, Margherita Martelli e Rita Notarianni, 1992, pp. 156, dopo l’acquisizione da parte dell’università di Lecce, registra la prima lettera a Macrì il 3 dicembre del 1940.
Il rapporto si basa sui consigli che il poeta chiede al critico sui progetti del “libro”; sull’impegno umano e politico; sulla dimora madrilena dall’autunno del ‘46 alla Pasqua del ‘49. Scrive nell’Introduzione Macrì: «La Spagna se la visse come una “donna”, se la giocò esistenzialmente e “liricamente” in senso spagnolo». Quindi passa all’esame de La luna, dei suoi scritti prosastici di taglio sociologico e poi delle due raccolte del 1952 e del 1956; soffermandosi sulla sua interpretazione del santo di Copertino e quindi di Metamor.
Della tradizione poetica scrive: «i sintagmi metrici sono prefabbricati nelle traduzioni dei poeti del ‘25, che avevano castiglianizzato il suréel di Breton e di Aragon»; fornisce l’esemplificazione dei “prestiti” o delle “appropriazioni”, da Alberti, Cernuda, Salinas, Lorca; passa poi alle interpretazioni critiche di D. Valli, che individua le quattro radici della poesia bodiniana: dimora, qualità, dinamica, significato salvifico; ritorna alle vicende umane dei suoi studi, delle traduzioni, ai rapporti amicali romani, alle distinzioni critiche con Pignotti e Raboni a proposito di malintesa poesia tecnologica; chiude con le fonti bibliografiche e con l’avvertimento di... qualcosa che verrà: «L’autore ci ha lasciato il suo fondo manoscritto-dattilografato molto ordinato in carpette e inserti...».
Macrì costruisce questa affascinante e babelica Introduzione, parlando del formarsi della poetica bodiniana, della comparazione tra la sua poesia e quella dei poeti più celebrati, da Shakespeare a Leopardi, Montale, agli andalusi della “Generazione del Venticinque”, degli affetti familiari con Antonella Minelli di Torchiarolo, sposata il 28 dicembre 1954, e della figlia Valentina, nata il 12 settembre 1962, alla quale dedica l’ultima raccolta pubblicata da vivo, Metamor. La chiude dicendo come si compone la presente edizione: essa «riproduce esattamente La luna dei Borboni del ‘62 e Metamor di Scheiwiller del ‘67; ho accennato alle scelte di Appunti di poesia, Zeta e Collage; completa La civiltà industriale o Poesie ovali (tutti titoli originali)».
Rispetto all’edizione 1962, redatta da Bodini, troviamo:
Appunti di poesia (1943-1961): ventidue (22) spezzoni poetici; tutti con titolo (Macrì non dice se siano originali i titoli), uno solo, il terz’ultimo, Lotte lontane, impalpabili no, è datato “ottobre ‘56”.
Segue: La luna dei Borboni e altre poesie (1945-1961): settantasei (76) liriche disposte nelle serie dell’edizione ‘62, con una sola variazione: Lydia Gutiérrez non riporta sotto il titolo “Caffè Greco, 1945”.
Segue: Zeta 1962-1969: dieci (10) liriche: Ci riflette, Poesia triste alla poesia, Credevo che credesse, Per conoscenza, Sera, Il poeta nel giorno del primo allunaggio deve cantare tutto il contrario: il mistero dell’uomo (e della donna) sulla terra, La passeggiata del poeta, L’angelo dei baffi, Antipoetica, Ostaggio.
Questa raccolta è completamente inedita, ma Macrì non ci dice la ragione per la quale è posta, in questa edizione ‘72, prima della raccolta pubblicata nel 1967 da Scheiwiller. L’indicazione delle date (1962-1969) avrebbe dovuto fare seguire questa raccolta a quella che invece segue.
Delle dieci liriche, la prima non è datata, la seconda è del luglio ‘67, la terza del 14 giugno 1965, la quarta del 26 nov. ‘65, la quinta 1959?, la sesta, Perugia 21 luglio 1969, la settima non è datata, l’ottava è del 20 maggio 1966, la nona del giugno 1968 e la decima dell’ottobre 1966.
Non va trascurato che Bodini avvertiva nel Preliminare del 1962 che non si deve gessificare la cronologia.
Dopo, viene Metamor 1962-1966: diciassette (17) liriche, senza progressione cronologica. E’ conforme all’edizione Scheiwiller, 1967, di Metamor; sola differenza è che la nota in calce a Night II viene inserita, come settima delle otto Note, prima dell’Indice.
Di questa raccolta Bodini scrive a Macrì, in una lettera del 10 febbraio 1969, in parte pubblicata nella Introduzione del 1972 a pag. XL: «Io [...] considero Metamor e gli inediti un libro traumatico, sostanzialmente e disperatamente teso a denunziare il totale smarrimento del reale e la sua ricerca senza fede. In esso l’elemento ludico non è che un mezzo per tentare di stabilire l’equilibrio sconvolto».
Con la raccolta, edita, il poeta ritiene che anche gli inediti (che Macrì conosce) costituiscano l’insieme «traumatico» nel quale si annulla l’elemento ludico che sinora ha dato qualche tregua al poeta. Per questo Macrì, teso alla “costruzione” del “suo” Bodini mitico, oltre che dire che «il progetto rimbaudiano è esattamente perpetrato», si assume il compito, sentendosene legittimato, di servirsi del «suo fondo manoscritto-dattilografato» per darci un Bodini a tutto tondo, non solo per quello edito.
Di seguito è la civiltà industriale o poesie ovali 1966-1970: ventiquattro (24) liriche, datate senza progressività cronologica, dal 1966 (una), 1967 (quattro), 1968 (quattro), 1969 (otto), 1970 (cinque), tutte, contrariamente alle altre raccolte, edite e inedite, in regolare progressione cronologica, con indicazione del mese e talvolta del giorno, contro le abitudini denunziate dal Preliminare dell’edizione 1972. Solo una, Palma, è datata 1957-1969, e l’ultima della raccolta, Sogno, è senza data.
Non so, né ci è stato rivelato, se questa sia l’ultima poesia che Vittorio ha scritto, visto che la penultima, datata giugno 1970 e intitolata Rapporto del consumo industriale, si apre con una struggente visione nostalgica della sua terra salentina; distese di vigneti e boschetti di alberi densi come dizionari, distrutti dal cemento:

  Dov’erano anfiteatri d’uve dizionari
[d’ombre
si alzano nidi di plastica di cemento
[di calcoli di gittata;

così l’ultima poesia si chiude, assommando negli ultimi versi i motivi della vita e della morte, con i simboli, materni li chiama Macrì, non consolatori, ma razionalmente radicati anche nei sogni:

  Solo allorché dai salici avremo appreso
a carezzarci lentamente
e dalla luna a scommettere contro di noi
potremo dire d’aver vissuto due volte.

Infine l’edizione del 1972 chiude con Collage 1970, spezzoni di versi accuratamente raccolti, e utilizzati dal poeta, come bene notano i suoi studiosi e cultori, proprio per la sua abitudine di segnare su qualsiasi pezzo di carta, pacchetto di sigarette, scatola di fiammiferi (Umberto Eco, per l’analoga sua abitudine, ha creato la rubrica “Bustina di Minerva” de “L’Espresso”, che non è la dea mitica, ma il modesto scatolo di fiammiferi).
Essi non hanno titolo e neppure una eguale misura versuale: da un verso, un emistichio anche, a quartine e passa. Non si possono descrivere, ma Macrì li ha contrappuntati con asterischi che dividono i vari spezzoni che risultano, pertanto, in numero di trentadue (32); è difficile computarli nella statistica sommatoria delle liriche.

b) L’edizione Oscar 1983

Questa cambia tutto, a partire dal titolo: Vittorio Bodini, Tutte le poesie (1932-1970), a cura di Oreste Macrì, Oscar Mondadori, Milano, 1983, pp. 348.
L’Introduzione del ‘72 era unitaria, divisa in quattro parti separate da asterischi e contava trentotto pagine (XI-XLIX). Quella dell’83 conta settantanove pagine (6-84), il formato Oscar, in sedicesimo, è ridotto rispetto al formato in ottavo delle edizioni normali, ma è anche vero che il carattere è inferiore di corpo; tuttavia va detto che la parte introduttiva arriva sino a pag. 71, mentre da pag. 72 a pag. 84 è compresa la Bibliografia dell’opera poetica. C’è qualche pagina in più.
Quel che risalta a prima vista, prima cioè di passare alla lettura, essa è divisa in quattordici paragrafi titolati.
Quando uscì più di diciassette anni fa, l’incipit mi lasciò perplesso: «La presente edizione che elimina l’anteriore del ‘72, Poesie 1939-1970, si articola in tre Parti...». Avremmo dovuto ormai mettere da parte l’edizione del ‘72, quella seguita alla morte di Vittorio, sulla quale, forse non solo io, ho segnato sui margini note, riferimenti, richiami a pagine precedenti o seguenti, impressioni e quanto insorge leggendo e rileggendo un poeta canonico per la cultura e la poesia salentina che egli da giovanissimo tentò di scuotere dall’immobilismo col futurismo.
Nei righi successivi della pagina, si materializzava la doglianza macriana di contare «in tutto 92 poesie per un arco di tempo dal 1945 al 1966», e si avvertiva che questa sarebbe stata una introduzione “di passaggio”, cioè non definitiva.
A fine pagina, infatti, si legge «di un’edizione con le lezioni varianti (propriamente critica), una descrizione particolareggiata di tale fondo manoscritto nel settore poetico per quanto concerne i formati e materiali delle carte, le collocazioni e forme delle scritture, ecc.».
Questo, il lavoro che Macrì si è assegnato, senza fare previsioni di anni di lavoro e da ...vivere, per dare a Bodini il posto nella sua immaginaria corte degli eletti, dove Bodini siede con Rimbaud, Montale, Campana, Lorca.
Sin dal titolo in copertina, Macrì arretra il terminus a quo fare iniziare la sua “storia poetica”. Nell’edizione ‘72, sotto il titolo generico Poesie, pone tra parentesi l’inizio del “fare” poetico di Bodini dal 1939, corrispondente ai “Vecchi versi” I e II, che il poeta, nella edizione del ‘62, aveva tolto, perché «apparteneva – aveva scritto nel Preliminare – più al generico linguaggio poetico di quegli anni che a me».

Qui, nel titolo generale Tutte le poesie, Macrì anticipa addirittura al 1932 il termine dal quale fa iniziare la “sua” storia.
Sia pure in Appendice (pp. 302-312), sono pubblicate le undici Poesie futuriste (1932-1933), pubblicate per la prima volta da A. L. Giannone, nel 1979.
Ma è tale l’infatuazione bodiniana, che Macrì in questa introduzione dedica al futurista 78 righi, soffermandosi sulla «precocissima maturità del Nostro», fino a «rilevare un esempio di riduzione arcadico-ungarettiana al minimo essenziale per poligenesi, non necessaria la fonte dell’Allegria, nella poesiola Cammino: “Il mio sogno / dolcemente / conduco / per mano, / lontano / come / da una lucente / vetrina / una bambina / grama”.
A queste esercitazioni «di fede futurista», che corrispondono ad un atteggiamento rivoltoso contro la palude leccese, il critico, a differenza dell’autore stesso che si affanna a dimostrare di essere “nato” nel 1945, afferma che «a cercare si trova di tutto in Zeta, nella Civiltà industriale o Poesie ovali, in Metamor, in Collage».
In questa edizione, lo schematismo, metodo esteriore di lavoro del critico magliese (non si dimentichi La teoria letteraria delle generazioni, ripubblicata a cura di Anna Dolfi da F. Cesati, Firenze, 1995), ha ordinato in sei parti, più l’Appendice futurista di cui si è parlato, l’opera poetica di Bodini.
Fa una fondamentale distinzione: Raccol-te edite in vita (Prima parte) Rac-colte INedite in vita (Seconda parte). Questa edizione non pubblica gli appunti di poesia, in numero di 22. Essi sono inseriti nella II P., in numero di 17 in Inediti; gli altri, con aggiunta di nuove liriche, trovate nelle cartelle, sono compresi come appunti di poesie (si noti il plurale) nella III P.
Le altre raccolte sono conformi all’edizione bodiniana del 1962, La luna dei Borboni e altre poesie, con l’aggiunta delle date (1945-1961), perfettamente nell’ordine e nella scansione delle raccolte e delle sezioni al loro interno, l’edizione ‘62, mentre nell’edizione ‘72 aggiunge Metamor; salta invece Zeta (1962-1969), situata nella II P., perché «inedita in vita».
In questa parte iniziano le operazioni di “sistemazione” compiute da Macrì, alle quali dobbiamo il credito che uno studioso serio come lui doveva e deve avere; ma egli stesso, lo abbiamo citato, avvertiva la necessità di un’edizione «propriamente critica».
Dopo gli Inediti, in numero di 21, tratti da Appunti di poesia, dallo stesso Macrì presentati nell’edizione ‘72, seguono le raccolte Zeta (1962-1969).
Continuano le differenze: nell’edizione ‘72 le poesie erano dieci, in questa sono divenute 14 e non più nell’ordine di successione, per aggiungere le liriche: Era sicuramente o Ciò che diventa San Gimignano vent’anni dopo; Domenica in Versilia; In treno (Biglietto a N. e a V.); Se; Le bende dell’estate. Una poesia, intitolata Sera, una delle dieci comprese nella edizione ‘72, in questa è stata posta, sempre in questa parte II, tra gli Inediti.
Segue La civiltà industriale o Poesie ovali (1966-1970); le 24 poesie sono riprodotte nell’ordine dell’edizione ‘72.
Infine Collage (1969-1970); va detto che in edizione ‘72 la data che appariva sotto il titolo era solo quella 1970; inoltre, la difficoltà che denunziavo presentando gli spezzoni distinti da asterischi è stata qui risolta dal critico, che ne ha ordinati 61, facendoli seguire dalle Note che nell’edizione precedente mancavano, con la didascalia: «Pongo qui i principali riscontri di Collage con altre poesie».
Nella recensione all’edizione Oscar, Mario Marti, filologo “assoluto”, avanza una amichevole ed accorta riserva: «in me continua a persistere qualche dubbio sull’esatta natura di Collage» (prima in “Corriere del Giorno” 31-7-1983; poi in Occasioni salentine, Lecce, 1986, p. 146); anche se più avanti la fa cadere, riconoscendo che «nessuno più di lui è autorizzato» a fissare i termini dell’opera di Bodini.
La parte terza è intitolata Appunti di Poesie residue e sparse. Si articola in sei parti, in certo senso “regionalizzate”, per rendere la biografia con motivazioni poetiche. Metodologia che va rispettata, anche se non condivisa.

C’è una “periodizzazione” della vicenda poetica di Bodini: è il poeta infatti che Macrì fa emergere con la tecnica del vasaio che egli, magliese, conosceva bene. I vasai modellano il vaso girando col piede la ruota che mette loro in condizione di guardare sempre dallo stesso punto, avendone la prospettiva totale sul piano di lavoro.
I sei “momenti” sono localizzati a: I Firenze 1939-1940: cinque poesie; II Lecce 1940-1944: nove poesie e cinque stelloncini dallo “Zibaldone leccese”; III Roma 1944-1946, con quaranta liriche; IV Spagna-Roma-Spagna 1946-1949, con diciotto interventi; V Lecce-Bari 1949-1960, con sessantacinque titoli; VI Roma 1960-1970, con ventitré poesie.
Dichiaro rispetto per il lavoro tremendo a cui Macrì si è sottoposto, cercando, confrontando, riesumando cose che il poeta aveva sepolto, ma mi chiedo se sia lecito, per dichiarato amore, fare l’operazione di “salvataggio” che ha compiuto Macrì, trascurando la paginetta, chiamata Preliminare, che precede l’edizione del 1962 da lui curata; avendo tolto da La luna dei Borboni il verso Un sole nero, con la poesia intitolata La pianura di rame, forse mirava a non svilire l’altro verso unico, di grande significato simbolico, della 12ª lirica della sequenza, dedicato a San Giuseppe da Copertino: Un monaco rissoso vola tra gli alberi.
La volontà esplicita del poeta non è stata rispettata, visto che la poesia e il verso sono compresi in AP (Appunti di poesie), pag. 287, seguita dall’altra lirica rifiutata: Il cuore della Iole.
Ho fatto riferimento spesso, nello svolgimento di questa piccola storia editoriale, alla statistica letteraria, ora in grande conto nella sezione concordantistica. L’ho fatto perché spinto dallo stesso Macrì, allorché sin dalla prima pagina di questa Introduzione, forse sconsolato, si riferisce al tempo di poesia e ai risultati conseguiti: «In tutto, 92 poesie, per un arco di tempo dal 1945 al 1966»; credo che egli si è imposto il compito di renderlo un poeta di non ridotte dimensioni, perché egli, suo amico fraterno, non aveva imbarazzo a collocarlo in una comunità eletta: «anche Bodini come Mallarmé e Juan Ramón, Guillén e Montale, aspirava a trascrivere il libro da donare all’umanità». Fu assillato dal portare alla luce le composizioni che egli non aveva pubblicato da vivo: Zeta e Civiltà industriale o Poesie ovali e quelle che, da vivo, aveva rinchiuso nelle sue cartelle scrupolosamente ordinate. Alla fine del lavoro faticoso e dopo avere ammesso che «molte poesie irrequiete passano qui da una raccolta all’altra», Macrì ha dato a se stesso un riconoscimento che lo soddisfaceva: «dopo queste avvertenze diamo il confronto tra edito e inedito secondo le sei fasi degli Appunti; per le 312 poesie».
Lascio ad un critico, che molta parte ha avuto nella cultura e nella letteratura italiana del ‘900, Carlo Bo, la definizione del rapporto Bodini-Macrì: «Bodini ha avuto la fortuna – scrisse Bo recensendo l’Oscar 1983 sul “Corriere della Sera”, il 17 agosto 1983 – la fortuna di trovare in Oreste Macrì il suo interprete più fedele e anche uno storico imperterrito dei suoi movimenti e della sua evoluzione».
Forse però, per troppo amore, diventando creativo.

Altre edizioni:

1980 - V.B., Poesie (1939-1970), Congedo ed., Galatina, pp. 160.
1980 - V.B., The Hands of the South, The Charioteer Press, Washington, pp. 48, Translations by Ruth Feldman and Brian Swann.
1991 - Mancino-Bodini, Editr. Il Ventaglio, pp. 32.
1996 - V.B. Poesie, Besa, Lecce, pp. 142. Con 24 disegni dell’autore.
1997 - V.B. Tutte le poesie, a cura di Oreste Macrì. Besa, Lecce, pp. 236. Solo in quarta di copertina, si legge dopo la schematica biografia dell’autore: «Questa edizione di Tutte le poesie, che segue il volume Poesie pubblicate da Besa, si conforma sostanzialmente, previa revisione, a quella “Oscar” Mondadori del 1983. Più che una ristampa, in effetti, è una sua continuazione o reviviscenza».
Non accenna alla furia sconvolgente che invase O. Macrì, quando venne a sapere che la Mondadori aveva deciso di mandare al macero le copie invendute dell’Oscar in questione. La sua furia contro Berlusconi, così diceva come se da lui dipendesse la decisione, fu devastante e continua. La Besa non ci dice se abbia acquistato i diritti. Ma così fu.

   
   
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