Giugno 2002

CONFRONTI APERTI

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Salvatore Toma poeta discusso
Mario Marti
 
 

“All’amico Michele Dell’Aquila, insigne studioso anche della letteratura in Puglia”

 

E Toma ne esce assolutamente
diverso,
anzi defigurato, trasformato,
perché quella
compattezza
unitaria e coerente del Canzoniere non appartiene a lui ma alla Corti.

  La bibliografia su Salvatore Toma ha raggiunto ormai un livello piuttosto notevole per qualità e per quantità. Questo singolare e, in qualche misura, strano ed eccentrico “poeta”, nato a Maglie nel 1951 e ivi morto nel 1987 a trentasei anni, ha attirato su di sé l’attenzione di studiosi come Oreste Macrì, Donato Valli, Gaetano Chiappini, oltre che di militanti letterati che gli furono anche amici, come Nicola De Donno, Antonio Verri, Claudio Micolano, Maurizio Nocera ed altri (fra i quali vanno ricordati almeno Claudia De Lorenzis, Giuliana Coppola e Antonio Errico).
Ma il merito di averne notato per primo il temperamento e di averlo insomma, come si dice, scoperto e lanciato, spetta a Nicola De Donno, negli anni in cui fu docente e preside del Liceo “Capece” (a Maglie), per aver pubblicato già nel gennaio del 1978 (Toma era ancora sconosciuto e in crescita) una bella e impegnata recensione delle sue Poesie scelte (Catanzaro, Ursini, 1977), cioè di quella che era già la terza raccolta di poesie di lui, dopo Poesie. Prime rondini (Roma, Gabrieli, 1970) e dopo Ad esempio una vacanza. (A Babi) (Roma, Gabrieli, 1972).
De Donno coglieva, sia pure nella rapidità recensoria, alcuni specifici temi presenti in quell’avvio, e che furono presenti anche in seguito, affermando di trovarsi «di fronte a un ingegno poetico naturale e, al suo livello, ineluttabile», cui, per altro, riteneva appunto di dover chiedere «proprio un po’ più di letterarietà, o di professionalità poetica».
Questa primizia della storia della critica tomiana è stata poi ristampata nel volume miscellaneo Salvatore Toma poeta, pubblicato, nel marzo del 1999, dalle “Edizioni del Liceo Capece” di Maglie, a cura dello stesso De Donno. Il quale vi ha anche compilato la bibliografia finale del Toma (con la registrazione delle poesie di lui sparse in effemeridi prima della morte), e quella sul Toma. D’altronde, nello stesso volume del Liceo “Capece” sono riprodotti per intero, oltre alla prima recensione del De Donno or ora ricordata, e ad una sua seconda del dicembre del 1978 (su Un anno in sospeso), alcuni fra i più importanti contributi critici: e cioè la prefazione di Donato Valli a Ancóra un anno del ‘78 (alle pp. 65-69); il saggio di Oreste Macrì sull’Albero dell’’80 (ma diffuso nell’82) su Nuova poesia nel Salento europeo. Naturalismo fiabesco e selvaggio di Salvatore Toma (alle pp. 71-91), con la sua successiva breve presentazione di Forse ci siamo del 1983 (alle pp. 93-94); un affabile scritto dell’amico fraterno Antonio Verri, Il poeta dei liburni e dei corbezzoli, apparso in “Sudpuglia” nel 1986 (alle pp. 95-101); e infine alcune pagine inedite di Claudio Micolano, Salvatore Toma poeta maudit?, scritte appositamente per l’occasione del volume (alle pp. 237-250). E già in breve parte pubblicata, ma ampliata e completata, compare poi una lunga e minuziosa analisi di Nicola De Donno condotta esclusivamente sulle prime due opere del Toma, intitolata, appunto, La poesia di Salvatore Toma nelle opere prime (alle pp. 111-232, un vero e proprio libro nel libro). Il quadro complessivo dei giudizi critici più incisivi può apparire, in tal modo, pressoché completo. Ma occorre aggiungere almeno l’altro studio di Claudio Micolano su Salvatore Toma: il mondo, la poesia; e quello di Gaetano Chiappini, Per Salvatore Toma, poeta in esilio, i quali non compaiono nel volume del Liceo “Capece”.
Non avrei alcuna difficoltà ad ammettere, se qualcuno me lo facesse notare, che questa serie di notizie bibliografiche, puramente informativa, non offre utilità alcuna per la comprensione di un personaggio, per giunta così strano e complesso (e complessato), come Salvatore Toma. Tuttavia essa potrebbe intanto documentare la verità del mio asserto d’apertura, forse un po’ perentorio; e senza voler proprio delimitare una vera e propria area di storia della critica tomiana, come opportunamente si faceva un tempo (per il mio maestro Luigi Russo a Pisa era sempre d’obbligo nelle tesi di laurea), potrebbe valere anche per dare l’avvio (sulle orme del volume del Liceo) ad una assai più proficua rassegna di giudizi critici e di tentativi storiografici.
Fondamentale appare, per esempio, il pensiero di Donato Valli (introduzione a Ancóra un anno), sia per la rilevazione delle coordinate di quella raccolta, sia – e in particolare – per il forte influsso da lui esercitato sulla critica successiva. Alludo principalmente alla formulazione delle tre “reversibilità” ravvisate da Valli in quel libro del Toma: quella da uomo ad animale; l’altra fra sogno e realtà; e la terza, infine, della diade vita-morte; con supporto di meditate considerazioni. Questa formulazione ha goduto di particolare fortuna; mentre sono rimaste molto in ombra altre sue osservazioni non meno giuste e non meno meditate, ma assai cautelative o anche apertamente negative. Per esempio: «Il poeta magliese ha compensato la sua solitudine con una mitopoiesi turgidamente e a volte truculentamente affocata e barocca» (p. 65).
Oreste Macrì a sua volta propone l’ipotesi di un «naturalismo fiabesco e selvaggio» (p. 71 e sgg;), allargando la visuale critica di Valli sulle regioni del simbolismo europeo: «Lo stesso incanto planetario e spaziale emana dalle visioni di Toma naïf e maudit, attinte ai grandi liberatori dell’umana fantasia» (p. 77). Ma nella sua prefazione a Forse ci siamo sembra che egli ripieghi in qualche dubbio, e comunque corregga in qualche modo il tiro, quando avverte che l’aggettivo “selvaggio” dovrebbe essere inteso piuttosto come allusivo alla “selva” edenica, «segreta nelle pieghe umane dei grandi poeti romantici e simbolisti» (p. 94), «nella pura linea del grande simbolismo europeo» (p. 93). Anche De Donno punta, in buona sostanza, sul “naïf” («ingegno poetico naturale», p. 103; «condizione poetica nativa», p. 108) e sempre di tipo simbolistico; e sul maledettismo («Era però una confusione, questa, di poesia con vita, in cui era intricato anche lui. Tragica, a conti fatti», ...«sempre più beffardo, sempre più dissacratore, sempre più maudit», p. 234). E analizzando le due prime raccolte egli è portato a sopravvalutare parecchio, mi pare, per la benignità, la simpatia, la generosità critica di chi guarda con una sorta di compiaciuta tenerezza alla creatura che ha visto nascere e concrescere giorno dopo giorno sotto i suoi occhi. Tuttavia par ben chiaro, a questo proposito, che Poesie. Prime rondini, pubblicato nel ‘70 e contenente poesie del ‘68, quando Toma era appena diciassettenne, è insomma ancora il libro di un ragazzo, che ha appena letto Ungaretti e ne è rimasto colpito: «Sibilando il capo / di vita / ogni contagio / evolvo / nell’ignoto»; oppure: «D’aironi / intorno / una / quiete». E anche par chiaro che il breve “canzoniere” diciamo pure d’amore, diviso in dodici pezzi, d’un realismo becero e talora volgare e sconcio in lingua violentemente truculenta (sorprendente e incredibile in un ragazzo), press’a poco dello stesso periodo, cioè Ad esempio una vacanza. (A Babi), è qualificabile, pur generosamente, solo come peccato di gioventù. E di queste due prime raccolte poetiche del Toma sarà bene non parlare più.
Antonio Verri, Il poeta dei liburni e dei corbezzoli, letterato anch’egli anticonformista e intriso d’avanguardia (e molto amico di Salvatore Toma) giuoca, ovviamente, sulle consonanze psicologiche e ideologiche; rivela e rileva certi importanti aspetti della vita privata e del carattere dell’amico («permaloso, sofisticato, artistocratico si firma “Il Sommo”, oppure “A Great Poet”, p. 100); ne sottolinea, sia pur con benevola comprensione, la virulenza stilistica («Toma è feroce, è sanguinario come tutti i veri poeti», p. 98), gode maliziosamente di una sua «favolosa ironia» («Toma è un colossale bagno di trovate, è il poeta che da sempreha capito tutto...», p. 98), di un suo navigato candore («può essere un bambinone, può avere ossessioni erotiche», ivi); indicazioni assolutamente attendibili e preziose, trattandosi dell’amico fraterno Antonio Verri. Il quale, poi, per un giudizio strettamente critico (vistosamente eluso, di fronte alle precisazioni biografiche) non trova di meglio che rifugiarsi in Oreste Macrì («...non abbiamo detto granché della poesia... Volendo farlo, non possiamo che sottoscrivere le intuizioni-resoconto che Macrì ha steso» da par suo, p. 101).
E nelle pagine di Claudio Micolano, che nel libro del “Capece” chiudono felicemente la silloge dei critici, l’autore mette in discussione la formula del “poeta maledetto”, nel tentativo, ben giustificato mi pare, di ricondurre Toma a una più credibile misura umana e, si direbbe, a una paesana realtà. Per il che egli avverte di riallacciarsi al suo precedente studio su Toma, altrove pubblicato e già da noi ricordato, nel quale (p. 199), fra l’altro, Micolano afferma che il Toma «ritrova se stesso» quand’è «libero da ogni irritante provocazione, che lo spinga a farsi provocatore»; dove par logico che l’«irritante provocazione» proviene dall’esterno, se è proprio essa che “spinge” poi Toma a farsi provocatore, dalla vita stessa cioè, dalla società, dai rapporti umani. Ma questo non par sempre vero nello specifico, e non tutto vero nella generalità dell’ipotesi; e anzi offre qui il destro per affermare che invece l’impulso primigenio deve essere collocato piuttosto, e sistematicamente, nello sregolato estro, nel compiaciuto anticonformismo e nella palese ostentazione e dell’uno e dell’altro. Lo attestano le sue tre raccolte pubblicate fra il ‘79 e l’83, nell’ordine: Un anno in sospeso (maggio 1977 - luglio 1978), Poggibonsi, Lalli, 1979; Ancóra un anno, Cavallino, Capone, 1981; Forse ci siamo, Lecce, Pensionante dei Saraceni, 1983; ripercorse, lo ricordiamo, con carezzevole analisi diacronica da Gaetano Chiappini, nel suo già allegato Per Salvatore Toma poeta in esilio. Suggestivo, questo “esilio”, come tentativo sistematico di «confluire in una figura altra, liberata ed elevata sulle misure più bieche della quotidianità non accettata o del tutto respinta per non conformità» (p. 23). E lo attestano le tante poesie successive pubblicate qua e là in effemeridi locali e opportunamente messe insieme nel prezioso volume del “Capece” di Maglie; così come quegli occasionali pensieri zibaldoneschi dell’adolescenza (febbraio ‘68 - settembre ‘70), quelle Nere carezze di Salvatore Toma (non ancora ventenne), tematicamente scelti e ordinati per la rivista “Sudpuglia”.
Riesce difficile capire se i titoli del trittico (Un anno in sospeso; Ancóra un anno; Forse ci siamo), evidentemente collegati fra loro e interdipendenti, intendano riferirsi al progressivo decorso mortale dovuto all’abuso dell’alcol, come vogliono alcuni, oppure al progressivo maturarsi poetico tappa dopo tappa, come presumono altri. Io propenderei per questa seconda ipotesi, considerata la crescente fissazione di Toma di sentirsi e definirsi e proclamarsi, senza ombra di ironia, a quanto propongono amici e lettere, “A Great Poet”, oppure “The Highest”, e la volontà di vivere la propria vicenda come vero e proprio “atto poetico” («Un grande poeta / si riconosce anche / dalla vita che fa...», Un anno 70; «Leopardi / era gobbo / pidocchioso / sporco e malaticcio... ma è / per tutte queste cose / cari miei / se è un uomo che vale / e se è anche / un poeta immortale...», Forse, 34).

All’inizio del 1999 esce, presso l’editore Einaudi di Torino, il n. 277 della pregiata “Collezione di poesia”, recante in copertina l’indicazione seguente: Salvatore Toma, Canzoniere della morte, a cura di Maria Corti (pp. 112). Con l’acume filologico e demiurgico che la Corti, scomparsa di recente, possedeva in ammirevole grado (univa in sé, com’è ben noto, rigorosa acribia e fertile fantasia di narratrice), ella ha ripercorso la vicenda umana di Salvatore Toma, da lei personalmente conosciuto nel Salento, e ha riattraversato monotematicamente (“Canzoniere della morte”) la sua produzione poetica, che non aveva mancato di avallare lei stessa occasionalmente a suo tempo, facendo pubblicare cinque pezzi di lui sull’“Alfabeta” del 18 ottobre 1980. Certo: con quella precisa indicazione bibliografica e con quel titolo il lettore anche specializzato (anzi, ancor più se specializzato), è portato fatalmente a pensare che Toma abbia proprio composto lui quel Canzoniere, che è invece frutto della cura di Maria Corti; talché egli cadrebbe, senza rendersene conto, in un falso storico e in un inganno ideologico. In un falso storico: perché Toma non ha mai composto, né si è mai proposto o ha pensato di comporre una sua opera poetica intitolata Canzoniere della morte; e per giunta ben divisa in tre parti, poggiate sulla base delle tre “reversibilità” fissate da Valli, come a suo luogo s’è detto. Noi le abbiamo già ricordate, le autentiche opere poetiche di Toma, da lui personalmente stampate; così come personalmente egli curò la stampa delle poesie sparse, che ora, fortunatamente, sono raccolte nel volume del Liceo “Capece” (pp. 17-50 e 56-57).
E cadrebbe anche, il lettore, in un falso ideologico: perché la Corti, nella sua breve ma suadente introduzione, punta tutte le proprie carte sul tema della morte in Toma; tema per altro da lei considerato come «la voce più profonda dell’io di un poeta maledetto [si noti!], che chiude col suicidio la sua vita” (p. IX).
Ma Toma non fu suicida, anche se un progressivo abuso di alcol gli affrettò la morte a trentasei anni, ed egli ne aveva coscienza e responsabilità, tanto da ricorrere – lo si sa – a tentativi di disintossicazione. Toma morì per diabete etilico nell’ospedale di Gagliano del Capo (Lecce), dove si era ricoverato (1987).
E il tema della morte, certo, è uno dei suoi magari più insistiti e compiaciuti; che però tanto vale, nel complesso della produzione tomiana, quanto quello della vita, intesa come vitalità estroversa, dinamica, come anticonformismo, esplosività, ribellione, e perfino violenza truculenta («Apri le braccia stìrati / spacca tutto emergi / perché tu sei vivo / tu sei vivo...», Forse ci siamo 31); con assai frequente inserimento di toni ironici, e più ancora sarcastici e irridenti. La scelta operata dalla Corti per il cosiddetto Canzoniere della morte, è insomma una scelta monodica e unilaterale, rigorosamente mirata alla interpretazione generale del poeta maudit, a favore della quale è sistematicamente strumentalizzata. Ma se assai discutibile è il maudit, come s’è detto, sicuramente non vero è l’atto suicida, come si è anche detto. E Toma ne esce dunque assolutamente diverso, anzi defigurato, trasformato, perché quella compattezza unitaria e coerente del Canzoniere non appartiene a lui, al Toma, ma alla Corti. La quale ha curato l’edizione dopo avere scelto le poesie cavandole dalle varie opere, dopo averle raccolte insieme, e ordinate e sistemate infine in organico “Canzoniere”.
E valga il certo. Il Canzoniere messo insieme dalla Corti contiene 79 poesie di Toma, delle quali 17 erano inedite, tratte da quaderni privati di varia epoca. Inoltre 2 sono ricavate dalle Poesie scelte (1977), 15 da Un anno in sospeso (1979), 30 da Ancóra un anno (1981), 9 da Forse ci siamo (1983); infine 5, non comprese in volume, compaiono anche nel “Capece”. Di una, “Mostrava le rotondità” (Corti 77), non mi è stato possibile indicare, pur con qualche ricerca, la princeps; e ho piantato lì. Bisogna tuttavia riconoscere che quasi di sfuggita e come tra parentesi la Corti avverte di questo fatto nella sua introduzione. «Si è scelto – ella scrive – di costruire una selettiva antologia in tre parti o sezioni sui tre temi che sono fondamentali nell’ispirazione dell’artista» (p. VI); ma poi, a operazione conclusa, si propone il Canzoniere della morte, e specialmente la sua prima omonima parte, come se fosse creazione di Toma, da lui insomma ideata e composta: «E’ come se questo poeta selvaggio e ribelle possedesse due anime, una pia e l’altra, quella veramente sua, fantastica, dominata dagli impulsi del proprio immaginario. E così è nato questo strano “Canzoniere della morte...”...». (p. IX). Ed ecco, dunque, Toma «poeta maledetto» (p. IX), e «poeta visionario» (p. VIII), teso verso un «surreale onirico» (p. VII), e infine «suicida» (p. V e p. IX).
Questa edizione Einaudi, d’altra parte, ha dato origine anche a un serio problema filologico di fondo, per via delle differenze esistenti tra i testi come sono dati dalla Corti e i testi pubblicati, per via diretta, dallo stesso Toma. Non starò qui a segnalare quelle che riguardano lo stacco e la numerazione delle strofe, non certo importanti, ma insomma visibili; e neanche quelle che possono essere considerate frutto di refusi o di mala correzione delle bozze o di distrazioni meccaniche; e certo gioverà sorvolare su altre, che possono sembrare anche esse poco importanti, ma sono degne di chiarimento filologico e difficilmente riferibili a cause esterne. Mi limiterò a rappresentare i tre casi più gravi, che inducono a riflettere sul problema:

1) Corti 50 stampa un lungo pezzo, intitolato “Agli indiani d’America”. In Capece 56 il titolo invece è “La verità” (e cfr. gli ultimi due versi: «La verità / arriverà» con dedica «A Pagano e agli indiani d’America». Ora, in una lettera di Toma a Verri (timbro postale del 23 marzo 1986), pubblicata in “Sudpuglia”, il primo raccomandava al secondo: «Togli la dedica “Per gli Indiani d’America”; e mettici “A Vittorio Pagano” o semplicemente “A Vittorio”. Questa ultima la trovo più onesta». Le differenze anche editoriali e testuali fra Corti e Capece sono piuttosto notevoli: fra l’altro la seconda e la terza strofa risultano rovesciate fra di loro, e la generale disposizione dei versi è sensibilmente diversa.

2) Corti 52 reca: «Nella notte color cobalto»; e Corti 53: «Sotto cieli ottenebrati», due pezzi autonomi e indipendenti. I quali invece in Capece 42 risultano essere rispettivamente quinta e quarta strofa di una lunga poesia intitolata La pittura della voce e pubblicata su “Accademia Le tout Rome” nel 1985.

3) Corti 104 stampa: “Un giorno di questi” in due strofe; le quali invece risultano essere la terza e la quarta dell’omonima poesia in Capece 49 (e già in “In cantiere” 1988), con varianti nella disposizione dei versi.

Tuttavia il problema non sembra di tale entità da inficiare o modificare la generale fisionomia e la produzione di Toma, anche se è da considerare determinante per una criticamente esatta riproduzione dei testi. A me pare che almeno andava fatta oggetto di scrupolosa informazione; e dunque doverosamente prospettato.
E ora entriamo davvero nel vivo. Nell’ultima raccolta da lui pubblicata, Forse ci siamo, e dunque della sua piena maturità e della sua estrema produzione, Salvatore Toma offre di sé, a conclusione, il seguente “Autoritratto”, che val la pena davvero di portare a conoscenza del magari ignaro lettore:

  Salvatore Toma è nato a Maglie l’11-12 maggio 1951 e qui è morto nell’agosto del 1968 in seguito a una colluttazione d’amore. Ma non erano passate che poche ore dal suo disastroso decesso, che il cielo lo rispedì sulla terra per mancanza di prove. Ora vive su un’enorme quercia, si nutre di beffe e raramente guarda a terra. Ma più che per le sue divine poesie, Salvatore Toma è famoso per la sua acrobatica precisione nel beccare il vasino, abilità maturata col fatto che non volendo scendere mai più dall’albero, i monellacci del luogo glielo spostavano, divertendosi a vedere come se la cavava. Ed è appunto per questo incalcolabile virtuosismo che nel 1993 ha vinto il premio Nobel. Si narra che in quell’occasione, unanimemente richiesto di esibirsi, i giudici scapparono in tutte le direzioni come pazzi inferociti, ma furono da lui tutti puntualmente beccati anche a distanze mostruose.
In questi ultimi tempi gli è presa la fissazione dei fumetti, ma guai a portarglieli perché sbraita come una bestia! quei maledetti monellacci, ora che lo scherzo del vasino non funziona più, gli hanno messo in testa che i fumetti sono dei meravigliosi dolcetti che si fanno in provincia di Rovigo!
Poveri poeti!
Scherzi a parte, Salvatore Toma è un tipo decente, presentabile, un po’ volutamente folle, ma in definitiva un buono. E’ sposato con una cara moglie-madre, piovutagli dal cielo (senza colluttazione... perciò è sfortunato al gioco) e ha due strepitosi bambini che gli fanno da papà e gli stanno sempre appresso, perché se lo perdono d’occhio un istante, ma solo un istante, lo si ritrova subito su quella maledetta querciaccia...
Capito ora?

La data del 1993, fissata per il “premio Nobel”, qui non è un errore di stampa, considerato che Forse ci siamo (dove appare questo “Autoritratto”) è del 1983 e che Toma morì nel marzo del 1987; e così è per la data della prima morte, 1968, probabilmente quella della sconfitta del suo primo amore. Naturalmente la citazione, della cui necessaria lunghezza chiedo venia, non vale solo per sé – e sarebbe già tanto –, per il suo ostentato e compiaciuto, definiamolo così, bonariamente e generosamente, goliardismo (una costante tematica), ma anche per quello che suggerisce e per quello a cui, per molteplici vie, si riferisce. Per esempio, ai giudizi sulla letteratura, sui letterati e sugli intellettuali in genere, ai quali Toma dedica Un anno in sospeso (1979) nel modo seguente, per via della loro qualità di soci ordinari dell’AISdP, cioè – egli spiega – dell’Associazione Internazionale Stanchi di Parole, una trovata davvero “faceta”:

  Agli illustri intellettuali italiani...
a questi bizzarri incompresi
patrioti a tavolino
benestanti e mangioni
e anche un poco cacaroni
a questi bravi ragazzi innocenti
un po’ effeminati
un po’ depravati
e anche un poco invecchiati.

Il critico letterario è per Toma un «caro erudito / civilizzato rincoglionito», che deve risvegliarsi dal suo stupido torpore (Un anno 73) e non perdere il suo tempo in velenosi convegni organizzati soltanto – dice lui – per diabolica volontà di demolizione (Forse 14):

  ne ho visti di trucidati
in luridi convegni
indagati frugati fustigati
menzognificati e sfruttati
imbavagliati di motivi inesistenti
storpiati reinventati...

Chi sa a quali personali “ingiustizie”, e a quali mai meschine e provinciali diatribe, a quali liti e rivalità (considerata l’area provinciale dell’osservazione) intende riferirsi questa esplosione d’accumulo verbale, di totale resa al gusto puro dell’orecchio, ravvivata e mossa – si fa per dire – da irridente spirito, diciamo ancora, benevolmente, satirico e burlesco. Lo stesso spirito, per esempio, che opera in modo più evidente, ma anche più sguaiato e sconcio, nel manifesto ai “Cari concittadini” (Forse 49):

  E’ da anni che vado a diarrea...
è da anni che al bagno
non faccio un bel stronzo colossale
di quelli che ti senti realizzato
eppure di stronzi ne conosco
ne sono normalmente circondato.

Altro che canzoniere della morte! E mi perdoni il lettore per queste citazioni (e tante altre analoghe e anche più scioccanti se ne potrebbero addurre), che io però ritengo indispensabili per un giudizio serio e veritiero su Toma. So bene che altre volte lo “scherzo” è sofisticato e meno volgare (Capece 48):

  Stanotte ho sognato
di entrare in tabaccheria
a comprare una
scatola di moscerini
sull’autostrada
ho acceso una retta
e nel fumo
ho ritrovato la via.

“Tabaccheria”, per comprare una “scatola di moscerini”? “Acceso una retta”? Qualcuno – suggestione delle parole – ha pensato addirittura a una misteriosa carica di “simbolismo”, venato magari di “ermetismo”. In realtà Toma si diverte a prendere per il bavero il critico “rincoglionito”, perché quei suoi “moscerini” sono soltanto una subdola manipolazione di “cerini”; e “retta” una enigmatica accorciatura di “sigaretta”.

Ecco: Toma “scherzava” così, sapeva scherzare principalmente così. E certo egli si diverte a far la burletta, quando tramuta metaforicamente se stesso in adirato Dio dell’Oceano, con l’ascia in mano (Capece 49), pronto a spaccar tutto, «uomini case / tappeti persiani / auto semafori / e vigili urbani” con un piglio che, francamente, ricorda più certe famose sbruffonate di Cecco Angiolieri, che il “maledettissimo” nientemeno di Rimbaud. Al quale poi Salvatore Toma si rivolge davvero con famigliare piglio, spiegando finalmente («non hanno ancora capito») che «a scrivere poesie / ti sei solo divertito. // Hai giocato sincero / perciò ci sei riuscito» (Capece 47). E siffatto Rimbaud (“Rembò” egli volgarizza), che si diverte, par proprio lo specchio di Toma, anche per altre numerose ragioni che emergono evidenti dalle sue “Storie per Rimbaud” (Capece 46-47); come emergono anche da altri passi e si ripetono: «Il poeta è un uomo / un poco morto / e conosce cose orrende / chissà come / per questo ride di voi / di tutti voi» (Un anno 83). E qui anzi è sintomatico il coniugio tra la “conoscenza” poetica («chi sa come», le illuminazioni) e il tema della morte («un poco morto»), con atteggiamento palesemente ludico, e insomma con lo sberleffo beffardamente “goliardico”.

Ecco: questo atteggiamento costituisce il verso del tema della morte; il quale, dunque, anche esso, ne risulta tante volte contagiato. Per esempio: il poeta teneramente al “suo amore”, divenuto scocciatamente lamentoso, ha chiesto: «ma cosa ti fa male di meno / la testa o la pancia? / la pancia, mi rispose; / fu così che le tagliai la testa» (Forse 23). Un’altra volta egli sente sul collo il soffio fatale: «Eccola che arriva...è lei... / prepàrati... / Ma lei chi, scusa? / Lei no? ... la morte (...) / sù prepàrati... / non fare il cretino proprio ora... / abbi pazienza...» (Forse 25). Uno “scherzo” piuttosto macabro e nero.
Poeta maledetto? Io penso invece che è proprio questa spinta ludica e dissacrante a indurre Toma, dall’interno stesso della sua scrittura, a comporre (o a scomporre) poesie come le due seguenti (qui riprodotte solo in piccola parte), a segnacolo di insofferenza e di gratuita ribellione anche alle più elementari regole della buona creanza letteraria:

  Ti stanno cadendo i capelli
l’hai scoperto oggi pettinandoti
allo specchio ma te lo
aveva detto sorridendo
anche tua moglie ricordi?
ti lacera il pensiero d’invec
chiare ma oggi c’è la
partita di calcio la
tua squadra...

E ancora, in modo più oltranzistico e provocatorio:

  E’ di Roma la bellissima donna che
con sufficienza mi passa davanti e
sale in bmw. La guardo a lungo l’i
dea mi fa stramazzare...ma è pien
a di soldi avrà certo la villa for
se due tre cento... la serena como
dità dei vizi si vede che viaggia molto
possiede il mare il mondo in un ca
priccio che cazzo gli posso fare io con
le mie poesie?...

E così per almeno dieci altri – chiamiamoli – versi. Attenzione: la riproduzione è assolutamente fedele; e le due poesie si leggono entrambe in Forse ci siamo, rispettivamente a p. 57 e a p. 32, con la data del “23.1.1982” e «3.5.1981”.
Naturalmente questi sono due casi limite, ma ben significativi – mi pare – di una irrazionale e arbitraria condizione di rifiuto che non ha niente a che fare né con l’avanguardia (la legge dell’épater les bourgeois), né, tanto meno, col maledettismo; e molto, invece, con un’autoesaltazione beffardamente ludica e sornionamente megalomane. In un componimento dell’84, “Il mio ‘68”, Salvatore Toma della sua Tina dice, fra l’altro, in un giuoco di calembours palese e insistito (Capece 29-30):

  Ti ho vista in comitiva
sei vispa come una vespa
quelle vere s’intende
ma anche quelle fatte dopo
non sono mica male. Sei
come dice il tuo segno
una ecoegocentrica [...]
Sei vispa mia cara
troppo vispa per vespro
come me. Non saremmo
senz’altro andati d’accordo
ma almeno
l’avremmo saputo
un po’ visprato. Ci resta
il gusto guasto dell’usato [...]
Sei un disastro un disarmo
un rostro un mostro...

Le vespe «fatte dopo» sono, ovviamente, le motorette (uncino d’analogia).
E in altra poesia dello stesso ultimo tempo (1984) egli lamenta che, siccome è innamorato, «mi guarda brutto / mia ma / mio pa / mio fra / e quello subito dopo / mi fulmina al volo / mi guardano brutto / al matt/al mezz / la sera / che palle! / non sanno / che io mi guardo brutto da solo» (Capece 36). Proprio così: “ma”, “pa”, “fra”, cioè “madre”, “padre”, “fratello”; e poi “al mattino”, “al mezzogiorno”, “la sera”. Alla maniera del “cacao meravigliao”.
Questa infrenabile tensione ludica e irrazionale, irridente e beffarda, megalomane e strabiliante è una delle costanti più vistose nella produzione di Toma; e simboleggia bene il tipo di vita da lui effettivamente condotto e da lui giocosamente (e un po’ volgarmente) celebrato ed esaltato nel già riprodotto “Autoritratto”, che è appunto dello stesso tempo. Essa pare invece attenuarsi o addirittura placarsi, quando, in un modo o nell’altro, Toma entra in contatto affabile e consensuale con la natura e con la vita degli animali.
Allora vengono fuori pezzi notevoli, mentre, quasi per automatica conseguenza, la lingua riacquista misura, la metrica osserva una certa organica e armoniosa libertà, e scompaiono quasi del tutto i più vistosi e fastidiosi espedienti tecnico-stilistici, facili da utilizzare e da manovrare anche da parte di un autodidatta qual era Toma, e dunque da lui prediletti fin da sempre. Toma non aveva remore a ricorrervi: le replicazioni a fine di maggior rilievo, la tecnica ossimorica scioccante già di per sé, ma spesso conclusa con una boutade, le riprese che allargano artificiosamente l’ampiezza illusoria del respiro, le anafore inesistenti con ritmo di sciarada, le truculenti impennate parenetiche e suasorie, le allitterazioni compiaciute, i banali giuochi di parole, il falso demiurgismo lessicale atto a mascherare la sostanziale debolezza del possesso del vocabolario, e via di questo passo.
Toma riesce ad essere poeta (quando lo è) più per via di istinto che di coscienza vera d’arte. Ed ecco allora splendide poesie, come “Sul nostro scoglio”, “Spesso penso alla morte”, (in Un anno in sospeso); “Il falco lanario”, “L’alba vitrea avvolgeva”, “Alla deriva”, “Ninna nanna per Giovanni” (in Ancóra un anno); “L’ora più bella del mondo”, “Buttate foglie sui morti”, “Ma cosa ne è stato” (in Forse ci siamo); “Vento leggero che parli” (sulla copertina del Canzoniere della morte); e aggiungiamo pure un eccetera. Vere improvvise gemme su una larga anellatura ferrigna e disuguale, grezza e d’impulso.
Quella anellatura improvvida, costituita dalla tessitura abituale dei modi espressivi di Toma, soggiace inerme e inerte alle incontrollate esplosioni psicologiche e ai capricci dell’estro; onde la mobilità irriducibile dell’immagine di lui come “poeta”. Il quale ora appare come un istrione, ora come un malinconico nostalgico; ora truculento e spaccatutto, ora delicato e sensibile. Fatto sta che Toma sotto l’urgenza del momento e dell’istinto, non riesce ad elaborare e a dominare il proprio linguaggio, anzi finisce per esserne dominato, per l’abbandono all’autocompiacimento e per l’incapacità di reagire all’impeto, nella carenza dell’equilibrio espressivo e dell’adeguazione dialettica. Di qui quell’impressione di dismisura, di acre disarmonia, di sproporzione, che percorre la sua produzione complessivamente considerata, improvvida e ferrigna anellatura di un ambizioso autodidatta; di qui la grata sorpresa delle occasionali istintive gemme.
Sotto questo aspetto direi che è davvero mancata fin qui la storia della critica tomiana, anche la più incisiva; la quale direi che si è lasciata sedurre dalla singolarità biografica e contenutistica del personaggio e delle sue “poesie”, dal suo modo strano e singolare di esistere, di esplodere, di comportarsi, e infine, se si vuole, anche di morire (la sua quercia, i suoi animali, le sue smargiassate, l’alcol supremo).
Essa, in linea di massima, mi pare che abbia scambiato per oggettivo valore poetico e letterario una scioccante eccentricità biografica ed esistenziale, confessata e sottolineata per altro anche dal Toma nei suoi scritti. Ricordate? «Un grande poeta / si riconosce anche / dalla vita che fa...» (Un anno 70); e Leopardi «era gobbo / pidocchioso [...] / girava come un rottame, / e per poco non abbaiava / Eh! eh! eh! eh! ma è / per tutte queste cose / cari miei / se è un uomo che vale / e se è anche un poeta immortale» (Forse 34).
Legittimo il pensarlo, ci mancherebbe! Ma par illegittimo invece (anche per gli studiosi di Toma) credere che “tutte queste cose”, e le altre a loro consimili e analoghe, costituiscano di per sé “poesia”, qualora siano in qualche modo espresse; e valgano davvero a procurare “immortalità” a chi estrosamente, ludicamente, quasi gaudiosamente, le gestisce.

   
   
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